· Città del Vaticano ·

Vent’anni fa moriva lo studioso russo Sergej S. Averincev

Illuminato di felicità
come un bambino

 Illuminato di felicità  come un bambino  QUO-047
26 febbraio 2024

Ho conosciuto Sergej Sergeevič Averincev il 1 febbraio del 2000 in occasione della prima edizione del convegno annuale Cattolicesimo e Letteratura nel ‘900 da me ideato e organizzato. Diventammo amici e lui venne, la sera stessa, a cena a casa mia. Esattamente un anno dopo ebbi la fortuna di incontrarlo di nuovo a Torino e lo intervistai per «Il Mattino»: si trovava nel capoluogo piemontese per ricevere il Premio senatore Giovanni Agnelli per il dialogo fra gli universi culturali. Scrissi all’epoca che «se segno distintivo dei grandi uomini stranieri è l’amore per il nostro paese, allora anche il professore Averincev è una conferma vivente a questa regola: avendo appreso per quale giornale scrivo mi parla di Partenope e del Sud Italia mentre il suo volto sottile e giovanile si illumina di felicità come quello di un bambino».

Confesso che mi ero dimenticato di averlo intervistato, di lui ricordavo il nostro incontro, l’affabilità, l’amicizia e l’aspetto “lavorativo” l’avevo proprio rimosso. Mi piace infatti ricordarlo solo per quella nota personale, direi «fisica» di quel suo volto «sottile e giovanile» che, spesso, «si illuminava di felicità come quello di un bambino».

Sergej Averincev morì il 21 febbraio 2004. I giornali italiani non diedero molto “spazio” alla notizia, del resto non esiste mai spazio sufficiente per raccogliere la notizia di una morte. Come scrive un grande scrittore russo, Vladimir Nabokov, «sebbene la superficie di una pietra tombale orlata di muschio sia sufficiente a contenere il riassunto della vita di un uomo, i dettagli sono sempre i benvenuti», ed ecco quindi qualche minimo dettaglio che affiora dalla mia memoria, ma prima ancora dei dettagli, penso che due parole più “ufficiali” andrebbero spese per Sergej Sergeevič Averincev, questo genio multiforme, poeta, filologo, filosofo, storico, critico letterario che era nato a Mosca nel 1937.

Della sua vasta bibliografia il pubblico italiano ha conosciuto solo poche opere: Dieci poeti. Ritratti e destini (con uno splendido saggio su Chesterton), Cose attuali e cose eterne. La Russia d’oggi e la cultura europea (entrambi pubblicati da La Casa di Matriona), Adamo e il suo costato (Lipa), e, soprattutto i suoi due capolavori: L’anima e lo specchio (Il Mulino) e Atene e Gerusalemme (Donzelli). Questi pochi titoli, se non danno ragione al genio moscovita, rivelano però come tutta l’opera di Averincev sia stata sempre rivolta alla problematica del dialogo tra Oriente e Occidente.

In Atene e Gerusalemme, solo sessantatré, formidabili, pagine, il filosofo osservava le distanze e le possibili vicinanze tra le due civiltà che hanno dato vita alla cultura occidentale. Come non troveremo mai, sottolineava Averincev, un’opera ebraica intitolata, per esempio, Sulla poetica, oppure Su Omero, così non è paragonabile la speculazione dei filosofi greci, con quella che troviamo, per esempio, nelle pagine di Giobbe. E la differenza non è qualitativa ma è proprio nel fatto che queste due realtà non possono essere tra loro confrontate. Se i Greci ebbero la piena consapevolezza di “fare filosofia”, di “fare letteratura”, la saggezza degli Ebrei, di cui è ricolma la Bibbia (e non solo il capolavoro di Giobbe), è appunto saggezza, filosofeggiare, mai “filosofia”. Forse è per questo alto grado di autocoscienza che è nato il mito (da sfatare) dell’Ellade come “Inizio”, prima del quale non sarebbe esistito nulla.

Si potrebbe continuare a elencare qui i meriti speculativi del professore di Mosca che il cardinale Poupard amava definire «Solov’ëv dei nostri tempi». Ma non posso farlo io. Non solo perché per citare e analizzare i titoli, le opere, i dati di una vita letteraria così ricca io sarei la persona più incompetente, ma perché, come già detto, vorrei qui, più semplicemente, parlare dell’uomo, dell’amico.

Quando mi telefonò da Vienna per dirmi che stava per arrivare a Roma, pochi giorni prima del convegno del 1 febbraio 2000, mi disse subito che non sapeva bene l’italiano ma che avremmo potuto tranquillamente parlare in latino... Decidemmo di parlare in inglese. Ogni tanto smetteva l’inglese, lingua che non doveva amare particolarmente, e attaccava col francese. Mi resi conto ben presto che conosceva praticamente tutte le lingue europee e lui di questo era molto rammaricato, del fatto cioè che della lingua italiana conosceva pochissime cose, solo i saluti e i numeri. Infatti, come per farmi contento, ogni volta che mi telefonava, esordiva dicendo: «Pronto, dottor Monda? Il suo numero è 06-88..., vero? Salute, sono Averincev», e poi attaccava con il suo inglese dal forte accento sovietico. La cosa a un tempo mi commuoveva e mi divertiva molto.

