· Città del Vaticano ·

A colloquio con Karen Venturini, cresciuta tra «la libertà terapeutica» del San Giovanni

Sui sentieri alberati
della follia

 Sui sentieri alberati della follia   QUO-070
26 marzo 2024

La figlia di Ernesto Venturini, amico e collaboratore di Basaglia, 
è oggi una studiosa di modelli socioeconomici rivolti
a una più equa distribuzione delle risorse, a una maggiore giustizia sociale
e al rispetto dei diritti del pianeta e dei suoi abitanti 


Era il maggio del 1968: il giovane psichiatra, Ernesto Venturini, ancora non sapeva che lo attendeva l’estate che avrebbe rivoluzionato la sua esistenza. Non solo perché quel maggio gli aveva portato la sua piccola Karen, ma anche perché entrava in contatto con l’esperienza di Franco Basaglia nel manicomio di Gorizia. La lettura de L’Istituzione negata a cura dello stesso Basaglia, lo impressionò a tal punto da spingerlo ad abbandonare la carriera accademica all’Università Cattolica di Roma, per seguire questo maestro anticonvenzionale nell’approccio alla malattia mentale e alla cura del paziente.

Con altri giovani psichiatri, Venturini trascorse così le sue prime ferie militanti, mettendo in pratica gli insegnamenti anti-istituzionali di Basaglia, scardinando i meccanismi di dominio e violenza della psichiatria dell’epoca, ponendo al centro del rapporto medico-paziente il rispetto della fragilità umana e dei diritti della persona. Una rivoluzione copernicana: «Il mondo geometrico delle conoscenze universitarie subì un brusco sovvertimento. La dialettica e il dubbio diventarono pane quotidiano» raccontò, anni dopo, Ernesto alla figlia Karen, ricordando anni indimenticabili nella città in cui una cortina di ferro divideva il confine con la Slovenia.

«L’apertura dei manicomi comportò alcune complicazioni: i matti scappavano dall’ospedale e i medici passavano le notti nei vicoli del centro storico e nelle periferie a cercarli. Basaglia, in forte contrasto con l’amministrazione provinciale, si dimise, lasciando, però, diversi medici della sua équipe a proseguire i suoi studi e a difendere quella straordinaria esperienza» spiega Karen Venturini, citando il libro che il padre Ernesto scrisse con i colleghi Domenico Casagrande e Paolo Serra sul periodo goriziano, prima che la famiglia nel 1972 si trasferisse a Trieste, dove Basaglia era direttore dell’ospedale psichiatrico.

Nuovo trasloco, nuova casa. «Senza dubbio mia madre, americana di Detroit, dovette patire parecchio nel trovarsi, con due bambine piccole da crescere, a peregrinare in una terra di frontiera, tra gente di poche parole, a tratti ostile» riflette Karen, ripercorrendo con la memoria i sentieri alberati dell’ospedale psichiatrico di Trieste, rivedendo quella scritta che la accoglieva all’ingresso del parco, La libertà è terapeutica e che tanto colpiva la sua immaginazione, risentendo il fiatone della salita su per le scale fino agli edifici della direzione. Ricordi che riemergono indelebili sulla pagina, ancora aperta, di una infanzia speciale. «Una volta Basaglia mi donò una bambola, alta quasi come me, o per lo meno, così la ricordo. Ero emozionata nel ricevere un regalo da un uomo così carismatico, verso il quale mio padre nutriva tanta stima e fiducia. Divenne la regina della mia tribù di giocattoli» sorride Karen. Ernesto, come tutti gli altri “carbonari”, viveva dentro l’Ospedale, dove si tenevano anche frequentissime interminabili riunioni collettive, interrotte solo dagli assalti dei “matti”, che turbavano parecchio le piccole Venturini. «Ero inevitabilmente impressionata dalle loro figure, dall’andatura claudicante, dai loro volti ruvidi segnati dalle smorfie stampate sulle bocche; ricordo che mi rifugiavo dietro la gonna della mamma: lei mi portava lontano dai padiglioni, tra le aiuole in cerca dei miei gattini, Pussycat e Pussy, una coppia che, non potendo più stare con noi, avevamo portato al Parco di San Giovanni».

