· Città del Vaticano ·

Il magistero

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07 marzo 2024

Venerdì 1

L’ideologia
del gender
annulla
le differenze
e cancella
l’umanità

Oggi il pericolo più brutto è l’ideologia del gender, che annulla le differenze. Ho chiesto di fare studi a proposito di questa brutta ideologia del nostro tempo, che cancella le differenze e rende tutto uguale; cancellare la differenza è cancellare l’umanità.

Uomo e donna, invece, stanno in una feconda “tensione”. Ricordo di aver letto un romanzo dell’inizio del Novecento, scritto dal figlio dell’Arcivescovo di Canterbury: The Lord of the World. Parla del futuribile ed è profetico, perché fa vedere questa tendenza di cancellare tutte le differenze.

È interessante leggerlo, perché lì ci sono questi problemi di oggi; è stato un profeta quell’uomo.

[Testo letto da un collaboratore] La vita dell’essere umano è vocazione: la dimensione antropologica, che soggiace a ogni chiamata nell’ambito della comunità, ha a che fare con una caratteristica essenziale dell’essere umano in quanto tale: quella che l’uomo stesso è vocazione.

Ciascuno, sia nelle grandi scelte che riguardano uno stato di vita, sia nelle occasioni e situazioni in cui esse si incarnano e prendono forma, scopre ed esprime sé stesso come chiamato, come persona che si realizza nell’ascolto e nella risposta, condividendo il proprio essere e i propri doni con gli altri.

Questa scoperta ci fa uscire dall’isolamento di un io autoreferenziale e ci fa guardare a noi stessi come a un’identità in relazione.

Esisto e vivo in relazione a chi mi ha generato, alla realtà che mi trascende, agli altri e al mondo che mi circonda, rispetto al quale sono chiamato ad abbracciare con gioia e responsabilità una missione specifica e personale.

Tale verità antropologica risponde pienamente al desiderio di realizzazione umana e di felicità che abita nel nostro cuore.

Nell’odierno contesto culturale talvolta si tende a dimenticare o a oscurare questa realtà, col rischio di ridurre l’essere umano ai suoi soli bisogni materiali o alle sue esigenze primarie, come fosse un oggetto senza coscienza e senza volontà, trascinato dalla vita come parte di un ingranaggio.

Invece uomo e donna sono immagine del Creatore; si portano dentro un desiderio di eternità e felicità che Dio ha seminato nel loro cuore e che sono chiamati a realizzare attraverso una vocazione specifica.

Per questo in noi abita una sana tensione interiore che mai dobbiamo soffocare: siamo chiamati alla felicità, alla pienezza della vita, a qualcosa di grande.

La vita di ognuno, nessuno escluso, non è un incidente di percorso; il nostro stare al mondo non è frutto del caso, facciamo parte di un disegno d’amore e siamo invitati a uscire da noi stessi e realizzarlo.

Se è vero che ciascuno ha una missione, è chiamato a offrire il proprio contributo per migliorare il mondo e forgiare la società, a me piace ricordare che non si tratta di un compito esterno, ma di una dimensione che coinvolge la nostra natura, la struttura del nostro essere uomo-donna a immagine e somiglianza di Dio.

Non solo ci è stata affidata una missione, ma ciascuno di noi è una missione.

Una eminente figura intellettuale e spirituale, il Cardinale Newman, ha parole illuminanti su questo. Cito: «Io sono creato per fare e per essere qualcuno per cui nessun altro è creato. Occupo un posto mio nei consigli di Dio, nel mondo di Dio: un posto da nessun altro occupato. Poco importa che io sia ricco o povero, disprezzato o stimato dagli uomini: Dio mi conosce e mi chiama per nome. Mi ha affidato un lavoro che non ha affidato a nessun altro. Io ho la mia missione. In qualche modo sono necessario ai suoi intenti».

E prosegue: «[Dio] non ha creato me inutilmente. Io farò del bene, farò il suo lavoro. Sarò un angelo di pace, un predicatore della verità nel posto che mi ha assegnato anche senza che io lo sappia, purché segua i suoi comandamenti e lo serva nella mia vocazione» (Meditazioni e preghiere).

Le vostre ricerche, i vostri studi e queste occasioni di confronto sono importanti, perché si diffonda la consapevolezza della vocazione a cui ogni essere umano è chiamato da Dio, in diversi stati di vita e grazie ai suoi molteplici carismi.