Al convegno fece un intervento, in francese, sul poeta russo Ivanov. Mentre parlava arrivò un uomo, molto anziano, dall’aspetto altero, aristocratico: era il figlio di Ivanov. Appena entrò nel sala del convegno, Averincev smise di leggere, si alzò e andò ad abbracciare il vecchio amico, tutto questo con nobile naturalezza. Parlarono in russo per un minuto e la scena a tutti i presenti sembrò uscita fuori dalla penna di uno dei grandi scrittori russi dell’Ottocento. Poi Averincev riprese la sua relazione mentre Ivanov junior, seduto in prima fila, annuiva commosso alle parole del critico.

La sera tutti i relatori vennero a cena a casa mia. Averincev venne con la moglie, l’Averinceva, una donna dolcissima con le gote rosse, una specie di matrioska, di contadina russa che si scusava di parlare solo il russo e un po’ di latino. La cena fu piacevolissima, anche per la presenza di questa coppia. Ricordo ancora un dialogo surreale tra l’Averinceva e mia zia Gianna che aveva preparato, per l’occasione, un piatto di insalata, ovviamente russa. La offrì all’Averinceva con queste parole: «Prego, vuole dell’insalata russa? Sine pisce!». Penso che volesse indicare che non c’era il pesce tra gli ingredienti (avevo detto a mia zia che bisognava parlare un po’ di latino), al che l’Averinceva rispose «Optime! Optime!», e mia zia, senza scoraggiarsi, «Cor vestris» che nelle sue intenzioni voleva dire, immagino, «al suo buon cuore». Il dialogo andò ancora avanti, ma io preferii fuggire e andare a parlare con il filosofo russo che era intento a sbalordire mio figlio di cinque anni con un gioco di abilità che stupì parecchio anche me: riusciva, non so come, a piegare e mettere il mignolo sull’anulare, l’anulare sul medio, il medio sull’indice, l’indice sul pollice. Ruotava tutte e due le mani così conciate e mio figlio ancora si ricorda quella «rotante mostruosità di dita». Mangiando l’insalata russa, parlammo in piedi vicino alla mia libreria. Averincev notò i miei libri di letteratura inglese e io gli parlai dei miei grandi amori: Chesterton, Tolkien, Lewis... dopo qualche minuto capii, con un pizzico d’ansia, che su tutti e tre gli autori lui ne sapeva molto più di me. E la cosa più bella era la sua umiltà, tratto distintivo di tutti i grandi uomini.

Tra un gioco d’abilità e qualche difficile traduzione dal latino all’italiano, passando per l’inglese (ricordo ancora il suo stupore per il fatto che gli italiani non sapessero più il latino), la sera passò e segnò la nascita di un’intensa, purtroppo breve, amicizia.

In questi quattro anni ci vedemmo altre due volte e ci sentimmo spesso per telefono, scrivendoci via fax. Apprezzò molto il mio lavoro su Lewis che pubblicai qualche mese dopo per la San Paolo.

Poi un giorno gli mandai un fax ma non mi rispose con la solita solerzia. Scoprii allora che era caduto in coma. Poi, il 21 febbraio 2024, lessi la notizia della sua morte su «Avvenire». C’era mio figlio accanto a me, sul divano. Gli diedi la notizia: «Chi, quello che faceva così con le dita?» e mi fece vedere il “vecchio” gioco di Sergej (nemmeno con la sua elasticità di bambino mio figlio ci riuscì come ci riusciva lui). Averincev era un uomo che era stato capace di rimanere bambino: esiste qualcosa di più grande?

di Andrea Monda

 

In cima alla montagna  c’è una croce
 

Tradotta da Lucio Coco, pubblichiamo la prefazione di Averincev al libro di padre Aleksandr Men «Le fonti della religione», pubblicato a Riga nel 2000 (l’originale è in lituano, mentre qui si segue la traduzione russa uscita su «Christianos» 9, 2000).

L’autore di questo libro, sacerdote della Chiesa ortodossa russa, padre Alexander Men’ (1935-1990), è una delle figure più importanti della resistenza cristiana alla burocrazia atea sovietica. La sua comprovata fedeltà alla fede fu ereditata dalla madre, che insieme al giovane figlio fu battezzata da un prete perseguitato e clandestino nel 1935, in un’epoca in cui la scomparsa del cristianesimo nella società sovietica era inclusa nei programmi statali in un piano di parità con gli obiettivi economici.

