· Città del Vaticano ·

La storia Alessandra Mureddu, autrice del romanzo «Azzardo»

Non cercavo ricchezza ma solo amore

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07 aprile 2024

Infili una banconota dietro l’altra dentro la macchinetta, spingi un bottone e... Per la verità non c’è molto da aspettare, solo il tempo di un brivido che ti attraversa da capo a piedi. Poi, sia se hai vinto o perso, risali sulla giostrina. Un altro giro e un altro ancora inseguendo un sogno che non è quasi mai un sogno di ricchezza.

Alessandra Mureddu ha raccontato la sua storia di giocatrice patologica in un romanzo: Azzardo (Einaudi, 2023) che ha suscitato un notevole interesse da parte della critica e successo nelle librerie.

Alessandra, ci vuole un certo coraggio a “mettere in piazza” le proprie sofferenze e le proprie debolezze. Perché hai deciso di scrivere questo libro, o dobbiamo dire questa autobiografia?

Io non lo so se si tratta di coraggio o di incoscienza, so che questa del gioco è la mia storia, una storia che ancora pesava dentro. Durante un corso di scrittura autobiografica, nel 2019, ci è stato chiesto appunto di scrivere una storia autobiografica che potesse avere anche un interesse di carattere generale: io ho scritto del gioco. Il longform che ne uscì fu pubblicato dalla scuola su una rivista letteraria online, “Doppiozero”, e da lì Einaudi “pescò” per propormi poi un contratto. Quindi da un breve racconto è poi nato un piccolo libro.

Sono stata anche fortunata, quindi. Scrivere la mia storia ha significato, per me, prenderne un po’ le distanze, vederla attraverso gli occhi di altri, condividerne il peso. Non me ne sono pentita anche per le dimostrazioni di affetto e di solidarietà che ne sono conseguite.

Come è cominciata la tua dipendenza?

Ero una giovane donna di 40 anni, bene inserita nel tessuto sociale. Avevo un lavoro, un fidanzato e un amore spropositato per mio padre. Era un uomo molto rigido e io cercavo continuamente la sua approvazione. Cercavo l’amore di papà, senza trovarlo. Un giorno mia madre si accorse che papà, già in pensione, non tornava più a casa negli orari canonici. Allora, in virtù del legame forte che avevo con lui, ho iniziato a pedinarlo e mi sono accorta che andava in una sala bingo e giocava.

Quando l’ho trovato lì, non riuscivo a capire come potessero stare insieme una figura come la sua — un uomo di grande personalità, un avvocato di successo — con un ambiente senza finestre, privo di luci naturali, un posto che avrei definito degradato e ambiguo, se non fosse stato per il fatto che a lui risultava familiare: conosceva tutti e tutti lo salutavano. Mio padre mi fece vedere i giochi e poi mise una sedia davanti alla slot, accanto alla sua. “Mettiti seduta e guarda tu stessa”, mi disse. Mi infilò una banconota nella mano e mi disse di inserirla nella macchinetta. Vinsi 900 euro. Ero imbarazzata. Mi vergognavo. Ma, per la prima volta nella mia vita, sentii mio padre dirmi: “Brava! Bravissima!!!”.

E poi cosa è successo?

Quando ho detto a mia madre che papà andava in una sala giochi non mi ha risposto in modo preoccupato: era convinta che ci fosse un’altra donna e quella rivelazione, in un certo senso, la sollevava. Ma nessuna delle due si rendeva conto allora che la slot era sua amante.

Poi, quando aprirono una sala giochi sotto casa mia, ricordandomi di quell’episodio vissuto con mio padre, andai all’inaugurazione. Non avevo collegato il gioco al piacere. Stava finendo il rapporto con la persona con cui convivevo. Stavo rimanendo sola, così come ero rimasta sola perché mio padre si dedicava al gioco. E allora andai in quella sala. Mi presentai di fronte alla stessa slot che utilizzava mio padre ed iniziai a giocare. Da lì ad un anno mi ritrovai dipendente.

Hai parlato di gioco e di piacere. Che cosa ti attraeva così tanto?

Mi piaceva, soprattutto, la ritualità della partecipazione al gioco: mi offrivano l’aperitivo, spesso la cena, mi accudivano con grande premura. Io indossavo un tunicone nero, che copriva interamente i 20 chili che avevo preso. Non sapevo più a quale genere appartenessi, non avevo più una mia sessualità, una mia intimità. Alla fine mi sentivo anche io una macchina.

Ho sempre conservato il mio lavoro, ma appena uscivo dall’ufficio entravo nella sala giochi. Tutti i giorni, compreso il sabato e la domenica. E d’estate, quando ero in vacanza a Tarvisio, andavo tutti i giorni al casinò di Granisca Gora. La mia dipendenza è stata un crescendo, una progressione. In tutto circa 9 anni di seguito. Il mio cane è stata l’unica creatura che, chiamandomi ad una cura responsabile, non mi ha fatto andare alla deriva.

Quand’è che pensi di aver toccato il fondo?

Il punto più basso l’ho toccato quando, finiti i soldi, ho chiesto a mia madre di darmi i suoi ori. Lei non si è opposta: mi ha fatto andare a casa e mi ha lasciato prendere tutto. Ho sempre avuto la sensazione di rubarli sotto gli occhi dei miei genitori, autorizzata da loro. Tutto quello che ho ricavato l’ho rigiocato e perso in pochissimi giorni. Quando mia madre è morta di covid nel 2020, all’ospedale mi hanno ridato tutto quello che aveva indosso: solo una catenina, perché tutto il resto l’avevo cambiato in soldi e giocato.

Cosa è accaduto che ti ha spinto a cercare di uscire dalla dipendenza?

Ero in sala, un pomeriggio, e mentre gioco noto alcune signore, anche piuttosto eleganti, andare in bagno e tornare, e farlo diverse volte. Mi sento chiamare da un uomo che lavorava nella sala giochi: “Alessandra, lascia stare”, mi dice. “Vuoi ridurti anche tu come quelle donne? Hanno finito i soldi e vanno in bagno per prostituirsi. Vai via di qua, non venire più”.

Quelle parole mi hanno sconvolta. Ci ho pensato per mesi pur continuando a frequentare la sala giochi.

Ma poi nei sei uscita. Come?

Ero stremata, avevo toccato il fondo, non ero più in condizione di andare avanti. Ma mi renevo conto che da sola non ce l’avrei fatta. Avevo bisogno di aiuto. Così ho chiamato l’associazione “giocatori anonimi” ed ho iniziato a frequentare i loro incontri. È stato un lungo, tormentato, liberatorio percorso terapeutico. Ora sono più di quattro anni che non gioco più.

Ancora oggi partecipo agli incontri settimanali dell’associazione: la mia esperienza è la testimonianza che dal gioco patologico si può uscire definitivamente, con l’aiuto di persone che hanno già vissuto questa esperienza e che si occupano di dipendenze.

Mario Guerra