In quegli anni l’ospedale era anche un ambiente culturalmente vivace, una fucina di intellettuali, frequentata da studiosi, artisti, ricercatori e scrittori (in prevalenza uomini), come anche da studentesse, assistenti sociali, psicologhe, provenienti da ogni angolo del mondo: Australia, Brasile, Germania. Il San Giovanni era in quegli anni un centro di avanguardia, dove nuove istanze prendevano forma, dove con convinzione l’immaginazione portava a credere nella possibilità di un mondo più giusto e libero. «Vivevamo in “comunità”: si ballava, si suonava, si organizzavano feste e si trascorrevano le vacanze insieme, come in una grande famiglia. Quando vidi Marco Cavallo, il cavallo blu di cartapesta, simbolo della liberazione, trasportato in corteo, mi sembrò grandissimo. Penso che tutto quel che è successo in ospedale, non poteva che avvenire a Trieste, città mitteleuropea, naturalmente aperta alle avanguardie e al pensiero divergente», racconta Karen.

In via Belpoggio, due piani sotto l’appartamento dei Venturini, abitava Gerti, amica di Dora Markus, di Eugenio Montale (che le dedicò una poesia), di Bobi Blazen, di Umberto Saba. Gerti, ormai anziana, viveva nel buio della sua casa e si muoveva lenta lenta, come la lumaca di Pinocchio. «Aspettavo a lungo davanti alla porta prima che mi aprisse. Suonavo il campanello e avvicinavo l’orecchio per indovinare, dal rumore del legno che le scricchiolava sotto i piedi, a che punto del tragitto fosse; poi, altrettanto lentamente, la seguivo nel salone, arredato con un pianoforte a coda e un mobilio austero, fino a raggiungere la poltroncina rossa, dove iniziavo la lezione di scrittura: trascorsi con lei un pomeriggio intero a descrivere la bora, il vento impetuoso che soffia a Trieste», esclama Karen.

Prima della morte, Basaglia, su invito del Ministro della Sanità del Mozambico, si dedicò allo sviluppo di un programma comunitario sulla salute mentale: un impegno che avvicinò all’ambito della cooperazione internazionale anche i Venturini; dapprima Ernesto, in qualità di consulente tecnico per la salute mentale in Mozambico, poi, anni dopo, le figlie Karen e, soprattutto, Denise, per le quali quel primo viaggio in Africa ha evidentemente rappresentato un momento irripetibile; sfogliando l’album dei ricordi di quel viaggio, compaiono due bambine, di otto e quattro anni, una spiaggia incontaminata dietro loro, e a nord, in lontananza, un fiume pieno di fiori, bambini nelle canoe: affiora potente l’ebbrezza indomabile di quel mondo incontaminato; affiora la felicità antica e, nello stesso tempo, più presente che mai, di momenti liberi e magici.

La condizione dei malati psichici era, e continua a essere in molti posti, terribile: una indicibile vergogna denunciata dai basagliani, verso la quale Giovanni Paolo ii mostrò particolare attenzione e sensibilità: «Nella camera da letto dei miei nonni capeggiava la foto del figlio che dava la mano a Wojtyła, quando era stato ricevuto in Vaticano con un gruppo di degenti: fu un’occasione unica per ricordare l’importanza dei diritti dei malati di mente», sottolinea Karen, che iniziò gli studi universitari, quando il padre assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico di Imola, quello dell’Osservanza, di cui avviò il progressivo smantellamento fino alla chiusura, per poi sostituirlo con i servizi psichiatrici territoriali.

