· Città del Vaticano ·

A quattro anni dalla pandemia don Matteo Cella racconta la rinascita della comunità di Nembro

Più forti della tempesta perché siamo rimasti uniti

 Più forti della tempesta  perché siamo rimasti uniti  QUO-058
09 marzo 2024

Ci sono immagini che si vogliono dimenticare perché fa troppo male anche solo ricordarle. Tra queste, nella memoria collettiva italiana, ci sono certamente quelle dei camion militari che nella notte a Bergamo passano, nelle vie vuote, con le bare delle vittime del covid-19. Era il 18 marzo 2020 e proprio quel giorno tragico è stato scelto per commemorare ogni anno le vittime del coronavirus. Sono passati quattro anni da quel mese di marzo quando tutto è cambiato. Quattro anni. Un tempo brevissimo e tuttavia lunghissimo. Soprattutto per chi come a Nembro, piccolo comune del Bergamasco, ha subito in tutta la sua forza quella tempesta devastante che, nel volgere di qualche settimana, ha strappato la vita di quasi duecento persone. Nembro diventa tristemente famosa nel mondo come il centro più colpito dalla pandemia in Italia e in Europa. È quello il dato più eclatante, quello che fa notizia. Ma Nembro, la sua gente, in quei momenti drammatici mostra una capacità di resistenza e resilienza che diventa volontà di rialzarsi nei mesi e negli anni che seguono alla grande tempesta. I giovani giocano un ruolo fondamentale in questa esperienza di rinascita che non fa i titoli dei giornali. Una storia che viene ora raccontata nel libro Carovane. La tempesta del Covid e il futuro di una comunità (Vita e Pensiero, Milano 2024, 204 pagine, 16 euro) scritto dall’ex sindaco di Nembro, Claudio Cancelli, e da don Matteo Cella, oggi parroco a Bergamo, che nel periodo della pandemia era il sacerdote a guida dell’oratorio locale. I protagonisti del libro — pubblicato proprio in questi giorni — sono le donne e gli uomini che, nel periodo più difficile della loro comunità, hanno messo in azione la solidarietà verso il prossimo più bisognoso. La parola generosità ha assunto tutto un nuovo sapore da allora. “Ciò — osservano gli autori — ha permesso di attraversare la tempesta senza perdere la traccia e il senso della nostra esistenza di fronte al dramma che si stava vivendo. E così è stato possibile legare l’eredità delle vite di chi ci ha lasciato con il progetto del nostro futuro comune: di generazione in generazione”. In questa intervista don Matteo Cella torna a quel mese di marzo 2020. Non si ferma tuttavia al ricordo, ma volge lo sguardo al futuro, animato dalla fiducia nel Signore e dall’esempio dei giovani del suo oratorio che hanno donato a Nembro la forza per andare avanti e non abbattersi nell’ora più buia.

Sono passati quattro anni da quel terribile marzo del 2020 in cui il covid strappò la vita di 164 persone a Nembro (saranno 188 complessivamente). Più morti dei caduti avuti nel centro del Bergamasco durante tutta la Prima Guerra Mondiale. Ripensando a quei giorni, a quelle settimane terribili, quali emozioni affiorano a distanza di un tempo così breve ma che appare tanto lontano?

L’esperienza del covid-19 sembra davvero trascorsa da un secolo, sembra che sia passato un tempo enorme: in realtà sono solamente quattro anni. Forse abbiamo tutti cercato di rimuovere il ricordo di quei mesi che sono stati difficilissimi, molto intensi, e abbiamo cercato di voltare pagina e tornare a quella che ritenevamo essere la normalità. In realtà, poi, succede che nel momento in cui hai i ricordi, li condividi con qualcuno, vai a trovare una persona che in quel periodo, in quell’esperienza è stata molto segnata, si riaprono delle voragini. E forse non c’è solamente il dramma da tenere presente e che chiaramente chiede di essere rielaborato, ma ci sono anche delle esperienze molto intense di vicinanza, di solidarietà, di aiuto reciproco e una serie di questioni che aprono grandi riflessioni sulla vita, sul tempo, sulle relazioni, sul modo di essere cittadinanza. Grandi domande di senso che forse sarebbe bene che non lasciassimo lì, latenti, come purtroppo in molti casi è capitato.

Alcune ferite sono invisibili, sono nel cuore delle persone, dei parenti delle vittime, di chi ha perso un amico, di chi ha sofferto. Ma ci sono cicatrici — voragini, appunto — che si vedono. Quali sono quelle più evidenti a Nembro così come nelle zone più colpite dalla pandemia che meriterebbero uno sguardo più attento, anche una maggiore prossimità?

