· Città del Vaticano ·

È la vita che è difficile

 È  la vita  che è difficile  ODS-020
07 aprile 2024

Un giorno Vittorio entra in un bar di Porta Maggiore a bere un caffè. È il 2001. È in pausa. Ha ancora diversi appuntamenti di lavoro — qualche spazio pubblicitario da vendere. C’è il sole. Della volatilità, del generatore di numeri pseudo-casuali e della percentuale di rtp (return to player, la percentuale degli incassi restituita al giocatore) non sa ancora niente, ma Vittorio è un po’ abbacchiato, quel pomeriggio, e in tutti i suoi 47 anni non ha mai davvero scommesso, se non qualche numero di Topolino nelle partite a carte con gli amici d’infanzia. Proprio per questo, accesa una sigaretta, inserisce una moneta nella slot machine che si è appena liberata, preme un pulsante e osserva le Liberty Bell sui rulli rotanti. Gioca. Vittorio gioca le monete che ha. Gioca il tempo. E come per i soldi, il tempo che Vittorio consacrerà al gioco d’azzardo nel decennio che segue risulterà incalcolabile. È l’inizio di una fine.

«Io non saprei dire perché ho iniziato», mi dice. «Non saprei dire neanche come ho finito».

Vittorio ha una voce tremula. La voce di un uomo che sembra sempre dubitare, nonostante la barba bianca del marinaio saggio. Ma le sopracciglia ancora nere e folte, le borse sotto gli occhi, lo sguardo mite non sono affatto spie di incertezza. Tra le rughe della fronte c’è fermezza, forse ancora un po’ dell’insolenza del giocatore. C’è una storia che Vittorio ripensa tamburellando le dita sul capo, una storia di battaglie perse da ricostruire per capire perché, in un pomeriggio d’inverno, mi trovo all’ostello della Caritas a parlare di ludopatia.

La storia comincia a Mantova, dove Vittorio è nato nel 1954. Prigioniero in Germania, liberato dai russi, ufficiale dell’esercito e sempre fedele al Re, giocatore di poker fino a quando non mette su famiglia, il padre di Vittorio porta con sé moglie e figli nelle città dove viene destinato, prima in Italia, poi in Belgio, a Mons e a Bruxelles. Di nuovo in Italia, dopo un breve periodo a Salò, arrivano a Roma, dove Vittorio termina una goffa carriera scolastica.

Sono gli anni di piombo. Mentre l’Italia è sconvolta dalle stragi di Brescia e dell’Italicus, per Vittorio è l’anno del servizio di leva. Va a Pisa, dove indossa il basco amaranto della Folgore. Ma sull’esercito, come sulla scuola e come su ogni forma di ordine costituito, Vittorio non sembra voler scommettere.

«Ma perché» gli chiedo, «con un padre ufficiale, non hai scelto la carriera militare?».

«Lascia perdere», mi fa. «Quello è uno dei tanti errori che ho fatto nella mia vita».

«Pentito?».

Vittorio inarca le sopracciglia. È un sì, ma anche un no.

«Là c’è la disciplina, e io con la disciplina non ci ho mai azzeccato molto».

Ride. È una delle sue risate aride e strozzate. Quando riprende fiato, sembra tornare da un lungo pianto. Forse la colpa è del fumo — ha iniziato a sei anni. Forse Vittorio ha sempre riso così, anche da bambino. O forse succedono cose, nella vita, che cambiano il tuo modo di ridere.

Vittorio torna a Roma. Fa diversi lavori, vive la città. Gli piace la politica, ha le sue idee, la sua identità. Si iscrive al msi e si occupa della campagna elettorale di Vito Miceli. Poco dopo, con una lettera di Almirante, Vittorio è assunto al «Secolo d’Italia». Fa l’archivista, scrive articoli di cronaca. Scopre però di non amare quel mondo. Tutte quelle scadenze e gli orari da rispettare, l’ordine dei giornalisti, le regole del giornale. Un giorno, con l’impulsività del giocatore che sarebbe diventato, Vittorio strappa il proprio cartellino e se ne va. Ha trentun anni. Non ha un lavoro.

«E cosa hai fatto?».

Vittorio ride.

«Mi sono sposato».

Francisca è di Capo Verde. Si incontrano in un locale dalle parti di Porta Pia. E si innamorano. Lei ha un figlio di cinque anni, Dario, che è stata costretta a lasciare in orfanotrofio per le difficoltà economiche. Si sposano nella chiesa di Sant’Anna, in Vaticano, non senza qualche ostacolo — e le immancabili invettive di Vittorio contro le regole da seguire.

Vanno a vivere vicino a Cinecittà, in una casa dell’ inpgi . Vittorio trova lavoro nel giornale «Porta Portese». È un periodo felice.

«Dario mi ha chiesto» gli dice un giorno Francisca, «se può chiamarti papà».

Vittorio non si fa attendere. Parla con un avvocato, riempie e firma tutti i moduli per l’adozione e in poco tempo Dario è a casa con loro. Si porta dietro l’odore dell’aceto con cui gli lavavano i capelli in orfanotrofio. A causa del forcipe usato durante il parto, Dario ha un occhio più piccolo dell’altro. È un bambino arguto. È buono.

È la prima volta che la voce di Vittorio si spezza. Mette una mano sugli occhi. Ripensa a quel pomeriggio del 1987. Dario fa i compiti per scuola. Vittorio si avvicina, si siede accanto a lui.

«Sono difficili i compiti?» gli chiede.