Nel 1996, con un gruppo di amici e un critico d’arte, Karen organizzò un’esposizione d’arte nei bellissimi giardini e nei padiglioni abbandonati dell’Osservanza. «Diversi artisti vissero per qualche settimana dentro l’ospedale e lavorarono insieme ai degenti nel laboratorio d’arte interno al nosocomio: un’esperienza coinvolgente e intensissima. Celebrammo con l’arte la fine dell’orrore del manicomio, trasformandolo, d’improvviso, in un museo: scritte blue proiettate sui padiglioni, lavandini grondanti sangue, apparecchi per l’elettroshock esibiti come cimeli». Poi, la laurea in Economia e una borsa di studio portarono la giovane Venturini all’Università di San Marino, che proprio in quegli anni iniziava a strutturarsi e ad affermarsi nel panorama accademico. «A quell’epoca eravamo in pochi: c’erano solo due dottorati; oggi l’offerta formativa è ampia, diversi master e, soprattutto, ci sono oltre 2.000 studenti a renderla una realtà molto vivace». Ricorda la sua prima lezione in un centro di formazione professionale: «Ero ancora studentessa universitaria e mi ritrovai in un’aula piena di ragazzini chiassosi e svogliati. Ricordo come fosse oggi il desiderio che provai; lo stesso che mi invadeva ai collettivi triestini: quello di poter cambiare il mondo con gli studenti, con la forza dell’educazione, dello studio, della conoscenza».

In quello stesso periodo Karen scoprii che l’economia avrebbe potuto aprirla a prospettive su altri mondi, ben oltre le strategie di crescita del profitto, gli slogan del marketing, ben oltre le tecniche di persuasione del consumatore, bel oltre i diktat del mercato. «Mi appassionai allo studio di modelli socioeconomici rivolti a una più equa distribuzione delle risorse tra gli abitanti della Terra, a una maggiore giustizia sociale e al rispetto dei diritti del pianeta e dei suoi abitanti; da qui è seguito l’insegnamento delle economie dette solidali, sostenibili e femminili, le ricerche nell’ambito della teoria della decrescita e dell’economia del dono, come leve di trasformazione sociale», sottolinea la studiosa.

La morte di Basaglia, poi, che rappresentò per Ernesto un’enorme perdita, coincise per Karen con il rimettere in discussione scelte e strade già pianificate: «Un giorno papà mi mostrò schede di donne internate nel manicomio di Imola a fine Ottocento, pregandomi di ricordarne il vissuto. Rimasi molto sorpresa: la richiesta mi inorgoglì, ma, come potevo io, senza alcuna formazione clinico-psichiatrica, trattare la materia?», ricorda Karen. «Provai una così forte empatia con quelle donne, da avere la certezza che loro stesse mi avrebbero sussurrato le loro verità, come se scrivessi sotto dettatura, tanto ero ispirata dal processo creativo, il cui punto di partenza erano le immagini». Immagini che Karen aveva ben chiare: sulle schede mediche dei degenti, infatti, non erano riportati solo nomi, cognomi, generalità e diagnosi clinica, ma erano allegate anche le fotografie.

Alternando pubblicazioni accademiche e fatiche letterarie, andò in stampa Melanconia con stupore, a cui seguirono altre opere, in particolare Disturbi infantili, rivolto a denunciare l’eccessiva patologizzazione di alcuni comportamenti dei bambini, conseguentemente sottoposti con facilità e superficialità a programmi speciali e a trattamenti farmacologici tesi a curarne presunte devianze. «L’ultimo mio lavoro sulla follia è un’opera lirica, La Terapia, di cui un amico compositore ha scritto la musica: non so se vedrà mai la luce, ma ho voluto riprendere, come in Melanconia con stupore, il tema, ancora assai attuale, della condizione femminile, fuori e dentro i manicomi: una costante anche nelle mie ricerche in ambito socioeconomico». La lirica ruota attorno a tre musiciste, mogli di noti compositori, costrette a trascurare il proprio talento, fino a sopprimerlo nella pazzia, per cedere la scena ai consorti. Nella struttura psichiatrica, dove vengono internate, sperimentano diverse soluzioni terapeutiche, perché «esistono tante forme di cura, quante almeno di follia», chiosa Karen, lasciandoci con le parole del maestro: «Non so cosa sia la follia. Può essere tutto o niente. È una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare entrambe» (Franco Basaglia).

