· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-050
29 febbraio 2024

Sabato 24

La vita
pastorale è un’avventura eucaristica
al servizio
degli altri

La prima domanda che vi verrà posta circa gli impegni che professerete, recita: «Volete esercitare per tutta la vita il ministero sacerdotale nel grado di presbiteri, come fedeli cooperatori dell’ordine dei vescovi nel servizio del popolo di Dio, sotto la guida dello Spirito Santo?».

In queste parole sembra di vedere tre elementi: essere fedeli cooperatori, porvi al servizio del popolo di Dio, stare sotto la guida dello Spirito Santo.

Fedeli
cooperatori

Uno può avere l’idea che, una volta diventato prete, pastore nel popolo di Dio, sia giunta l’ora di prendere in mano la situazione, attuando in prima persona ciò che aveva desiderato, impostando le situazioni con le proprie idee, quelle che ha più care in base alla sua storia personale.

Eppure la Chiesa non chiede di essere leader, ma cooperatori, coloro che “operano con”. Questo è essenziale, perché la Chiesa, come ricorda il Concilio, è anzitutto un mistero di comunione. Il presbitero è testimone di questa comunione, che implica fraternità, fedeltà e docilità.

Coristi, insomma, non solisti; fratelli nel presbiterato e preti per tutti, non per il proprio gruppo; ministri sempre in perenne formazione, senza pensare mai di essere autonomi e autosufficienti.

Quanto è importante continuare la formazione, in contatto con chi, chiamato ad accompagnarvi, ha percorso più strada nel ministero; e farlo con apertura di cuore, per non cedere alla tentazione di gestire la vita per conto proprio, diventando prede delle tentazioni.

Al servizio
del popolo
di Dio

Non si diventa pastori se prima non si è diaconi. Il diaconato non svanisce con il presbiterato; è la base su cui si fonda. Sarete preti per servire, conformati a Gesù.

Allora c’è da custodire un fondamento interiore del sacerdozio, che potremmo chiamare “coscienza diaconale”: come la coscienza sta alla base delle decisioni, così lo spirito di servizio è alla base dell’essere sacerdoti.

Ogni mattina è bene pregare chiedendo di saper servire; e ogni sera, ringraziando e facendo l’esame di coscienza, dire: “Signore, perdonami quando ho pensato più a me che a mettermi al servizio degli altri”.

Ma servire è un verbo che rifiuta ogni astrattezza: vuol dire essere disponibili, rinunciare a vivere secondo la propria agenda, pronti alle sorprese di Dio che si manifestano attraverso persone, imprevisti, cambi di programma, situazioni che non rientrano nei nostri schemi.

La vita pastorale non è un manuale, ma un’offerta quotidiana; non un lavoro a tavolino, ma “un’avventura eucaristica”. È uno stile che parla coi fatti più che con le parole, esprimendo vicinanza.

È non voler bene alle persone per secondi fini, ma riconoscendo in loro i doni unici che il Signore ci ha dato per servirli.

È la gioia di accompagnare prendendo per mano, con pazienza e discernimento. E in questa luce, si supera il pericolo di covare amarezza e insoddisfazione per le cose che non vanno come vorremmo, quando la gente non risponde alle nostre attese e non si adegua alle nostre aspettative.

Sotto la guida dello Spirito

Allo Spirito, dare sempre il primato. Se ciò avviene, la vita, come fu per gli Apostoli, sarà orientata al Signore e dal Signore.

Altrimenti, quando si conta sulle proprie forze, si rischia di trovarsi con un pugno di mosche in mano.

La vita sotto la guida dello Spirito vuol dire passare dall’unzione dell’ordinazione a un’“unzione quotidiana”. Gesù effonde lo Spirito quando stiamo alla sua presenza, quando siamo intimi alla sua Parola.

Stare con Lui ci permette anche di intercedere davanti a Lui per il Santo Popolo di Dio, per l’umanità, per le persone che si incontrano ogni giorno.