Quando, nei suoi anni da scolaro e poi da studente, ampliò costantemente la sua auto-formazione religiosa, dietro a ciò si nascondeva una tale impresa di fedeltà, che in tempi più prosperi sarebbe molto difficile da immaginare. Scelse di servire la Chiesa e fu ordinato diacono e poi sacerdote quando la guerra totale contro la religione passò alla fase meno sanguinosa, ma assolutamente distruttiva della persecuzione di Chruščëv. Ma non si trattava solo di persecuzione in quanto tale. Quei partecipanti ai circoli religiosi e filosofici che alla fine dell’epoca sovietica avevano perso il lavoro, che erano incorsi nel dileggio da parte del Kgb ed erano andati persino in prigione, avvertirono almeno una timida simpatia da parte dell’intellighenzia, [percepirono] almeno tentativi incoerenti di aiuto dall’estero. Almeno qualcuno li conosceva e li rispettava. Al contrario, negli anni di Stalin e anche di Chruščëv si verificò una pressione psicologica unica nel suo genere: la società sovietica imponeva al credente il ruolo di un criminale e, inoltre, di uno stupido che, a causa della sua dannosa e maliziosa rustichezza, ancora non sapeva ciò che ogni persona alfabetizzata era necessario che sapesse.

Tutto è contro il credente: non solo il Kgb, non solo la burocrazia, ma anche la società sovietica in quanto tale, compresi i liberali del «disgelo». L’ateismo godeva dello status di una verità evidente [aksioma]. E in un momento simile, un giovane colto e vivace, «normale», nel senso migliore del termine, non solo diventa prete; inizia un’opera che tutti sotto il regime sovietico riconoscevano come la più impossibile, l’opera del lavoro missionario. Ricordiamo cosa significava allora. Di tutte le religioni, il cristianesimo è quella che difficilmente può essere ridotta a una «forma di culto», ma è proprio così che è stato trattato al livello più ufficiale delle formulazioni legislative e costituzionali, per non parlare della pratica quotidiana. Non per niente però la parte più santa del canone del Nuovo Testamento si chiama Vangelo, cioè «Buona Novella».

Al centro stesso della fede cristiana c’è un messaggio che deve essere accolto e trasmesso. A ogni cristiano, e soprattutto a ogni sacerdote, è affidato il compito dell’apostolato e del lavoro missionario implicito nelle parole di Cristo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni» (Matteo   28,19). Ma nel linguaggio dell’epoca questa si chiamava «propaganda religiosa» ed era apertamente equiparata ai crimini perseguibili [per legge]. Perfino i credenti sinceri, anche le persone pronte al sacrificio personale, si erano abituate all’idea che l’impossibile è impossibile. E quando, tra il silenzio malevolo e ostile, risuonò una voce solitaria in difesa della fede, una voce apostolica, missionaria, rivolta direttamente a un contemporaneo, è difficile immaginare oggi, quanto fosse importante in quegli anni.

Sottolineiamo ancora una volta che fin dall’inizio la voce si è rivolta ad un indirizzo esatto e specifico, cioè ad un contemporaneo. Una tentazione diffusa è quella di portare la Chiesa fuori dal flusso della storia, lontano dalle persone in quanto tali. Ma Cristo ha fondato la Sua Chiesa per salvare persone imperfette e peccatrici: esattori delle tasse, prostitute, ladri e persino, cosa particolarmente difficile, gli scribi.

(...) Anche gli scribi. L’attività pastorale e missionaria di padre Aleksandr non si è rivolta solo agli intellettuali, ma ha fatto comunque molto soprattutto per l’intellighenzia. Non elencherò le persone note che ha aiutato a venire alla fede. Non ci sono posti privilegiati nella Chiesa e, se ci sono, appartengono ai più miserabili. Un intellettuale non è migliore di chiunque altro, forse è peggiore di chiunque altro; ma lui, insieme a tutti gli altri, ha bisogno di salvare la sua anima immortale, e per questo, per aiutarlo deve essere inteso proprio come un intellettuale. Altrimenti, la sua guida spirituale rischia o di respingerlo o di suscitare in lui un sogno che lo spinge a immaginare se stesso non come un intellettuale, ma come qualcosa di completamente diverso, di superiore.

Una persona può iniziare il suo ritorno a Dio solo da quel punto dello spazio spirituale in cui si trova realmente e non nell’immaginazione. Non per compiacere l’intellighenzia, ma per aiutarla, abbiamo bisogno di un pastore che comprenda l’esistenza dell’intellighenzia dall’interno con tutti i suoi problemi, le sue tentazioni e le sue opportunità. Questa è stata una parte importante del lavoro e della vita di padre Aleksander. Avrebbe potuto dire di sé con le parole dell’apostolo Paolo: «Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero... Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Corinzi  9, 19.22).

Questa era la sua strada. E finì con il martirio. Il 9 settembre 1990, il giorno prima della ricorrenza, secondo il calendario ortodosso russo, della decapitazione di Giovanni Battista, l’ascia di un assassino gli tagliò la testa, la testa di un sacerdote in cammino verso il tempio. Come lui stesso una volta disse: «Stiamo scalando una montagna, e lungo la strada facciamo tanti errori, tante scoperte! Ma proprio in cima alla montagna c’è una croce». Il fatto che l’assassino non sia mai stato ritrovato e che le ragioni siano rimaste segrete, se da un lato rappresenta di per sé qualcosa di triste e suggerisce pensieri spiacevoli, allo stesso tempo fa sentire ancora più forte l’aspetto simbolico di una simile fine: «In cima al montagna c’è una croce».

di Sergej S. Averincev