Sono utili altresì per interrogarsi sulle sfide odierne, sulla crisi antropologica in atto e sulla necessaria promozione delle vocazioni umane e cristiane.

Si sviluppi, anche grazie al vostro contributo, una sempre più efficace circolarità tra diverse vocazioni, perché le opere che sgorgano dallo stato laicale al servizio della società e della Chiesa, insieme al dono del ministero ordinato e della vita consacrata, possano generare la speranza in un mondo sul quale incombono pesanti esperienze di morte.

Generare questa speranza, porsi al servizio del Regno di Dio per la costruzione di un mondo aperto e fraterno è un compito affidato a ogni donna e uomo.

(Ai partecipanti al Convegno “Uomo-Donna immagine di Dio. Per un’antropologia
delle vocazioni” )

I vulnerabili non sono
individui senza volto

Avete fatto “reagire” — come si direbbe in chimica — l’accoglienza e la vulnerabilità, considerata nelle sue diverse forme. Apprezzo questa scelta, tipicamente evangelica, e vorrei lasciarvi spunti di riflessione e di cammino.

Primo: per accogliere i fratelli e le sorelle vulnerabili bisogna che mi senta vulnerabile e accolto come tale da Cristo.

Sempre Lui ci precede: si è fatto vulnerabile; ha accolto la nostra fragilità perché possiamo fare altrettanto.

San Paolo scrive: «Accoglietevi gli uni gli altri come Cristo accolse voi» (Rm 15, 7). Se rimaniamo in Lui, come tralci nella vite, porteremo frutti buoni, anche in questo campo dell’accoglienza.

Secondo. Gesù ha passato la maggior parte del ministero pubblico, specie in Galilea, a contatto con poveri e malati.

La vulnerabilità non può essere un tema “politicamente corretto” o mera organizzazione di pratiche. Purtroppo il rischio c’è, malgrado la buona volontà.

Specie nelle realtà più strutturate, ma anche in quelle piccole, la vulnerabilità può diventare una categoria, le persone individui senza volto, il servizio una “prestazione”.

Bisogna rimanere ancorati a Gesù, il quale non ha insegnato a pianificare un’assistenza di malati e poveri. Ha voluto formare i discepoli a uno stile di contatto con i vulnerabili.

I discepoli hanno visto come Lui incontrava la gente, come accoglieva: la sua vicinanza, compassione [e] tenerezza.

Dopo la Risurrezione lo Spirito Santo ha impresso in loro questo stile di vita. Così, poi, ha formato uomini e donne che sono diventati santi amando persone vulnerabili.

Alcuni sono canonizzati e sono modelli per tutti noi; ma quanti uomini e donne si sono santificati nell’accoglienza dei piccoli, dei poveri, dei fragili, degli emarginati!

È importante, nelle comunità, condividere in semplicità e gratitudine le storie di questi testimoni nascosti del Vangelo.

Ultimo spunto. I poveri, i vulnerabili, non sono oggetti, sono soggetti, sono protagonisti insieme con Gesù dell’annuncio del Regno.

Pensiamo a Bartimeo, il cieco di Gerico. Gesù trova in quell’uomo la fede che cercava: solo Gesù lo riconosce in mezzo alla folla e ai rumori, ascolta il suo grido pieno di fede.

E quell’uomo, che per la fede nel Signore riceve di nuovo la vista, si mette in cammino, segue Gesù e diventa suo testimone, [e] la sua storia è entrata nei Vangeli.

Il vulnerabile Bartimeo, salvato dal vulnerabile Gesù, partecipa alla gioia di essere testimone della sua Risurrezione.

Ce ne sarebbero tanti altri, con diversi tipi di vulnerabilità, non solo fisica.

Pensiamo alla Maddalena: lei, che era tormentata da sette demoni, è diventata la prima testimone di Gesù risorto.

In sintesi: le persone vulnerabili, incontrate e accolte con la grazia di Cristo e con il suo stile, possono essere una presenza di Vangelo nella comunità credente e nella società.

(Discorso letto da un collaboratore
ai partecipanti al convegno della “cattedra dell’accoglienza” )

Sabato 2

Con lo stile
del coraggio

Desidero riflettere su una virtù alla quale ripenso più volte seguendo le vicende che interessano l’amministrazione della giustizia, anche nello Stato della Città del Vaticano: mi riferisco al coraggio.