Certamente ci sono dei vissuti personali particolarmente dolorosi: chi ha visto cari, parenti, essere portati via in ambulanza e poi se li è ritrovati, a distanza di settimane, dentro l’urna, con le ceneri, vive ancora oggi dei ricordi, ha delle esperienze particolarmente faticose. Lì è stato importante il contributo che anche alcuni professionisti, alcuni psicologi hanno dato per aiutare ad accompagnare questi traumi. Le ferite che rimangono ancora aperte sono tante. Nei ragazzi, in quell’età che in maniera particolare hanno perso dei passaggi importanti e quindi fanno fatica anche oggi ad avere una capacità spontanea e matura di relazioni con gli altri. Sto pensando a quei ragazzini che stavano passando dalla scuola primaria alla secondaria, negli anni proprio delle transizioni: il passaggio verso la scuola superiore, o l’uscita dal mondo delle scuole superiori verso l’università. Lì ci sono dei ragazzi che hanno dei pezzi di percorso evolutivo che sono stati deficitari, che ancora oggi lasciano dei segni: ci si accorge nella qualità, nella capacità di essere insieme, di farsi coinvolgere, di essere aggregati, che c’è bisogno di lavorare, di insistere. Ci sono molte fragilità nei più giovani che hanno bisogno di essere accompagnate. E poi, mi pare che — più in generale — ci sia una sorta di diffidenza tra le persone, una facile irascibilità, il bisogno di avere tutto, di avere subito, un po’ la paura dell’altro. Qualcuno porta questi segni molto epidermici, ma forse ci raccontano anche di una fatica più profonda che meriterebbe di essere, anche qui, rielaborata e accompagnata.

Parlava della gioventù, delle sue fragilità. Negli anni di servizio a Nembro era anche responsabile dell’Oratorio locale, l’oratorio San Filippo Neri. I giovani così duramente provati dalla pandemia, come si sono rialzati in quel periodo e poi in questi anni e che cosa hanno dato anche a lei come sacerdote, come esempio per la sua missione?

A Nembro è successo questo piccolo miracolo per cui i ragazzi sono stati spesso capaci di grandi gesti di generosità e di bene: li abbiamo chiamati “i ragazzi della rinascita”. Tutti parlavano della ripartenza, ci è sembrato più giusto parlare di rinascita. E i giovani sono stati i veri protagonisti insieme a tanti altri, chiaramente, di questa rinascita. Sto pensando in modo particolare ad alcune azioni di solidarietà, quelle più immediate, durante il lockdown: aiutare il Comune a distribuire materiale informativo, fare dei piccoli atti, anche verso la comunità cristiana. Sono stati i ragazzi a rendere possibile raggiungere le persone chiuse in casa con la trasmissione delle Messe, delle liturgie, un podcast quotidiano del “buongiorno”…. Non ci fossero stati i giovani, niente di tutto questo sarebbe stato possibile. In quei mesi i ragazzi — almeno, quelli legati all’oratorio — hanno fatto delle grandi esperienze di aggregazione. E questo dinamismo è rimasto vivo anche nei mesi e negli anni successivi. Sono nate delle realtà molto belle, si sono moltiplicate situazioni di attivismo per cui chi ha voluto reagire – reagire in maniera costruttiva – al fermo dovuto alla pandemia e alla paura, ha trovato un “di più” di vita e ha saputo metterlo in atto.

Il 3 maggio del 2020 — quando il peggio era passato ma ancora si viveva con paura e incertezza a causa della pandemia — ricevette la telefonata di Papa Francesco che vi ringraziava per la testimonianza data dal suo oratorio e vi incoraggiava ad andare avanti.

La telefonata del Papa è stata una bellissima sorpresa, un grande e inatteso regalo. Era una domenica pomeriggio, avrei immaginato di tutto tranne che telefonasse Papa Francesco. È stato veramente un grande dono. In quel momento ho capito che quanto realizzato fino a quel momento era stato fatto perché lo ritenevamo giusto, perché ci sembrava opportuno in quella situazione, in quel momento. La telefonata del Papa ha gettato uno sguardo di luce ancora più grande. Lì abbiamo capito un po’ — i ragazzi e io — ciò che stava accadendo, dentro alla grande tragedia della pandemia con così tanti morti. Stava accadendo anche qualcosa di veramente prezioso e speciale: la solidarietà, la vicinanza, la condivisione, sentirsi veramente una comunità era arrivato all’attenzione del Papa e forse non era proprio una cosa così ovvia, così trascurabile; meritava di essere guardata con più profondità. Questo sguardo ampio, più profondo del Papa ci ha sicuramente aiutato a dare valore alle cose, a dare valore all’impegno delle persone e aggiungerei anche che il Papa in quell’occasione, e non solo, chiaramente, è stato un punto fermo, un punto di riferimento.

Nella Statio Orbis della sera del 27 marzo del 2020 in una piazza San Pietro vuota, sotto la pioggia battente, Francesco paragona la pandemia a una tempesta e dice che “caduto il trucco” dei nostri “ego” è rimasta scoperta “l’appartenenza come fratelli”. Lei ha sperimentato questa appartenenza? E in che modo?

