· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-061
14 marzo 2024

Domenica 10

Il chiarore
gentile di una
lampada
amica

In questa quarta domenica di Quaresima il Vangelo presenta la figura di Nicodemo (Gv 3, 14-21), un fariseo, «uno dei capi dei Giudei».

Egli ha visto i segni che Gesù ha compiuto, ha riconosciuto in Lui un maestro mandato da Dio ed è andato a incontrarlo di notte, per non essere visto.

Il Signore lo accoglie, dialoga con lui e gli rivela di essere venuto non a condannare ma a salvare il mondo.

Spesso nel Vangelo vediamo Cristo svelare le intenzioni delle persone che incontra, a volte smascherandone atteggiamenti falsi o facendole riflettere sul disordine della loro vita.

Davanti a Gesù non ci sono segreti: Egli legge nel cuore, nel cuore di ognuno.

Questa capacità potrebbe inquietare perché, se usata male, nuoce alle persone, esponendole a giudizi privi di misericordia.

Nessuno è perfetto, tutti siamo peccatori, tutti sbagliamo, e se il Signore usasse la conoscenza delle nostre debolezze per condannarci, nessuno potrebbe salvarsi.

Ma Egli non se ne serve per puntarci il dito contro, ma per abbracciare la nostra vita, per liberarci dai peccati e salvarci.

A Gesù non interessa farci processi o sottoporci a sentenze; vuole che nessuno vada perduto.

Lo sguardo del Signore su ognuno di noi non è un faro accecante che abbaglia e mette in difficoltà, ma il chiarore gentile di una lampada amica, che aiuta a vedere in noi il bene e a renderci conto del male, per convertirci e guarire con il sostegno della sua grazia.

Noi tante volte condanniamo gli altri; ci piace sparlare, cercare pettegolezzi.

Chiediamo al Signore questo sguardo di misericordia, di guardare gli altri come Lui guarda noi.

(Angelus in piazza San Pietro)

Martedì 12

Per sradicare
il flagello
degli abusi

Saluto organizzatori e partecipanti al Congresso Latinoamericano promosso dal ceprome con il titolo «Vulnerabilità e abuso: verso una visione più ampia della prevenzione».

Continuate ad avanzare nello sradicamento del flagello degli abusi in tutti gli ambiti della società.

Nel mio incontro dello scorso 25 settembre con una delegazione di questo Consiglio, ho evidenziato l’impegno della Chiesa nel vedere in ciascuna delle vittime il volto di Gesù sofferente.

Ma anche la necessità di porre ai suoi piedi «la sofferenza che abbiamo ricevuto e causato», pregando «per i peccatori più infelici e disperati, per la loro conversione, affinché possano vedere nell’altro gli occhi di Gesù che li interpellano».

Vedere questa problematica con gli occhi di Dio, stabilire un dialogo con Lui.

Questo sguardo divinizzato può aiutare la nostra comprensione della vulnerabilità.

Dio ci chiama a un cambiamento assoluto di mentalità sulla nostra concezione delle relazioni, privilegiando il minore, il povero, il servitore, l’ignorante rispetto al maggiore, al ricco, al padrone, al colto, in base alla capacità di accogliere la grazia che viene data da Dio e di farci noi stessi dono per gli altri.

Vedere la propria fragilità come una scusa per smettere di essere persone serie e cristiani integri, incapaci di assumere il controllo del proprio destino, creerà persone infantili, risentite e in nessun modo rappresenta la piccolezza a cui invita Gesù.

Al contrario, la forza di colui che, come san Paolo, si vanta delle proprie debolezze e confida nella grazia del Signore, è un dono che dobbiamo chiedere in ginocchio.

Con essa, potremo affrontare le contraddizioni della vita e dare un contributo al bene comune, nella vocazione alla quale siamo stati chiamati.

Riguardo alla prevenzione, senza dubbio mirare a sradicare le situazioni che proteggono chi si fa scudo della sua posizione per imporsi all’altro in modo perverso.

Ma anche comprendere perché è incapace di relazionarsi con gli altri in maniera sana.

Non può essere indifferente la ragione per cui alcuni accettano di andare contro la propria coscienza, per timore, o si lasciano abbindolare con false promesse, sapendo nel profondo del cuore di essere sulla strada sbagliata.

Umanizzare
i rapporti

Umanizzare i rapporti in ogni società, anche nella Chiesa, significa lavorare con coraggio per formare persone mature, coerenti, che, salde nella fede e nei principi etici, siano capaci di affrontare il male, rendendo testimonianza alla verità con la maiuscola.

Una società non basata su questi presupposti di integrità morale, sarà una società malata, con relazioni umane e istituzionali snaturate da egoismo, sfiducia, paura e inganno.