Per i cristiani questa virtù, che nelle difficoltà, unita alla fortezza, assicura la costanza nella ricerca del bene e rende capaci di affrontare la prova, non rappresenta solo una particolare qualità d’animo caratteristica di alcune persone eroiche.

È piuttosto un tratto che viene donato e potenziato nell’incontro con Cristo, come frutto dell’azione dello Spirito Santo che chiunque può ricevere, se lo invoca.

Il coraggio contiene una forza umile, che si appoggia sulla fede e sulla vicinanza di Dio e si esprime in particolare nella capacità di agire con pazienza e perseveranza, respingendo condizionamenti interni ed esterni che ostacolano il bene. Questo disorienta i corrotti e li mette in un angolo, con il loro cuore chiuso e indurito.

Anche nelle società ben organizzate e supportate dalle istituzioni, rimane necessario il coraggio personale per affrontare le diverse situazioni.

Sana audacia

Senza questa sana audacia, si rischia di cedere alla rassegnazione e si finisce per trascurare piccoli e grandi soprusi.

Chi è coraggioso non mira al protagonismo ma alla solidarietà con i fratelli che portano il peso di paure e debolezze.

Questo coraggio lo vediamo con ammirazione in tanti uomini e donne che vivono prove durissime: pensiamo alle vittime delle guerre o a quanti sono sottoposti a continue violazioni dei diritti umani, tra i quali i numerosi cristiani perseguitati.

Davanti a queste ingiustizie, lo Spirito ci dà la forza di non rassegnarci, suscita in noi lo sdegno di fronte a queste realtà inaccettabili e il coraggio per cambiarle.

Con questo coraggio siamo chiamati ad affrontare le difficoltà della vita in famiglia e nella società, a impegnarci per il futuro dei figli, a custodire la casa comune, ad assumerci responsabilità professionali.

Vale in particolare per l’ambito in cui voi operate, quello della giustizia.

Insieme alle virtù della prudenza e della giustizia, che devono essere informate dalla carità, e alla necessaria temperanza, il compito di giudicare richiede le virtù della fortezza e del coraggio, senza le quali la sapienza rischia di rimanere sterile.

Occorre coraggio per andare in fondo nell’accertamento rigoroso della verità, ricordando che fare giustizia è sempre un atto di carità, un’occasione di correzione fraterna che intende aiutare l’altro a riconoscere il suo errore. Pure quando devono essere sanzionati comportamenti che sono più gravi e scandalosi quando avvengono nella comunità cristiana.

Bisogna avere coraggio mentre si è impegnati per assicurare il giusto svolgimento dei processi e si è sottoposti a critiche.

La robustezza delle istituzioni e la fermezza nell’amministrazione della giustizia sono dimostrate dalla serenità di giudizio, dall’indipendenza e dall’imparzialità di quanti sono chiamati, nelle varie tappe del processo, a giudicare.

La miglior risposta sono il silenzio operoso e la serietà nel lavoro, che consentono ai Tribunali di amministrare la giustizia con autorevolezza e imparzialità, garantendo il giusto processo, nel rispetto delle peculiarità dell’ordinamento vaticano.

Occorre coraggio, infine, per implorare nella preghiera che la luce dello Spirito Santo illumini il discernimento necessario per arrivare a una sentenza giusta.

Amministrare la giustizia

Il discernimento si fa “in ginocchio”, implorando il dono dello Spirito Santo, in modo da poter giungere a decisioni che vanno nella direzione del bene delle persone e dell’intera comunità ecclesiale.

Come recita la Legge cccli sull’ordinamento dello Stato, «amministrare la giustizia non è solo una necessità di ordine temporale. La virtù cardinale della giustizia, infatti, illumina e sintetizza la finalità stessa del potere giudiziario proprio di ogni Stato, per coltivare la quale è essenziale anzitutto l’impegno personale, generoso e responsabile, di quanti sono investiti della funzione giurisdizionale».

Tale impegno chiede di essere sostenuto dalla preghiera. Non si deve temere di perdere tempo.

Nel vostro servizio alla giustizia possiate mantenere sempre, insieme alla prudenza, il coraggio cristiano.

