· Città del Vaticano ·

DONNE CHIESA MONDO

PuntiDiOsservazione
Davvero è questione di genere?
L’esperienza di un presbitero

Avere un capo donna
(in Curia)

  Avere un capo donna (in Curia)   DCM-003
02 marzo 2024

Da ventidue anni sono prete e ho avuto la fortuna di iniziare presto a lavorare anche in ambiti secolari: nelle scuole statali, ad esempio, e contemporaneamente all’interno di reti educative e civiche in cui la mia era una fra molte prospettive. Ho avvertito meglio la specificità del contributo che dalla Chiesa ci si attende, ho sperimentato metodologie a cui il Seminario non mi aveva formato, ho iniziato a incontrare donne in una posizione di maggiore responsabilità rispetto alla mia. Progressivamente ho realizzato, non senza inquietudine e sofferenza, che gli incontri del clero, le assemblee ecclesiali, la vita ordinaria delle comunità cattoliche potevano essere più poveri di comunione e meno allenati alla diversità di tante realtà professionali e civili. Questo rende demotivati e stanchi, quale che sia la nostra vocazione.

Lavoro da quasi tre anni in un dicastero della curia romana, quello a servizio dello sviluppo umano integrale. L’intuizione conciliare di uno sviluppo di tutto l’umano e di tutti gli umani si traduce in una quotidianità che deve risultare trasformativa e liberante anche per noi, a servizio del Papa e delle Chiese locali per alcuni anni della nostra vita. Ad esempio, molti hanno osservato e scritto che il nuovo profilo della curia tratteggiato dalla costituzione Praedicate evangelium (2022) ha uno dei primi riscontri nel nostro avere una donna, suor Alessandra Smerilli, come segretario. Un ruolo apicale, tradizionalmente arcivescovile, che implica la conduzione dell’intero gruppo di lavoro: nel nostro caso, di decine di uomini e donne, fra cui i consacrati sono minoranza. Ciò significa che, giunto a Roma dopo quasi due decenni di ministero nella diocesi di Milano, quanto prima mi arricchiva prevalentemente fuori dalla Chiesa ora è un habitat nel cuore della cattolicità. Si sa molto poco di tutto questo e credo ci occorra una nuova narrazione di come battezzate e battezzati di diverse estrazioni e provenienze possano partecipare al governo della Chiesa, impegnando a fianco del vescovo le proprie competenze e sensibilità.

Non è raro che mi si chieda com’è avere una donna per capo. Siamo in molti, credo, a doverla cercare una risposta: non è spontanea, non è semplice. Questa fatica interroga sulla sensatezza della domanda. Davvero la questione è di genere? In dicastero apprezziamo le capacità di leadership di suor Alessandra, naturalmente. Dobbiamo necessariamente dire che le sue qualità esprimono un particolare genio femminile? Forse. Eppure, più si fa delle persone una categoria, più si scivola nel generico. Naturalmente, se qualcuno ha dei pregiudizi verso le donne in generale, o una persona in particolare, le negatività possono esprimersi anche con degli stereotipi di genere. Non si può negare che è faticoso per alcuni chierici accettare di rispondere del proprio lavoro a chi chierico non è: varrebbe probabilmente anche con un laico, ma con una donna è piuttosto nuovo e per qualcuno doppiamente difficile. Certo, un buon leader sa che nelle critiche c’è ogni volta qualcosa che va colto in tempo, un’intuizione o un presentimento che possono essere volti al bene. Sono allora femminili la qualità nell’ascolto, la disponibilità a ricominciare, la capacità di ricucire, il non prendere tutto di petto o di principio? Sì e no. Come maschio, mi pare di poter diventare uomo sviluppando dimensioni che non mi sono estranee, ma che per cultura e formazione non riconoscevo come elementi di forza. Certo, esse maturano nell’esposizione ad altro, lasciando cioè che modi d’essere diversi dai miei interagiscono con ciò che sono già.

Ogni persona porta una prospettiva unica e, se la coltiva senza separarsi dagli altri, una comprensione profonda e singolare di molte questioni, compresi i temi di fede. Ciò che un prete sperimenta, in un dicastero come il nostro, è che se si escludono le donne dalle conversazioni e dalle decisioni, dalle responsabilità e dalla riflessione teologica, anzitutto ci si priva di metà dell’umanità e della maggioranza di coloro che, nel popolo di Dio, pregano, credono, ascoltano la Parola, celebrano i sacramenti, vivono la carità ogni giorno. A me pare questo il punto. Una Chiesa che si priva delle donne nei ruoli chiave della sua vita si impoverisce di metà, o forse di più, di coloro che ha generato alla fede e hanno da Dio una parola profetica da condividere. Il vescovo di Roma - e di conseguenza ogni vescovo, ogni parroco - non può permettersi questo impoverimento della vita ecclesiale: per questo, un’obbedienza sincera allo Spirito intensifica la comunione delle differenze, sino a chiedere ripensamenti teologici e riforme. Lo sappiamo, ma lo traduciamo ancora troppo poco nella gran parte delle sedi ecclesiali: la nuova coscienza che le donne hanno di se stesse nella sfera pubblica e professionale nulla toglie alle loro caratteristiche già apprezzate nel passato, ma come un vero e proprio segno dei tempi cambia la nostra esperienza della realtà, arricchendola. Non più ambiti di vita e di impegno separati fra uomini e donne, ma comune presa in carico, ciascuno con le sue specificità, della vita familiare e sociale, dei compiti educativi e dell’economia, della spiritualità e della politica.

È un cammino soltanto iniziato: anche in ambito civile è più difficile di quanto appaia. In esso la Chiesa è sollecitata a ripensarsi, comprendendo ciò che i vangeli contengono già e oggi diventa più chiaro: attorno a Gesù uomini e donne stavano insieme come mai era avvenuto prima. La Chiesa obbedisce alla Parola di Dio: questo è il criterio. Le circostanze storiche ci impegnano ad ascoltarla e interpretarla, a riceverla cioè come Parola viva. È il cuore di un processo sinodale che rispecchi il modo di prendere decisioni descritto già negli Atti degli Apostoli. Gesù mise in guardia le guide del popolo dal far diventare la loro tradizione una legge che annulla la Parola di Dio. Occorre, dunque, chiamare le cose per nome e combattere le false solidarietà, specie se rivestite di sacro e subite nella forma di un potere che toglie la parola. Il bene è sempre nella luce, non umilia, non si paga: questo vale internamente anche al mondo femminile, ma chiede una specifica vigilanza dove per cultura o tradizione gli uomini tendono a far valere un diritto sulle donne, o i grandi sui piccoli, generalmente in nome di Dio. Viviamo una crisi dell’autorità che ha sconvolto le Chiese di buona parte del mondo. Dovremo sempre più farci aiutare dalle competenze multidisciplinari di molti battezzati e confrontarci circa l’efficacia di buone pratiche già in corso o in fase di sperimentazione. È tutta la società che in modi e con ritmi diversi, a seconda delle latitudini e delle culture, sta facendo passi da gigante sui diritti delle persone. Al punto che dove vengono negati – e in quanti modi e in quanti luoghi i diritti umani fondamentali lo sono ancora - ciò è uno scandalo insostenibile. L’evoluzione di questo processo sarà drammatica nella misura in cui travolge gli interessi di pochi nelle cui mani si concentrano oggi ricchezze e potere, ma occorre avere fiducia nelle sorprese di Dio, che sa toccare i cuori e le menti, sa far nascere il nuovo dove meno lo si aspetta, sa cambiare il dolore in gioia.

di Sergio Massironi
Presbitero della Diocesi di Milano, teologo presso il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale