· Città del Vaticano ·

Matteo Garrone, regista di «Io capitano», alla «Cattedra dell’Accoglienza» di Sacrofano

Non ce l’hanno
raccontata giusta

 Non ce l’hanno  raccontata giusta   QUO-051
01 marzo 2024

Quando si racconta una tragedia è fondamentale aver chiaro come e perché lo si fa. E soprattutto quali siano le conseguenze della storia che si racconta. Ālān Kurdî era un bambino siriano di tre anni di etnia curda. Il suo nome è noto perché è morto annegato, ed è stato ritrovato da un barista in servizio presso un hotel di fronte alla spiaggia del ritrovamento in Turchia. Il suo cadavere è divenuto un simbolo della crisi europea dei migranti grazie alla fotografia del suo corpo senza vita scattata dalla giornalista turca Nilüfer Demir. Quando venne pubblicata quell’immagine mi fu chiesto se io — allora ero direttore de «La Civiltà Cattolica» — avrei pubblicato quell’immagine, qualora fosse dipeso da me. Ho riflettuto a lungo su come rispondere dopo una bella e intensa conversazione con Monica Maggioni. Alla fine, ho risposto di no. Per evitare l’anestesia al dolore. Io temo che alcune rappresentazioni della tragedia abbassino la soglia della percezione del male, e alla fine non ci si fa più caso.

Insomma: dobbiamo capire come narrare la tragedia senza produrre vaccini e anestetici dell’anima. Ho pubblicato invece alcuni disegni dei bambini dei campi di Lesbo che sono stati donati a papa Francesco. In quei disegni il sole piangeva e le navi affondavano piangendo esattamente come le persone. Ce n’era uno in cui ombre infantili giocavano con le altalene: le ombre dei bambini morti. La visione creativa dei bambini può essere dolcissima ma anche ustionante. È tutta questione di come si raccontano le cose, insomma.

I film sulle migrazioni sono importanti: Terraferma di Crialese, Focammare di Rosi, Mediterranea di Carpegnano sono opere che creano una narrativa e affrontano il rischio della retorica, del buonismo, del pietismo. Si tratta di un rischio che bisogna correre assolutamente. Evitarlo significa cadere nell’afasia. Io capitano di Matteo Garrone non solamente accetta la sfida, ma la richiama a sé con coraggio e sfacciataggine. Conosciamo il valore di uno dei migliori registi italiani. Il suo Io capitano ha vinto il Leone d’argento per la miglior regia alla 80ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ed è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero: quest’ultimo è un risultato tanto meritato quanto fuori dalle previsioni.

Il 27 febbraio il regista ha partecipato alla «Cattedra dell’Accoglienza» presso la Fraterna Domus di Sacrofano sul tema «Vulnerabilità e comunità. Tra accoglienza e inclusione». Con lui ho realizzato una conversazione in collegamento da Los Angeles, insieme a Mamadou Kouassi, attivista del Centro sociale ex Canapificio e del Movimento migranti e rifugiati di Caserta, che è tra gli ispiratori del film. Il senso di questa conversazione è stato quello di affermare che non basta documentare il dramma della migrazione: occorre saper vedere, abilitare gli occhi a toccare con mano la realtà, e a sentirla anche in modo pienamente emozionale.

Innanzitutto, qui i protagonisti sono due ragazzi, Seydu e Mousse, che vivono dignitosamente in serenità in un villaggio del Senegal. A questi due ragazzi non manca nulla: non manca l’affetto di una famiglia, non manca la comunità, non manca un tetto sulla testa, neanche il cibo. In fondo, i due lasciano un luogo che esprime tanta energia vitale: Garrone lo rappresenta in modo molto colorato e bello. I legami umani sono anche molto forti. Quindi questi due ragazzi non sono due disperati. E già questo pone chi guarda fuori dall’immaginario della disperazione, avvicinando e includendo lo spettatore. Seydu e Mousse scelgono di lasciare il loro Paese, perché sognano il «successo» in Europa, da rapper. Seydu non ambisce alla sopravvivenza del nuovo schiavismo legalizzato, ma ambisce a firmare autografi. Quello che Garrone rappresenta è il sogno di due adolescenti. E così provoca anche lo spettatore, affermando che esiste un razzismo occulto che ammette sì i bisogni primari, ma non i sogni. Tutto sommato, questo film parla della voglia di vivere, di essere felici, di diventare «capitani» della propria esistenza. E questo è già uno shock.

D’altra parte, è proprio questo taglio narrativo che ci fa comprendere come la globalizzazione sia arrivata anche in Senegal, e i due sono travolti dall’ambizione. Questo giustifica il viaggio? È chiaro che il tema presenta aspetti molto problematici e rappresenta chi, attirato dalla cultura occidentale, nutre aspettative irrealistiche che lo espongono a pesanti delusioni. Ma la sua forza è quella di spiazzare il modello di migrante, che non aderisce agli stereotipi. E per questo ha fatto storcere il naso a molti. E qui c’è anche una delle chiavi fondamentali del valore di Io capitano.

