· Città del Vaticano ·

(s)Punti di vista
La lezione sempre attuale di don Luigi Sturzo

Per una politica laica
ma non laicistica

naro.jpg
22 marzo 2024

Riportiamo qui uno stralcio della prolusione su «La lezione politica di Luigi Sturzo» con cui don Massimo Naro inaugura, venerdì 22 marzo, la Scuola di formazione politica Paideia di Palermo.

L’impegno politico di don Luigi Sturzo si realizzò all’insegna di quella ch’era definita da lui stesso «aconfessionalità». Difatti egli riuscì a evitare ogni tipo di deriva integralistica grazie a una sensibilità credente a tutto tondo, incline a non escludere nessuna dimensione dell’essere e dell’agire umano e, quindi, adatta a tutti e non riservata solo ai religiosi e ai consacrati. Questa consapevolezza — maturata nella coscienza di un prete vissuto prima del Vaticano ii e, perciò, prima della lezione conciliare secondo cui la vocazione alla santità è seminata da Dio nel cuore di tutti i cristiani, anche dei laici, e deriva dunque innanzitutto dal battesimo molto più che dai voti di clausura — rappresentò l’acme profetica della sua spiritualità profondamente civica. E proprio tale spiritualità civica fu il suo peculiare contributo alla cultura politica.

Dico peculiare perché Sturzo era comunque un prete. E il piano su cui si pone un prete è innanzitutto quello spirituale e pastorale. Nel caso di Sturzo, si trattava di un prete leoniano, cioè uno di quei preti che si erano formati, tra Otto e Novecento, a Roma, durante il pontificato di Leone xiii . Il quale nel 1891 aveva promulgato la Rerum novarum, la prima enciclica sociale dell’epoca contemporanea, in cui aveva rivolto ai cattolici l’appello «a uscir fuori di sagrestia».

La Roma di quel giro di anni era da poco diventata la capitale del Regno d’Italia e vi si respirava perciò tutta la tensione che c’era tra Stato e Chiesa. D’altronde l’Urbe rimaneva la città del papa. Nella Roma di Leone xiii , tutta percorsa dalle nuove tensioni e aspirazioni sociali, il giovane don Luigi aveva studiato non solo teologia ma anche sociologia, perché aveva intuito che uscir fuori di sagrestia era un invito a socializzare il vangelo, a non farne più una faccenda per iniziati e men che meno un prontuario di semplici devozioni: il vangelo dev’essere seminato nel campo vasto del mondo per potervi fruttificare al modo del chicco di frumento che però poi diventa spiga e si moltiplica a non finire; e dev’essere immaginato come il lievito che fermenta la pasta e dà spessore alla storia, oppure ancora come il sale che le dà sapore.

In questa prospettiva, la spiritualità civica era il contrario di una spiritualità solo intimistica, individuale, alienata dalla vita comune, astratta e disincarnata. Era, piuttosto, una spiritualità declericalizzata, vissuta non soltanto da preti, da monaci e da suore, ma alla portata di tutti. Era una spiritualità caricata (o più precisamente: che si incaricava) dei problemi concreti della vita comune, della vita di tutti. Perciò Sturzo segnalava l’urgenza di formare nuovi preti che non avessero «i colli storti e le mani giunte», ma tenessero in una mano il giornale mentre con l’altra mano in tasca continuavano a sgranare il rosario. Per lui si trattava di sanare il divorzio tra vita quotidiana e preghiera, tra contemplazione e azione, tra cultura e fede, tra spiritualità e storia, che si era consumato durante l’epoca moderna. E allo stesso tempo di superare l’alleanza fra trono e altare che aveva caratterizzato l’ancien régime. L’alleanza che si doveva stipulare era semmai, ormai, quella tra vangelo e storia, tra la speranza di raggiungere la città celeste e la speranza di avere il diritto alla piena cittadinanza nella città terrena, gettandosi alle spalle il non expedit.

Nella spiritualità civica, vissuta in città (anzi con la città e per la città: non a caso Sturzo fu eletto nel 1899 consigliere comunale di Caltagirone e poi nel 1905 pro-sindaco, e ancora nel 1915 vice-presidente nazionale dell’Anci), confluiva peraltro un’altra istanza di rinnovamento del cattolicesimo italiano. Nella seconda metà dell’Ottocento erano sorte nuove congregazioni religiose di vita attiva. Dentro il perimetro urbano, questi nuovi religiosi si spingevano ancora a questuare, ma non più per portare in convento l’elemosina ricevuta, bensì per ridistribuirla in città, ai poveri nei sobborghi e nelle periferie. Anche nella Sicilia di Sturzo era così: il beato Giacomo Cusmano a Palermo, padre Annibale Maria Di Francia a Messina, il cappuccino Angelico Lipani a Caltanissetta erano esponenti di quel rinnovamento. Sturzo, a sua volta, recuperava quella spinta caritativa, rivolta alla città, ma la ammodernava, cioè la coniugava con «le cose nuove», con le nuove realtà di cui parlava Leone xiii nella sua enciclica: così fondò a Caltagirone una cassa rurale e artigiana per combattere la piaga dell’usura, promosse le cooperative operaie (la sughereta nel bosco di Santo Pietro), istituì una delle prime scuole di formazione agraria in Sicilia, costituì associazioni di mutuo soccorso. Insomma, mise le mani in pasta, come si suol dire: e quelle mani erano le stesse che sgranavano il rosario e sfogliavano il breviario.