di Silvia Camisasca


«Melanconia con stupore». Trentatré storie per liberare le anime 


Frutto della rielaborazione delle esperienze di Ernesto Venturini e della moglie, attraverso la memoria della figlia Karen, l’opera ripercorre gli anni della famosa Legge 180, che decretò la chiusura dei manicomi in Italia, ponendo al centro della narrazione le vicende di vita dei genitori dell’autrice, filtrate dai suoi ricordi d’infanzia: ecco, allora, il padre Ernesto, strettissimo collega e amico di Franco Basaglia, e la madre, impegnata a fianco dei movimenti femministi. La spinta a ricostruire un doloroso puzzle nasce dal desiderio di riaggiustare i tasselli di vite lacerate, a cui restituire dignità e rendere finalmente giustizia, recuperandole dal buio della dimenticanza e di polverosi archivi. Sotto entrambi giacevano seppelliti schede identificative, materiale fotografico e testimonianze ufficiali del manicomio di Imola: addirittura un centinaio di cartelle originali di donne internate tra il 1870 e il 1890, in cui erano riportate data di ingresso, diagnosi, trattamenti suggeriti e decorso della malattia, esattamente come per i detenuti nelle carceri. Il periodo compreso tra fine Ottocento e primi del Novecento si caratterizza per il fervente credo nella disciplina psichiatrica, la marcata diffusione dei manicomi, l’ampia campagna di investimento per l’ampliamento delle strutture esistenti e l’elevata quantità di internati. La legge Giolitti del 1904 detterà le regole d’internamento, in un contesto, per altro, di imperante patriarcato. La femminilità viene interpretata come una condanna imposta da Dio, un fardello da sopportare con silenziosa rassegnazione. Il marito o il padre hanno la facoltà di decretare la follia di mogli o figlie e deciderne l’internamento, destinandole al vortice infernale di salassi, purghe, bagni freddi, camicie di forza, elettroshock, lobotomia, nella spirale delle indicibili torture praticate allora nei manicomi. «Per risarcire il dolore di quelle donne, decisi di raccontarne la loro storia. Tentai invano di trovare notizie in archivio. Ben presto mi accorsi che, se qualcosa c’era, erano documenti istituzionali o lettere del direttore o del padre. La maggior parte delle donne schedate — vedove, senza dimora, contadine sfruttate nei campi, malate di pellagra o donne che si erano ribellate all’imposizione del matrimonio e della maternità — non avevano lasciato traccia scritta del loro passaggio», ricorda l’autrice. «Dopo una approfondita documentazione storica e intensi studi su testi di psichiatria, provai a scrivere brevi racconti grazie alla tecnica della fisiognomica, che consiste nel dedurre, dall’analisi di lineamenti ed espressioni del volto, i tratti psicologici e morali di un individuo: mi ritrovavo a praticare una metodologia che avevo sempre contrastato, fino a criticare Lombroso che la aveva diffusa», spiega Karen Venturini, specificando, tuttavia, la diversità di intenti: «Avrei voluto liberare le anime, non catalogarle. Da qui il titolo: quella con stupore è una delle tante forme con cui la malinconia viene classificata». Cinque anni di lavoro portarono a una raccolta di trentatré brevi storie di vite salvate dall’oblio e pubblicate nel 2016 dall’editore Walter Raffaelli; da essa è stato tratto anche uno spettacolo teatrale del Collettivo Arteda e della Compagnia Teatrale l’Attoscuro, una lettura radiofonica di Anna Amadori a cura di Vittorio Ferorelli e Rita Giannini, e il progetto scolastico Truccare la violenza, curato da Sara Rossini e Karen Venturini. (silvia camisasca)