· Città del Vaticano ·

Vi scrivo da Gaza
La testimonianza di una famiglia sfollata di Gaza

Tra la guerra e la speranza

 Tra la guerra e la speranza   QUO-067
22 marzo 2024

Mi chiamo Ameera, ho 29 anni e lavoro nel settore amministrativo. Mio marito, Kamal, 35 anni, lavora come farmacista. Abbiamo due figli, Majd, di 5 anni, e Laila, di 2. Siamo una piccola e felice famiglia palestinese che viveva una bella vita tranquilla a Gaza. Tuttavia, ci siamo ritrovati in mezzo a un’incessante tempesta di guerra, che ci ha portato a rimanere senza casa.

Il 9 ottobre la nostra abitazione è stata bombardata e distrutta. Vivevamo in un piccolo appartamento al sesto piano di un edificio, che è stato testimone di alcuni dei momenti più belli. I ricordi ci circondavano ovunque e non posso dimenticare come stavo sistemando la casa, in quello che si è rivelato essere l’ultimo giorno. Le difficili circostanze della guerra ci hanno costretto, infatti, ad evacuare, cercando rifugio nella chiesa latina.

Abbiamo anche vissuto la perdita dei cugini di mio marito e delle loro famiglie: 12 persone che sono andate in cielo contemporaneamente a causa di un bombardamento sulla chiesa ortodossa. La situazione è terribile e speriamo in giorni migliori.

Il 15 dicembre, durante il nostro trasferimento in chiesa, abbiamo vissuto una giornata difficile, perché i bombardamenti si sono intensificati, il suono delle esplosioni era vicino e terrificante. Io e mio marito abbiamo deciso di trovare una zona più sicura, portando con noi i nostri figli. Quando sono esplose le bombe, ho sentito alcune schegge roventi trafiggermi entrambe le gambe. Il tempo è parso congelarsi, l’aria è diventata pesante e il dolore si è intensificato ad ogni istante. Mi sono ritrovata a terra, circondata dai suoni del dolore e dalle mie urla che riempivano l’aria.

Le schegge erano entrate nella gamba sinistra e poi si erano conficcate in quella destra, provocando diverse fratture. In chiesa c’erano medici capaci, anche loro sfollati come noi, che hanno prestato immediatamente i primi soccorsi. Ho rivolto loro domande piene di orrore e incertezza, come se ogni parola avesse il peso della vita e della morte. Ogni istante sembrava lento e doloroso e un senso di impotenza si insinuava lentamente in me, a ogni respiro.

Raggiungere l’ospedale in quel momento era una missione impossibile, perché eravamo in trappola. L’attesa prima dell’operazione chirurgica è stata lunga e travagliata, perché il dolore fisico si mescolava alla sofferenza psicologica. Vedevo la preoccupazione negli occhi dei miei figli, di mio marito, della mia famiglia e dei miei cari: una preoccupazione indescrivibile, che si aggiungeva al peso del dolore e della disperazione. Le mie grida si sono trasformate in silenzio, ma il dolore e l’immobilità mi hanno fatta sentire impotente.

Sono stata trasferita in ospedale due settimane e mezzo dopo il bombardamento e sono stata sottoposta a un intervento chirurgico per stabilizzare le fratture.

Il tempo è trascorso ed è arrivato il momento della speranza, quando ho sentito un miglioramento delle mie condizioni e sono stata pronta a tornare alla vita quotidiana. Purtroppo le cose non sono state così semplici. Si è scoperto che è necessario un ulteriore intervento per impiantare un innesto osseo, affinché io possa riacquistare la capacità di camminare. Ma ancora oggi sono in attesa di questa operazione chirurgica. Io, Ameera, mi chiedo tra me e me: «Riuscirò ad operarmi? Camminerò nuovamente?» Sogno di imparare a camminare, come una bambina. Vivo ancora nella speranza e aspetto ogni giorno una risposta per lasciare Gaza e procedere con le cure. Ma finora, l’unica risposta è stata il silenzio. Però, anche se non so ancora quando, la mia fede in Gesù Cristo mi salverà.