(Discorso letto da un collaboratore
per l’Inaugurazione dell’anno giudiziario
del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano)

Mercoledì 6

L’umiltà
rimedio
alla superbia
che avvelena
la fraternità

Oggi arriviamo all’ultimo dei vizi: la superbia. Gli antichi greci la definivano “eccessivo splendore”. In effetti, [essa] è autoesaltazione, presunzione, vanità. Il termine compare anche in quella serie di vizi che Gesù elenca per spiegare che il male proviene sempre dal cuore dell’uomo (Mc 7, 22).

Il superbo è uno che pensa di essere più di quanto sia in realtà; freme per essere riconosciuto più grande e disprezza gli altri ritenendoli inferiori. Da questa descrizione, vediamo come il vizio sia molto prossimo a quello della vanagloria, presentato la volta scorsa.

Però, la vanagloria è ancora una malattia infantile se paragonata allo scempio di cui è capace la superbia.

Analizzando le follie dell’uomo, i monaci dell’antichità riconoscevano un ordine nella sequenza dei mali: dai peccati più grossolani, come può essere la gola, per approdare ai mostri più inquietanti.

Di tutti i vizi, la superbia è gran regina.

Nella Divina Commedia Dante la colloca proprio nella prima cornice del purgatorio: chi cede a questo vizio è lontano da Dio, e l’emendazione di questo male richiede tempo e fatica, più di ogni altra battaglia a cui è chiamato il cristiano.

In questo male si nasconde il peccato radicale, l’assurda pretesa di essere come Dio. Il peccato dei nostri progenitori, raccontato dalla Genesi, è un peccato di superbia.

Gli scrittori di spiritualità sono più attenti a descrivere le ricadute della superbia nella vita di tutti i giorni, come essa rovini i rapporti umani, come avveleni quel sentimento di fraternità che dovrebbe accomunare gli uomini.

La lista
dei sintomi

Ecco la lista di sintomi che rivelano il cedimento al vizio della superbia.

È un male con un evidente aspetto fisico: il superbo è altero, ha una “dura cervice”, un collo rigido, che non si piega.

È un uomo facile al giudizio sprezzante: per un niente emette sentenze irrevocabili nei confronti degli altri, che gli paiono irrimediabilmente inetti e incapaci.

Nella sua supponenza, si dimentica che Gesù nei Vangeli ci ha assegnato pochissimi precetti morali, ma su uno di essi si è dimostrato intransigente: non giudicare mai.

Ti accorgi di avere a che fare con un orgoglioso quando, muovendo a lui una piccola critica costruttiva, o un’osservazione innocua, egli reagisce in maniera esagerata, come se qualcuno avesse leso la sua maestà: va su tutte le furie, urla, interrompe i rapporti con gli altri in modo risentito.

C’è poco da fare con una persona ammalata di superbia. È impossibile parlarle, tantomeno correggerla, perché in fondo non è più presente a sé stessa.

Bisogna solo avere pazienza, perché un giorno il suo edificio crollerà.

Un proverbio italiano recita: “La superbia va a cavallo e torna a piedi”.

Nei Vangeli Gesù ha a che fare con tanta gente superba, e spesso è andato a stanare questo vizio anche in persone che lo nascondevano bene.

Pietro sbandiera la sua fedeltà a tutta prova: «Se anche tutti ti abbandonassero, io no!» (Mt 26, 33). Presto farà invece l’esperienza di essere come gli altri, anche lui pauroso davanti alla morte che non immaginava potesse essere così vicina.

Così il secondo Pietro, che non solleva più il mento ma che piange lacrime salate, verrà medicato da Gesù e sarà finalmente adatto a reggere il peso della Chiesa.

Prima sfoggiava una presunzione che era meglio non sbandierare; ora invece è un discepolo fedele che, come dice una parabola, il padrone può mettere «a capo di tutti i suoi averi» (Lc 12, 44).

La salvezza passa per l’umiltà, vero rimedio a ogni atto di superbia. Nel Magnificat, Maria canta il Dio che con la sua potenza disperde i superbi nei pensieri malati del loro cuore.

È inutile rubare qualcosa a Dio, come sperano di fare i superbi, perché in fin dei conti Lui ci vuole donare tutto.

Per questo l’apostolo Giacomo, alla sua comunità ferita da lotte intestine originate dall’orgoglio, scrive: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia».

Approfittiamo di questa Quaresima per lottare contro la nostra superbia.

(Catechesi letta da un collaboratore all’udienza generale in piazza San Pietro )