Sì, io credo che sia davvero come ha detto il Papa. Chi ha attraversato la pandemia si è accorto del valore, della necessità di essere insieme con gli altri. Durante quei momenti così difficili, questa spinta all’individualismo, all’egoismo è davvero crollata. Poi, nei mesi, negli anni successivi un po’ l’abbiamo erroneamente recuperata, ma allora era evidente che si poteva sopravvivere solamente uniti. Io ho assistito alla vita di una comunità assolutamente solidale, capace – per moltissimi aspetti – di calarsi nei panni degli altri. Ci sono racconti anche di persone semplici che hanno, attraverso dei buoni rapporti di vicinato, salvato letteralmente la vita ad altre persone. Si attraversa la tempesta solamente insieme, da fratelli. In alcuni casi questa cosa è facilitata dalle istituzioni: la nostra parrocchia, insieme all’amministrazione comunale, al mondo del volontariato, ha avuto una collaborazione molto felice in quei mesi e non solo in quei mesi. Ma questo senso di apparentamento, di fraternità è vero e tanto più è diffuso e tanto più si esprime nella normalità della vita della gente. Ecco, la comunità di Nembro ha saputo davvero essere una comunità. Una parola che sembra desueta oppure un po’ stereotipata, invece è piena di contenuti e di valore.

Con la pandemia, ha osservato lo psichiatra Eugenio Borgna, è cresciuto un «desiderio sconfinato di essere ascoltati». È in fondo una riflessione che ricorda quello che Papa Francesco va dicendo da anni sulla cosiddetta “ascolto-terapia”, su “l’apostolato dell’orecchio”. Lei ha una storia in particolare o un ricordo da condividere, che incarna questo desiderio di ascoltare e di essere ascoltati?

Vorrei citare l’esperienza di una psicologa che abita a Nembro e che si è occupata, nella sua vita professionale, anche per volontariato, di accompagnamento di situazioni di tragedie come le vittime di terremoti, di catastrofi naturali, anche di fatti di terrorismo e nei campi profughi. Questa psicologa ha capito che il bisogno di essere ascoltati, in quella situazione, era così alto, tanto da avere attivato un servizio gratuito, insieme ai colleghi, per rendere possibile questo ascolto condiviso. Ha chiesto aiuto all’oratorio per vedere se c’era la possibilità di uno spazio, se si potevano aggregare delle persone. Ecco, questi momenti di ascolto, di percorsi di gruppo, accompagnati da esperti, sono stati sempre molto, molto richiesti e questo è proprio l’indice del fatto che c’è bisogno di riuscire a raccontarsi, a trovare qualcuno che si faccia carico del proprio percorso di vita, di luoghi di condivisione, c’è bisogno di vincere il senso dell’isolamento perché la solitudine è soffocante.

Assieme ai giovani di cui stiamo parlando, gli anziani sono stati sicuramente i più colpiti dalla pandemia. Nembro ha visto in pochi giorni morire nonne e nonni che i loro nipoti non hanno potuto nemmeno salutare per un’ultima volta. Siamo consapevoli, dopo la pandemia, che dobbiamo avere maggiore cura per queste categorie, le persone più fragili, quelle che a volte Papa Francesco definisce le “due ali”, i due estremi della nostra società?

Da questo punto di vista non sono così convinto che abbiamo imparato la lezione, perché poi la vita è ripresa in maniera molto frenetica: per assurdo, dopo la pandemia non siamo stati più attenti, non ci sono stati più servizi, la sanità non è stata migliore rispetto a prima. Molto spesso ci si è trovati con meno attenzione, con meno disponibilità, con meno servizi. Forse da questo punto di vista c’è ancora molta strada da fare. La fragilità, non abbiamo forse così tanto imparato a tenerla in considerazione come una priorità assoluta, come un bisogno di cura. Purtroppo, lì abbiamo contato tanti morti, c’è stata una pressione molto forte dovuta alla lotta quotidiana per la sopravvivenza. Poi però tutto questo è rimasto lì, un po’ solo come un ricordo. C’è bisogno di riprenderlo in mano, questo ricordo, per fare delle scelte.

Nessuno vorrebbe più rivivere un’esperienza come quella causata dal covid-19: la solitudine, l’isolamento, la paura. Lei cosa si augura pensando al domani, al futuro della sua comunità che ha così sofferto a causa della pandemia, ma che ha avuto anche la capacità di riprendersi, di rinnovarsi come ci ha raccontato in questa intervista?

I drammi vissuti, l’isolamento, la mancanza di libertà, sono tutte situazioni che speriamo non si ripresentino più. È fondamentale non solo ricordare ma anche rielaborare, far diventare quella che è stata un’esperienza per tanti aspetti traumatizzante, per altri molto nobile per tutto quel che di bene si è speso, far diventare questa esperienza una vera e propria sapienza. C’è bisogno di fare memoria, una memoria che sappia portare a razionalità le grandi sfide, anche le grandi risorse messe in atto. C’è bisogno di capire quali sono i processi che hanno reso una comunità unita, capace di aiutare gli altri, capace di generare iniziative, di attrarre energie anche in un momento in cui tutti erano intimoriti e avevano la preoccupazione di capire che cosa fosse giusto, opportuno e possibile. Credo che la comunità abbia bisogno di ricordare, ripensare, far tesoro — questo certamente sì — per tenere unito un cammino, non lasciare solamente l’esperienza del covid come un’isola abbandonata in mezzo all’oceano. Quell’esperienza è come il pezzo di un cammino che, se lo assecondiamo a dovere, può davvero aiutarci a diventare migliori.

di Alessandro Gisotti