Affidiamo la nostra debolezza alla forza che il Signore ci dà.

(Messaggio al iii Congresso Latinoamericano
sul tema “Vulnerabilità e abuso”,
Panamá 12-14 marzo)

Mercoledì 13

L’agire
virtuoso

Dopo aver concluso la carrellata sui vizi, è il momento di rivolgere lo sguardo sul quadro simmetrico, che sta in opposizione all’esperienza del male.

Il cuore dell’uomo può assecondare cattive passioni, dare ascolto a tentazioni nocive travestite con vesti suadenti, ma può anche opporsi a questo.

Per quanto possa risultare faticoso, l’essere umano è fatto per il bene, che lo realizza veramente, e può anche esercitarsi in quest’arte, facendo sì che alcune disposizioni divengano in lui permanenti.

La riflessione intorno a questa meravigliosa possibilità forma classico della filosofia morale: il capitolo delle virtù.

I filosofi romani la chiamavano virtus, quelli greci aretè.

Il termine latino evidenzia soprattutto che la persona virtuosa è forte, coraggiosa, capace di disciplina e ascesi.

L’esercizio delle virtù è frutto di una lunga germinazione, che richiede fatica e anche sofferenza.

La parola greca indica invece qualcosa che eccelle, che emerge, che suscita ammirazione.

La persona virtuosa non si snatura deformandosi, ma è fedele alla propria vocazione, realizza pienamente sé stessa.

I santi
non sono
eccezioni

Saremmo fuori strada se pensassimo che i santi siano delle eccezioni dell’umanità: una sorta di ristretta cerchia di campioni che vivono al di là dei limiti della specie.

I santi sono invece coloro che diventano pienamente sé stessi, che realizzano la vocazione propria di ogni uomo.

Che mondo felice sarebbe quello in cui la giustizia, il rispetto, la benevolenza reciproca, la larghezza d’animo, la speranza fossero la normalità condivisa e non una rara anomalia!

Ecco perché l’agire virtuoso, in questi tempi drammatici nei quali facciamo spesso i conti col peggio dell’umano, dovrebbe essere riscoperto e praticato da tutti.

In un mondo deformato dobbiamo fare memoria della forma con cui siamo stati plasmati, dell’immagine di Dio che in noi è impressa per sempre.

Ma come definire il concetto di virtù? Il Catechismo della Chiesa Cattolica offre una definizione precisa e sintetica: «La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene» (N. 1803).

Non è un bene improvvisato e un po’ casuale, che piove dal cielo in maniera episodica.

La storia ci dice che anche i criminali, in un momento di lucidità, hanno compiuto atti buoni; certamente questi sono scritti nel “libro di Dio”, ma la virtù è altra cosa.

È un bene che nasce da una lenta maturazione della persona, fino a diventare una sua caratteristica interiore.

Attitudine
verso la scelta
giusta

La virtù è un habitus della libertà. Se siamo liberi in ogni atto, e ogni volta siamo chiamati a scegliere tra bene e male, la virtù è ciò che ci permette di avere una consuetudine verso la scelta giusta.

Se la virtù è un dono così bello, subito nasce una domanda: come è possibile acquisirla?

La risposta non è semplice. Per il cristiano il primo aiuto è la grazia di Dio.

In noi battezzati agisce lo Spirito Santo, che lavora nella nostra anima per condurla a una vita virtuosa.

Quanti cristiani sono arrivati alla santità attraverso le lacrime, constatando di non riuscire a superare certe debolezze!

Ma hanno sperimentato che Dio ha completato quell’opera di bene che per loro era solo un abbozzo.

Sempre la grazia precede il nostro impegno morale.

Inoltre, non si deve mai dimenticare la ricchissima lezione che ci arriva dalla saggezza degli antichi: ci dice che la virtù cresce e può essere coltivata.

Il dono
della sapienza

E perché ciò avvenga, il primo dono dello Spirito da chiedere è la sapienza.

L’essere umano non è libero territorio di conquista di piaceri, emozioni, istinti, passioni, senza poter fare nulla contro queste forze, a volte caotiche, che lo abitano.

Un dono inestimabile che possediamo è l’apertura mentale, la saggezza che sa imparare dagli errori per indirizzare bene la vita.

Poi ci vuole la buona volontà: la capacità di scegliere il bene, di plasmare noi stessi con l’esercizio ascetico, rifuggendo gli eccessi.

Cominciamo il nostro viaggio attraverso le virtù, in questo universo sereno che si presenta impegnativo, ma decisivo per la nostra felicità.

(Udienza generale in piazza San Pietro)