Hic sunt leones
I livelli di conflittualità nell’Africa subsahariana sono preoccupanti. Come era prevedibile, la crisi russo-ucraina e quella israelo-palestinese hanno fortemente penalizzato il multilateralismo, acuendo le turbolenze nella macroregione dove gli interessi geostrategici locali, regionali, continentali e globali sono variegati. In alcuni casi si tratta di guerre civili, anche se spesso lo stato di belligeranza oppone attori statali a movimenti e gruppi armati trans-nazionali: dal Sahel al Corno d’Africa (Somalia); dalla Nigeria settentrionale al nord del Mozambico.
In termini generali, è improprio parlare di vere e proprie guerre tra Stati, anche se nel passato sono avvenute (emblematico è stato in passato il conflitto dell’Ogaden tra Etiopia e Somalia). L’incidenza di questa tipologia di conflitto è certamente riscontrabile, con sfumature e declinazioni diverse, comunque non dichiarate, lungo la linea di confine tra alcuni Paesi del vasto continente africano. Ma andiamo per ordine, cercando di evitare, nei limiti del possibile, facili approssimazioni che potrebbero indurre il lettore a sottovalutare la gravità della situazione.
La dice lunga la crisi sudanese, esplosa il 15 aprile dello scorso anno sfociata in cruenti combattimenti tra l’esercito regolare, le Sudanese Armed Forces (Saf) sotto il comando del generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burha e le Rapid Support Forces (Rsf), una formazione paramilitare guidata dal generale Mohamed Hamdan Dagalo (detto Hemetti). Stiamo parlando di una vera e propria guerra civile che ha generato il più alto numero al mondo di sfollati interni, oltre 11 milioni; mentre i rifugiati sono più di 3 milioni, disseminati in Egitto, Libia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Etiopia, Eritrea. Secondo le Nazioni Unite, metà della popolazione sudanese — circa 25 milioni di persone — ha bisogno di assistenza umanitaria e protezione. In questo contesto di dolore, segnato sempre più da interferenze straniere, soprattutto per quanto concerne approvvigionamenti di armi e munizioni, si evidenzia l’incapacità della diplomazia regionale e internazionale di portare le parti belligeranti a trattare una cessazione delle ostilità.
Per quanto concerne invece i conflitti tra Stati e gruppi armati trans-nazionali di ispirazione salafita-jihadista, questi continuano a rappresentare un trend in forte ascesa. Le rivendicazioni trans-nazionali di tali movimenti armati affiliati ad al-Qaeda o al sedicente stato islamico (Is) sono molto evidenti nel Sahel, nel bacino del Lago Ciad, nel Corno d’Africa e nell’Africa Centrale. Tra questi ha particolare rilevo il Jama’at Nusrat al-Islam wa al-Muslimeen (Jnim), che significa “Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”. Si tratta di un’organizzazione-ombrello sotto la quale operano diversi gruppi allineati con al-Qaida. Tra di essi figurano in particolare Ansar al-Din, al-Qaeda nel Maghreb islamico, al-Mourabitoun, e Katibat Macina. Il Jnim è attivo in Mali, Niger e Burkina Faso.
Un’altra rete di matrice islamista molto presente sul campo è quella dello stato islamico nel Grande Sahara (Isgs) che rappresenta il ramo regionale dell’Is. È attivo in Niger, nel nord del Mali, così come in Burkina Faso e ha una relazione controversa con Jnim. Non è un caso se si sono verificati scontri armati, anche molto cruenti, tra Jnim e Isgs che potrebbero indicare una contrapposizione d’interessi legata al controllo delle risorse nelle loro confinanti aree operative.
Un terzo gruppo operativo nello scacchiere è quello dello stato islamico–provincia dell’Africa occidentale (Iswap), originariamente uno spin-off dell’organizzazione nigeriana Boko Haram ed è molto attivo soprattutto nella regione del Lago Ciad e nella foresta di Alagarno che copre parte degli Stati nigeriani di Borno e Yobe.