(Discorso considerato consegnato ai diaconi
della Diocesi di Roma
)

Domenica 25

La luce
di Gesù

Il Vangelo della seconda domenica di Quaresima presenta la Trasfigurazione di Gesù. Dopo aver annunciato la sua Passione, con Pietro, Giacomo e Giovanni, sale su un monte e si manifesta fisicamente in tutta la sua luce.

Così svela loro il senso di ciò che avevano vissuto insieme. La predicazione del Regno, il perdono dei peccati, le guarigioni e i segni compiuti erano scintille di una luce più grande: la luce che è Gesù.

Da questa luce i discepoli non dovranno più staccare gli occhi, specie nei momenti di prova, come quelli della Passione.

Ecco il messaggio: non staccare mai gli occhi dalla luce di Gesù. Un po’ come facevano in passato i contadini che, arando i campi, focalizzavano lo sguardo su un punto preciso e, tenendo gli occhi fissi sulla meta, tracciavano solchi diritti.

Questo siamo chiamati a fare noi cristiani: tenere sempre davanti agli occhi il volto luminoso di Gesù.

Lungo i sentieri dell’esistenza, a volte tortuosi, cerchiamo il suo volto, pieno di misericordia, di fedeltà, di speranza.

Ci aiutano a farlo la preghiera, l’ascolto della Parola, i Sacramenti. Questo è un buon proposito per la Quaresima: coltivare sguardi aperti, diventare “cercatori di luce”, della luce di Gesù nella preghiera e nelle persone.

Chiediamoci: nel mio cammino, tengo gli occhi fissi su Cristo? E per farlo, do spazio al silenzio, alla preghiera, all’adorazione? Vado in cerca di ogni piccolo raggio della luce di Gesù, che si riflette in me e in ogni fratello e sorella che incontro? Mi ricordo di ringraziare il Signore per questo?

(Angelus in piazza San Pietro)

Mercoledì 28

Basta inutili conflitti
e massacri!

Una delle grandi responsabilità del Sinodo è dare alla vostra Chiesa i Vescovi di domani. Vi prego di sceglierli con cura, perché siano dediti al gregge, fedeli alla cura pastorale, mai arrivisti.

Non vanno scelti in base a simpatie o tendenze, e bisogna stare molto attenti agli uomini che hanno “il fiuto degli affari” o a quelli che “hanno sempre la valigia in mano”, lasciando il popolo orfano.

Un Vescovo che vede la sua Eparchia come luogo di passaggio verso un’altra più “prestigiosa” dimentica di essere sposato con la Chiesa e rischia di commettere un “adulterio pastorale”.

Lo stesso accade quando si perde tempo a contrattare nuove destinazioni o promozioni: i Vescovi non si acquistano al mercato, è Cristo a sceglierli come Successori dei suoi Apostoli e Pastori del suo gregge.

In un mondo pieno di solitudini e distanze, quanti ci sono affidati devono sentire da noi il calore del Buon Pastore, attenzione paterna, la bellezza della fraternità, la misericordia di Dio.

I figli del vostro caro popolo hanno bisogno della vicinanza dei loro Vescovi. So che in grandissimo numero sono dispersi nel mondo e talvolta in territori molto vasti, dov’è difficile che siano visitati.

Ma la Chiesa è Madre amorevole e non può che cercare tutti i mezzi possibili per raggiungerli, perché ricevano l’amore di Dio nella loro tradizione ecclesiale.

Non è tanto questione di strutture, le quali sono solo mezzi che aiutano la diffusione del Vangelo; è soprattutto questione di carità pastorale, di cercare e promuovere il bene con sguardo e apertura evangelici. Penso all’essenzialità di un’ancor più stretta collaborazione con la Chiesa armena apostolica.

In questo tempo santo della Quaresima siamo chiamati a guardare la Croce e a costruire su Cristo, che guarisce le ferite con il perdono e con l’amore.

Siamo tenuti a intercedere per tutti, con grandezza d’animo e di spirito. Come san Gregorio di Narek, che pregava: Signore, «ricordati […] di quelli che nella stirpe umana sono nostri nemici, ma per il loro bene: compi in loro perdono e misericordia».

