· Città del Vaticano ·

La messa per gli sportivi celebrata dall’arcivescovo Pagazzi

I «ristori della speranza»
nella maratona della vita

Roma, 16 marzo 2024: messa del maratoneta per la Maratone di Roma nella chiesa dell'Ara Coeli - foto ...
18 marzo 2024

«Se vogliamo correre bene la maratona della vita non facciamoci scappare nessun “ristoro della speranza”, sapendone cogliere l’opportunità “in corsa” e anche nella giornata più normale». È proprio con il linguaggio dei corridori che l’arcivescovo Giovanni Cesare Pagazzi ha proposto la concretezza dell’esperienza della “corsa lunga” come metafora per un’esistenza piena. L’occasione è stata la “Messa del maratoneta e dello sportivo” promossa da Athletica Vaticana, sabato sera 16 marzo, nell’affollatissima basilica dell’Ara Coeli al Campidoglio, alla vigilia della Run Rome the Marathon, l’evento sportivo più partecipato nella storia d’Italia che ha visto, domenica mattina, 40.000 persone sulle strade della città. E Papa Francesco, all’Angelus, ha incoraggiato i risvolti solidali della manifestazione.

L’alimentazione e l’idratazione sono fondamentali per i maratoneti, ha fatto presente monsignor Pagazzi, segretario del Dicastero per la cultura e l’educazione, anch’egli appassionato sportivo. Per arrivare al traguardo va trovato l’equilibrio per non alimentarsi e idratarsi troppo o poco. In particolare, ha messo in guardia dalla tentazione di non accorgersi che ci sono i punti di ristoro lungo il percorso della maratona e della “maratona della vita”. Magari, ha aggiunto, si finisce per saltare un ristoro per presunzione, confidando nelle proprie forze e puntando a recuperare qualche secondo, per poi invece essere costretti a interrompere la corsa perché senza energie.

Non è facile, ha riconosciuto l’arcivescovo, alimentarsi e idratarsi “in corsa”: «Non si è a un pranzo di nozze o di Natale dove siamo seduti e mangiamo, con calma, piatti squisiti». Ma «per alimentare la nostra speranza e il nostro coraggio non è necessario aspettare il banchetto di Natale e, siccome non c’è tutti i giorni, si rischia di lasciare aperta la porta alla noia e alla disperazione». È saggio, ha suggerito, «cogliere i ristori che danno speranza anche nella giornata più normale».

In realtà, ha affermato, il “ristoro della speranza” può essere semplicemente il sorriso di una persona sconosciuta che incrociamo in metro o il gesto gentile di collega “antipatico” di lavoro o la moglie che sceglie di puntare ancora sul marito, dandogli un’altra possibilità.

In conclusione l’arcivescovo ha invitato i maratoneti a uno stile di incoraggiamento reciproco, facendo «il tifo gli uni per gli altri». Durante la messa — concelebrata da numerosi sacerdoti, alcuni dei quali maratoneti — alle letture e alle intenzioni di preghiera — in particolare perché lo sport sappia trovare strade di pace — si sono alternati atleti e allenatori professionisti e amatori. Al termine è stata recitata la “Preghiera del maratoneta” e l’arcivescovo ha benedetto i maratoneti che, a loro volta, hanno scritto su un biglietto le “ragioni del cuore” per correre i 42km195.

L’arcivescovo Pagazzi ha, inoltre, benedetto la Coppa degli Ultimi che domenica è stata consegnata da Athletica Vaticana — sul palco delle premiazioni della Run Rome the Marathon al Colosseo — a Julia Khvasechko, con la sua storia di riscatto dalla malattia attraverso lo sport. La podista statunitense, 50 anni, ha corso come “pacer”, aiutando cioè i maratoneti a raggiungere il proprio obiettivo. Julia è testimone della volontà di rinascita e di tenace speranza che la Coppa degli Ultimi esprime: a far scattare in Julia la passione per la corsa è stata una malattia gravissima. Il 2 aprile 1998 è stata operata per rimuovere un tumore al cervello. Aveva 24 anni e il 30% di possibilità di sopravvivere, molte meno di tornare a camminare.

«Il 7 novembre 1999 — racconta — ero ricoverata al Memorial Sloan Kettering Cancer Care, un ospedale che si trova proprio sul percorso della Maratona di New York, precisamente al sedicesimo miglio. Avevo da poco fatto l’intervento chirurgico quando ho visto passare il “fiume” della maratona. Non sapevo neppure cosa fosse ma mi ha ispirato di colpo». Rilancia: «Mi ci sono voluti quasi 2 anni per ri-imparare a stare in piedi, a camminare e infine a correre Ma non ho mai, mai, mai perso la speranza: ho continuato a chiedere lassù di darmi forza, continuando a vivere nello stile della gratitudine». Proprio a New York nel 2007 Julia ha corso la sua prima Maratona, raccogliendo fondi per l’ospedale dove era stata ricoverata. A Roma ha corso la numero 305.