Vi sono delle forti similitudini tra l’Iswap e l’Isgs, non foss’altro perché fanno riferimento allo stesso concetto di “stato islamico”. La differenza sta nel fatto che l’Iswap si è impegnato a garantire alle popolazioni autoctone la fornitura dei servizi pubblici di base, amministrando e imponendo imposte in modo sistemico e molto regolare.
Più a meridione, è presente la Jama’at Ahl al-Sunnah li-l-Dawah wa-l-Jihad (Jas), originariamente legata all’Iswap. Da rilevare che questa distinzione spesso non si riflette nei resoconti dei media, che fanno riferimento semplicemente a Boko Haram. La prima, il Jas, ha invece un’agenda più regionale, in quanto la propria azione bellica, particolarmente violenta, è quasi esclusivamente rivolta contro il governo nigeriano di Abuja, quindi fuori, geograficamente parlando, dal contesto saheliano. L’obiettivo di questa fazione, che si stima sia composta di 1.500–2.000 miliziani, si rifà alle origini di Boko Haram: trasformare la Nigeria, o parte di essa, in un emirato in cui venga applicata la sharia, la cosiddetta legge islamica, soffocando ogni forma di dissidenza. L’Iswap di cui sopra, invece, ha inserito la ribellione Boko Haram all’interno del fronte globale jihadista, cercando così di attrarre più proseliti e finanziatori.
La Somalia, dal canto suo, continua ad essere, dal lontano 1991, anno in cui venne rovesciato il regime di Siad Barre, un Paese con un governo, quello di Mogadiscio, che alla prova dei fatti controlla pochi scampoli di territorio per la presenza di gruppi islamisti tra cui spicca al-Shabaab che non perde occasione per indebolire le già fragili autorità statuali internazionalmente riconosciute.
È importante segnalare anche la crisi anglofona in Camerun, conosciuta anche come la guerra di Ambazonia o la guerra civile camerunese, un conflitto armato in corso tra le forze armate camerunesi e i gruppi indipendentisti nel nordovest e nel sudovest del Paese. A questo proposito, ha suscitato grande preoccupazione lo sconfinamento degli insorti, nel dicembre scorso, che hanno attaccato Belegete, un villaggio nigeriano lungo il confine.
E cosa dire della guerra che da diversi anni insanguina il settore nordorientale della Repubblica Democratica del Congo? Nel dicembre scorso, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha votato a favore del ritiro graduale dei caschi blu inquadrati nella Monusco (ex Monuc), nel Paese da 25 anni, nonostante le preoccupazioni per l’escalation di violenze. Infatti, mentre scriviamo i ribelli del gruppo M23, sostenuti dal vicino Rwanda, potrebbero presto conquistare la città di Goma.
È anche importante ricordare l’attivismo di gruppi legati all’Is nel nord del Mozambico che recentemente hanno messo a dura prova le forze lealiste. Questo riflette le istanze di comunità autoctone marginalizzate ed escluse dai dividendi del business legato alle enormi riserve di gas presenti nella regione, per non parlare di rubini, legno pregiato; peraltro un fenomeno questo riscontrabile, come già detto, nei territori sotto il controllo dell’ Iswap nel Sahel. Ma proprio in Mozambico nella provincia di Cabo Delgado, secondo fonti della società civile, vi sarebbero traffici di sostanze illecite (droghe sintetiche dall’estremo oriente) e, addirittura, di organi umani.
Lungi da ogni retorica, la stabilizzazione della macroregione subsahariana passa inevitabilmente lungo l’arduo crinale degli equilibri politici, sociali, economici dell’intera macroregione. Un percorso messo spesso a repentaglio dagli interessi di potentati stranieri, più o meno occulti se non a volte addirittura palesemente manifesti, che guardano solo e unicamente alla massimizzazione dei profitti.
di Giulio Albanese