E ancora, con attualità profetica impressionante, scriveva: «Non sterminare coloro che mi mordono: trasformali! Estirpa la viziosa condotta terrena e radica quella buona in me e in loro» (Libro delle Lamentazioni, lxxxiii ).

San Gregorio l’Illuminatore portò la luce di Cristo al popolo armeno ed esso è stato il primo, in quanto tale, ad accoglierla nella storia.

Dunque voi siete testimoni e “primogeniti” di questa luce, siete un’alba chiamata a irradiare la profezia cristiana in un mondo che spesso preferisce le tenebre dell’odio, della divisione, della violenza, della vendetta.

Certo — potreste dirmi — la nostra Chiesa non è grande numericamente. Ma ricordiamo che Dio ama compiere meraviglie con chi è piccolo.

Preghiera
per chi fugge dal Nagorno-Karabakh

Non si trascuri la cura nei riguardi dei piccoli e dei poveri, mostrando loro l’esempio di una vita evangelica, lontana dai fasti delle ricchezze e dall’arroganza del potere; accogliendo i rifugiati, sostenendo quanti sono nella diaspora.

Pregare molto, anche per custodire quell’ordine interiore che permette di operare in armonia, discernendo le priorità.

Ricorda l’antico detto latino: “Conserva l’ordine e l’ordine ti conserverà”. I vostri Sinodi siano dunque ben preparati, i problemi studiati con cura e valutati con saggezza; le soluzioni, per il bene delle anime, siano applicate e verificate con prudenza, coerenza e competenza, assicurando piena trasparenza, anche nel campo economico.

Le leggi vanno conosciute e applicate non per formalismo, ma perché sono strumenti di un’ecclesiologia che permette anche a chi non ha potere di appellarsi alla Chiesa con pieni diritti codificati, evitando gli arbitrii del più forte.

Ancora un pensiero a proposito della pastorale vocazionale. In un mondo secolarizzato, i seminaristi e quanti si formano nella vita religiosa hanno bisogno, oggi più che mai, di essere ben radicati in una vita cristiana autentica, lontana da ogni “psicologia principesca”.

Così pure ai sacerdoti, specialmente giovani, occorre la vicinanza dei Pastori, che favoriscano la comunione fraterna tra di loro, perché non si scoraggino davanti alle fatiche e giorno dopo giorno siano sempre più docili alla creatività dello Spirito Santo, per servire il Popolo di Dio con la gioia della carità, non con la rigidità e la ripetitività sterile dei burocrati.

In tutto, speranza: anche se la messe è molta e gli operai sempre pochi, contiamo sul Signore, che compie prodigi.

Come non evocare infine, con le parole ma soprattutto con la preghiera, l’Armenia, in particolare tutti coloro che fuggono dal Nagorno-Karabakh, le numerose famiglie sfollate che cercano rifugio!

Tante guerre, tante sofferenze. La prima guerra mondiale doveva essere l’ultima e gli Stati si costituirono nella Società delle Nazioni, “primizia” delle Nazioni Unite, pensando che ciò bastasse a preservare il dono della pace.

Eppure da allora, quanti conflitti e massacri, sempre tragici e sempre inutili.

Tante volte ho supplicato: “Basta!”. Echeggiamo tutti il grido della pace, perché tocchi i cuori, anche quelli insensibili alla sofferenza dei poveri e degli umili. E soprattutto preghiamo.

(Discorso letto da monsignor Ciampanelli
ai membri del Sinodo dei Vescovi della Chiesa patriarcale di Cilicia degli Armeni)

Il demone
dell’invidia

Oggi prendiamo in esame due vizi capitali che troviamo nei grandi elenchi che la tradizione spirituale ci ha lasciato: l’invidia e la vanagloria.

Partiamo dall’invidia. Essa appare come uno dei vizi più antichi: l’odio di Caino nei confronti di Abele si scatena quando si accorge che i sacrifici del fratello sono graditi a Dio.