Dario ha sette anni, ma le sue parole non hanno età.

«Non sono difficili i compiti, papà», risponde. «È la vita che è difficile».

Vittorio non sa rispondere. Dario torna a colorare. Torna il silenzio. Quel bambino sa cosa ha appena detto? Si può dire una cosa del genere e poi tornare a colorare come se nulla fosse? Vittorio è ammirato e spaventato. Ripensa adesso a quel pomeriggio del 1987 e poi al Natale del 1990 e al caffè del 2001, e tutto sembrerebbe così logico, quasi prevedibile. È il 25 dicembre 1990 e Dario gira per la città con la bicicletta che Vittorio gli ha appena regalato. Ha dieci anni. Sa di non doversi allontanare da casa, ma ha una bicicletta nuova ed è così felice che pedalerebbe fino alla Luna. Un’auto però lo investe mentre attraversa la strada, e Dario muore dopo pochi secondi così, riverso a terra, da solo, senza madre e senza padre. Vittorio ricorda la gente che corre, le urla, i pugni sul petto dolorante, poi il giorno che diventa notte e la notte sempre più notte e i giorni e gli anni che scorrono nel piccolo schermo della vita, la nascita delle figlie, il ritorno in politica, le battaglie del Terzo Municipio, le delusioni, la fine delle cose.

«Io non saprei dire come ho iniziato» dice. «Non ho scusanti».

Da quel pomeriggio del 2001, le pause di Vittorio si fanno sempre più lunghe. È curioso, vuole capire come funzionano queste slot machine. Gioca. È divertente giocare. E poi ci sono tutte quelle luci, quei suoni. Ci sono le slot che sembrano farti capire quando stanno per scaricare una vincita. Ci sono tecniche, strategie. C’è un coinvolgimento magico, inspiegabile.

«Quando è diventato un problema?», gli chiedo.

Vittorio ci riflette un po’.

«Finché giochi non è mai un problema» dice, «perché hai sempre l’idea che recupererai».

Le pause al bar diventano ore, diventano pomeriggi, diventano giorni e poi notti intere. Vittorio non ha mai giocato in vita sua, ma d’un tratto sembra che lo faccia da tutta la vita.

La mattina si alza presto per l’apertura del bar e inizia a giocare. Quando la slot sta per scaricare una vincita, lui stacca la spina e la riattacca – così la vincita seguente sarà più sostanziosa. Si apposta a guardare gli altri giocare, aspetta che perdano, che si arrendano. La barista di un altro bar lo chiama, gli dice che nel suo bar c’è una slot che forse scaricherà. Quando inizia, non può più smettere. C’è sempre qualcun altro che aspetta che lui si arrenda per andare a vincere i suoi soldi. Perché quei soldi sono suoi. E devono tornare indietro.

«Io te li do, ma poi me li devi ridare», parla così alla slot machine, la sua nuova amica.

Torna a casa solo per dormire un po’, poi torna a giocare. In tre giorni, con una slot di una sala giochi, perde cinquemila euro. Per il lavoro non ha tempo. Gioca i soldi dei clienti. Le fatture non arrivano più. Passa la mezzanotte del 31 dicembre in fila al bancomat per prelevare i soldi del mese successivo. La gente festeggia il nuovo anno, canta, si abbraccia, nel cielo i fuochi d’artificio, mentre Vittorio è lì che aspetta i soldi per giocare ancora. Gioca, gioca e gioca ancora. Si indebita. Si consuma. La figlia lo aspetta per fare i compiti insieme, ma Vittorio non arriva. Francisca va al bar, prega il barista di non dare più soldi al marito.

All’ospedale Gemelli, Vittorio conosce una persona che lo accompagna a una riunione di Giocatori Anonimi. Comincia a frequentare il gruppo, ma alla fine delle riunioni torna a giocare.

«Provavo a giocare senza farmi troppo male».

Vittorio perde tutto. Lui e Francisca si separano. Prende residenza in via Modesta Valenti, torna a vivere con i genitori. Torna al lavoro, ma per mangiare va alla Caritas. Non ha più niente. Sono passati più di dieci anni e non se n’è neanche accorto.

«Non saprei dire neanche come ho finito».

È una mattina del 2014. Suo padre sta morendo. Il vecchio ufficiale è in un letto di ospedale. Vittorio vuole prendere un po’ d’aria, scende per un caffè, c’è il bar sotto. Scava nelle tasche, trova delle monete. C’è una slot machine. Senza pensarci si avvicina per giocare, ma è in quel momento che, per la prima volta, si ferma. Vittorio, dice a se stesso, tuo padre sta morendo e tu sei qua a giocare?

Dieci anni dopo è qui, accanto a me, a raccontarmi questa storia. I silenzi sono lunghi, tante le cose da dire. In un foglietto ha segnato le date più importanti per provare a raccapezzarsi, a spiegare prima di tutto a se stesso cos’è che è andato storto. Come. Quando. Perché. Un uomo può chiedere tutto alla vita. A volte però non chiede niente, e se la gioca con l’innocenza di un bambino.

Oggi Vittorio ha settant’anni e il grande rammarico di aver sprecato il proprio tempo. Ma è un uomo forte, un uomo che ha ripreso a combattere, e ha tre figlie che, nonostante tutto, non lo hanno abbandonato. Sa chi è e chi non vuole tornare a essere. La vita è difficile, sì, ma raccontarla è come darle un senso.

Vittorio Macchi e Vincenzo Reale