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Il tema della settimana

Alla scuola dell’Atto di dolore

 Alla scuola dell’Atto di dolore  QUO-061
14 marzo 2024

Il xxxiv Corso sul foro interno, promosso dalla Penitenzieria apostolica, si è concluso venerdì 8 marzo con l’udienza pontificia. Il Santo Padre si è rivolto agli oltre cinquecento partecipanti — altrettanti erano collegati in streaming —, tra sacerdoti e diaconi transeunti, che dal 4 marzo hanno seguito il Corso di formazione, annualmente proposto da questo Tribunale di misericordia, per favorire una celebrazione sempre più teologicamente consapevole, pastoralmente attenta e spiritualmente feconda del sacramento della Riconciliazione.

Le parole che il Santo Padre ha voluto donarci possiedono una profondità e una semplicità tali da rivolgersi sia ai confessori che ai penitenti, illuminando entrambi sulla realtà della Confessione, che, con la Santissima Eucaristia, costituisce il fondamento di tutta la vita della Chiesa e, perciò, la sorgente di quella “umanità nuova”, che Cristo ha inaugurato con la propria incarnazione, morte e risurrezione e che, attraverso la Chiesa, partecipa a tutti i fedeli battezzati.

Il Santo Padre ha voluto, quest’anno, prendere le mosse dalla preghiera dell’Atto di dolore, composta dal grande pastore e dottore della Chiesa, sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Papa Francesco ha, così, fuso insieme due principi “teologici” fondamentali, che sono la lex orandi e la lectio sanctorum: la norma della preghiera, che è la “fede celebrata”, nella Chiesa è sempre norma del credere, cioè della “fede creduta”, e questa unica fede si manifesta, in modo autorevole e convincente, nella vita dei santi.

L’Atto di dolore, che, non a caso, gode ancora di un vero e proprio “successo planetario”, riassume in se stesso questi due principi: seppur non possa definirsi “preghiera liturgica” in senso proprio, sicuramente rappresenta «un’orazione semplice e ricca — così l’ha definita il Papa —, che appartiene al patrimonio del santo Popolo fedele di Dio». Di fatto, questa preghiera è entrata a far parte della celebrazione del sacramento della Riconciliazione, offrendo al fedele un modo sicuro ed efficace per esprimere le proprie disposizioni interiori e, in particolare, quei tre atteggiamenti sui quali si è concentrata la riflessione del Santo Padre: il pentimento, la fiducia in Dio e il proposito di non peccare più. Poiché le cose di Dio sono eterne e tutto ciò che è vero non invecchia mai, «questa preghiera — ha detto il Santo Padre — conserva tutta la sua validità, sia pastorale che teologica».

Fin dalle premesse di questo discorso, vediamo come disinnescate le due principali obiezioni che, oggi, minacciano sia la riflessione teologica che la missione evangelizzatrice della Chiesa: lo storicismo, che in ambito biblico-esegetico diviene “scetticismo metodico”, e il relativismo, che in ambito teologico-pastorale, si traduce in un “cristianesimo anonimo”, ultimamente sincretista, disponibile a giustificare qualunque credenza, opinione e atteggiamento individuali.

La riflessione del Papa si è quindi sviluppata in tre punti, rispettivamente dedicati a quelle disposizioni interiori che, nel sacramento della Riconciliazione, costituiscono veri e propri “atti del penitente”.

Il primo atto è il pentimento: «Esso non è il frutto di un’autoanalisi né di un senso psichico di colpa, ma sgorga tutto dalla consapevolezza della nostra miseria di fronte all’amore infinito di Dio». Senza negarne il valore, il Santo Padre ridimensiona il ruolo delle scienze umane, oggi investite di un’attesa quasi messianica, e afferma chiaramente che quel momento di massima intimità con se stessi, che è il pentimento, non richiede una particolare introspezione psicologica e non ha nulla a che fare con ciò che abitualmente si definisce “senso di colpa”, ma sgorga dalla percezione sorpresa e grata dell’amore di Dio e, quindi, dalla conseguente consapevolezza della propria miseria alla luce di questo amore.

Papa Francesco torna, così, ad annunciare al mondo il primato dell’amore di Dio e l’urgenza di riscoprire il “senso del peccato”. Il sacramento della Confessione, infatti, non rappresenta l’esaltazione del “senso di colpa”, inteso come “disagio psicologico”, bensì la risposta gratuita ed efficace offerta da Dio a quel “senso del peccato”, la cui base è squisitamente teologica, perché nasce dall’incontro personale con il proprio Creatore e Salvatore: «Nella persona — ha detto il Papa —, il senso del peccato è proporzionale proprio alla percezione dell’infinito amore di Dio: più sentiamo la sua tenerezza, più desideriamo di essere in piena comunione con Lui e più ci si mostra evidente la bruttezza del male nella nostra vita».

Il pentimento, nato dall’incontro con l’amore di Dio, conduce il peccatore all’amore per il suo Signore, “infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa”. Il secondo atteggiamento analizzato dal Papa è, perciò, la fiducia nell’amore di Dio manifestata dal penitente: «È bello sentire, sulle labbra di un penitente, il riconoscimento dell’infinita bontà di Dio e del primato, nella propria vita, dell’amore per Lui». Affinché, poi, l’amore per Dio non venga ridotto a vago sentimentalismo, il Santo Padre ha ulteriormente chiarito: «Amare “sopra ogni cosa”, significa [...] mettere Dio al centro di tutto, come luce nel cammino e fondamento di ogni ordine di valori, affidandogli ogni cosa».

Infine, il “frutto maturo” del pentimento, che si apre alla fiducia, non è la promessa di non più peccare, irrealistica e presuntuosa, quanto il “proposito” di chi con amore si decide per Dio e con umiltà invoca il suo santo aiuto: «Senza la sua grazia, nessuna conversione sarebbe possibile, contro ogni tentazione di pelagianesimo vecchio o nuovo». Il Papa, e con lui tutta la Chiesa, non è mai né per il pessimismo antropologico di stampo luterano, né per l’ottimismo, in fondo ateo, di matrice pelagiana, ma per la verità dell’uomo “creato” bene da Dio, “ferito” dal peccato e “restaurato” dalla divina misericordia, che splende sul volto di Cristo, cosicché, «in ogni atto di misericordia, in ogni atto d’amore, traspare il volto di Dio».

di Mauro Piacenza
Cardinale, Penitenziere maggiore