Caino era il primogenito di Adamo ed Eva, si era preso la parte più cospicua dell’eredità paterna; eppure, basta che il fratello minore, riesca in una piccola impresa, che Caino si rabbuia.

Il volto dell’invidioso è sempre triste: lo sguardo è basso, pare che indaghi in continuazione il suolo, ma in realtà non vede niente, perché la mente è avviluppata da pensieri pieni di cattiveria.

L’invidia, se non viene controllata, porta all’odio dell’altro. Abele sarà ucciso per mano di Caino, che non poteva sopportare la felicità del fratello.

È un male indagato non solo in ambito cristiano: ha attirato l’attenzione di filosofi e sapienti di ogni cultura.

Alla sua base c’è un rapporto di odio e amore: si vuole il male dell’altro, ma segretamente si desidera essere come lui. L’altro è l’epifania di ciò che vorremmo essere, e che in realtà non siamo.

La sua fortuna ci sembra un’ingiustizia: noi avremmo meritato molto di più i suoi successi o la sua buona sorte!

La matematica di Dio
è la logica
dell’amore

Alla radice di questo vizio c’è una falsa idea di Dio: non si accetta che Dio abbia la sua “matematica”, diversa dalla nostra.

Ad esempio, nella parabola di Gesù sui lavoratori chiamati dal padrone ad andare nella vigna alle diverse ore del giorno, quelli della prima ora credono di aver diritto a un salario maggiore di quelli arrivati per ultimi; ma il padrone dà a tutti la stessa paga, e dice: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?».

Vorremmo imporre a Dio la nostra logica egoistica, invece la logica di Dio è l’amore. I beni che Lui ci dona sono fatti per essere condivisi.

San Paolo esorta i cristiani: «Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda». Ecco il rimedio all’invidia!

Secondo vizio: la vanagloria

Essa va a braccetto con il demone dell’invidia, e insieme questi due vizi sono propri di una persona che ambisce a essere il centro del mondo, libera di sfruttare tutto e tutti, oggetto di ogni lode e di ogni amore.

La vanagloria è un’autostima gonfiata e senza fondamenti.

Il vanaglorioso possiede un “io” ingombrante: non ha empatia e non si accorge che nel mondo esistono altre persone oltre a lui.

I suoi rapporti sono sempre strumentali, improntati alla sopraffazione.

La sua persona, le sue imprese, i suoi successi devono essere mostrati a tutti: è un perenne mendicante di attenzione.

E se qualche volta le sue qualità non vengono riconosciute, allora si arrabbia ferocemente.

Gli altri sono ingiusti, non capiscono, non sono all’altezza.

Nei suoi scritti Evagrio Pontico descrive l’amara vicenda di qualche monaco colpito dalla vanagloria.

Succede che, dopo i primi successi nella vita spirituale, si sente già un arrivato, e allora si precipita nel mondo per ricevere le sue lodi.

Ma non capisce di essere solo agli inizi del cammino spirituale, e che è in agguato una tentazione che presto lo farà cadere.

Per guarire il vanaglorioso, i maestri spirituali non suggeriscono molti rimedi. Perché in fondo il male della vanità ha il suo rimedio in sé stesso: le lodi che il vanaglorioso sperava di mietere nel mondo presto gli si rivolteranno contro.

Quante persone, illuse da una falsa immagine di sé, sono poi cadute in peccati di cui presto si sarebbero vergognate!

L’istruzione più bella per vincere la vanagloria la possiamo trovare nella testimonianza di san Paolo.

L’Apostolo fece sempre i conti con un difetto che non riuscì mai a vincere. Per ben tre volte chiese al Signore di liberarlo da quel tormento, ma alla fine Gesù gli rispose: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».

Da quel giorno Paolo fu liberato. E la sua conclusione dovrebbe diventare anche la nostra: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo».

(Catechesi letta da monsignor Ciampanelli all’udienza generale nell’Aula Paolo vi )