Un elemento particolarmente critico è quello che riguarda la figura dello scafista. La storia a cui si ispira Garrone è anche quella del minorenne Fofana Amara, che aveva portato in salvo centinaia di persone su un’imbarcazione partita dalla Libia e, una volta in Italia, era stato arrestato e condannato come «scafista», appunto. Seydou, il «capitano», è scafista suo malgrado. E così destabilizza la nostra certezza che lo scafista sia sempre e solo un criminale. La realtà è decisamente più complessa: il trafficante non ha alcun bisogno di rischiare la vita in mare, e se ne sta comodo guadagnando su chi conduce senza esperienza le carrette del mare.

Ma lo shock e la sfida della pellicola derivano dai marcati tratti onirici e fiabeschi che caratterizzano la narrazione. Garrone ha rinunciato a qualsiasi pretesa documentaristica, in favore di un topos letterario: il viaggio simbolico e solitario dell’eroe. Al regista interessava fare un film che fosse in parte epico, ma anche un road movie, e un romanzo di formazione. C’è dentro Pinocchio, l’Odissea, ma anche L’isola del tesoro di Stevenson, e Cuore di tenebra di Conrad. È un film profondamente poetico. Omero ci parla del solletico dell’ignoto, che vince sulla dolcezza e il comfort delle mura domestiche, e così Garrone muta l’orrore in fiaba e la realtà in leggenda. In fondo la sua cifra è quella del neorealismo magico, con la quale approfondisce il rapporto con la storia. In questo senso il film evita qualsiasi atteggiamento predicatorio, trasfigurando la tragedia attraverso la forza della fantasia, che è un’operazione stilistica rischiosissima, eppure straordinariamente impegnativa ed efficace. E questa è la forza del film: ci parla di una tragedia in realtà, ma ce ne parla in una maniera trasfigurata tra l’epica e la fiaba, che sono le sue due cifre fondamentali.

Altro elemento estremamente interessante è il paesaggio, perché è incantevole e la fotografia è straordinaria. Il paesaggio sahariano e il mare sono ambienti naturali, armonici, perfetti, ma anche pacifici: la natura è bellissima, quasi «neutrale», cioè non è funzionale ad esprimere la tragedia. Manca, per esempio, il mare in tempesta, che è un luogo comune dell’immaginario delle migrazioni. Quindi il paesaggio svolge una funzione pienamente integrata all’interno di questa trasfigurazione che il regista propone, andando al di là degli stereotipi. «Il paesaggio è un personaggio», mi dice Garrone. Il tono fiabesco ed epico è reso con un gusto cromatico e una perfetta geometria delle immagini che tradiscono il fatto che il suo regista è anche — e lo è fondamentalmente, in realtà — un pittore.

Garrone e Mamadou hanno voluto sottolineare un altro aspetto forte del film: è totalmente narrato dalla parte di chi intraprende il viaggio, quindi non dalla nostra parte, di chi lo guarda da lontano. Lo rivela, tra l’altro, il fatto che il film è girato in wolof, la lingua parlata in Senegal. Sembra che per raccontare questa storia sia stato necessario al regista rifondare un linguaggio con il quale il cinema può raccontarla. Quindi richiede una immersione, una compromissione con un punto di vista totalmente intrinseco a chi questa tragedia la vive in prima persona. Garrone, dunque, ribalta lo sguardo, restituendo la storia alla sua origine e proprio alla sua lingua, ai suoi codici narrativi. In questo senso il film è in grado sempre davvero di restare all’altezza dei suoi protagonisti, identificandosi con il loro sguardo. E la storia è davvero la «loro». E così il film sfida l’accusa possibile di «appropriazione culturale», evitandone le trappole.

È pure importante sapere che gli attori non hanno mai letto la sceneggiatura del film: le parti, le cose da dire, da fare sono state raccontate dal regista, come fosse un cantastorie. Quindi la interpretazione degli attori è molto istintiva, in presa diretta con le emozioni, grazie a un rapporto diretto con la storia, che va al di là della finzione. Gli attori sono davvero interpreti che non recitano sulla base di un copione perfettamente scritto, ma «eseguono» la loro stessa storia.

Alla fine della visione del film si ha l’impressione che le opposte narrative politiche che ben conosciamo abbiano prevalso e, in definitiva, finora non ce l’abbiano raccontata giusta sul significato delle migrazioni, che il Papa ha definito un «elemento fondante del futuro del mondo». E questo rende Io capitano non solamente un capolavoro, ma anche una profonda scossa al nostro modo di capire e raccontare uno dei grandi drammi del nostro tempo che, per lo stesso Francesco sono il «vero nodo politico globale».

di Antonio Spadaro