La spiritualità civica manteneva un marcato profilo evangelico. Per questo, il 17 dicembre del 1918, in una delle ultime riunioni preparatorie prima della fondazione ufficiale del Partito Popolare, a Roma, Sturzo disse ai suoi collaboratori che dovevano scendere nell’agone politico non con stendardi e con gonfaloni, ma con «il vangelo nascosto in petto». Riecheggiava, in questa affermazione, la lezione dell’anonimo autore della Lettera a Diogneto, secondo cui i cristiani sono l’anima del mondo. Ma come l’anima nel corpo, essi rimangono invisibili ancorché uniti al corpo stesso, cioè al resto dell’umanità.

È da questo orizzonte che deriva l’idea di aconfessionalità del Partito Popolare: un’idea che non coincideva con l’odierna nostra concezione della laicità (alla francese: come contrapposizione alla fede), perché con l’aconfessionalità Sturzo non chiedeva ai sodali del suo partito di rinunciare alla loro fede cristiana, ma semmai di fare politica per il bene di tutti, anche di chi cattolico non era. Gabriele De Rosa ha definito questa opzione come «l’utopia di Luigi Sturzo». Era la maniera sturziana, non clericale e nemmeno teocratica, di interpretare il motto di Pio x : instaurare omnia in Christo. Instaurare, appunto. Non restaurare. Non c’era, in Sturzo, nessuna inclinazione reazionaria, così come non ce n’era nessuna rivoluzionaria. Non si trattava, per lui, di lanciare la riconquista cattolica della società, ma di ridestare l’attitudine sociale e civica del cattolicesimo, la sua indole storica e “secolare”, la sua capacità di stare nel mondo per svolgervi un compito evangelico.

Molti dubitano che oggi una tale spiritualità possa essere riproposta a chi vive l’impegno politico. Eppure dal vangelo emerge un criterio d’azione che il credente può praticare anche in ambito politico. Lo si può formulare con una polarità apparentemente tautologica: portarsi dentro l’altro e portarsi l’altro dentro, cioè tentare di entrare in rapporto dialogico con un orizzonte valoriale e culturale diverso dal proprio e nondimeno dischiudere agli altri il proprio patrimonio di idee e di ideali. Sturzo, a mio parere, viveva questo tipo di attitudine evangelica, che è la stessa che veniva rilanciata nella Lettera a Diogneto, secondo cui non è lecito ai cristiani «disertare il posto che Dio ha loro assegnato» nella storia, dentro la città.

Sturzo visse quella sua passione civile interpretando laicamente ma non laicisticamente l’insegnamento di Gesù: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Come ha ben intuito Gustavo Zagrebelsky (in Scambiarsi la veste), questa frase non può essere considerata un manifesto della laicità moderna, pena il rischio di scivolare nell’anacronismo. Gesù non parlava ai politologi dei nostri giorni, ma ai teologi del suo tempo. I quali sapevano che solo Dio è Dio e Cesare è, semmai, solamente e semplicemente un cesare. Se le cose stanno così, allora la laicità intesa alla francese, come divaricazione tra fede e politica, non è l’ermeneutica più corretta della frase di Gesù. Che, difatti, crea un certo disagio al credente più che all’agnostico. È il disagio interiore che persino Sturzo provò quando, pur essendo prete, cominciò a occuparsi direttamente di politica e di amministrazione pubblica, facendo il pro-sindaco di Caltagirone dal 1905 al 1920. Non si trattò, per lui, semplicemente del disagio di non essere in regola con il non expedit pontificio, che vietava ai cattolici di fare politica nella nuova Italia unificata (per questo egli era non sindaco, ma pro-sindaco). Si trattò, per lui, di fare i conti con l’apparente inconciliabilità di due misure parimenti radicali, dotate entrambe del profilo alto della vocazione: da un lato esser “sacerdote” e perciò delegato a gestire il sacro (a mettersi in disparte, a fuggire dal mondo), d’altro lato esser “politico” e perciò deputato a gestire il mondo. In realtà, mentre andava vivendo quel suo interiore travaglio, Sturzo ripensava pure il rapporto — nella concretezza della sua stessa vicenda — tra spiritualità e politica, accorgendosi che esse sono due dimensioni differenti che però possono e debbono innestarsi a vicenda.

Questo crocevia tra vocazione alla santità e professione politica ci può apparire più chiaro se ricorriamo alla lingua tedesca. In tedesco — già a partire dalla traduzione che Lutero fece del termine paolino klḗsis (da kaléō, chiamare) — vocazione e professione sono due parole strettamente apparentate: Berufung (vocazione) e Beruf (professione, mestiere fatto ad arte). Sturzo ha testimoniato efficacemente che anche la professione politica — vissuta con competenza culturale e dirittura etica — può e anzi deve avere i connotati di una vera e propria vocazione.

di Massimo Naro