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Il Ghana è sommerso dai rifiuti tessili derivanti dal “fast fashion” con gravi ricadute anche sull’ambiente

L’altra faccia della moda

Traders spread out secondhand clothes for sale at the Kantamanto market in Accra, Ghana, on November ...
22 febbraio 2024

Un brulicare di bancarelle colorate, traboccanti di vestiti di seconda mano: il mercato di Kantamanto, in Ghana, si presenta così. Esteso su un’area di 20 ettari, offre agli acquirenti non solo capi d’abbigliamento, ma anche borse e calzature usate vendute a prezzi modesti e quindi accessibili a tutti. Il luogo è ormai famoso anche al di fuori dei confini nazionali, tanto che diversi tour operator vi organizzano visite guidate per i turisti.

Quello che però i turisti non vedono è l’altra faccia della medaglia di Kantamanto, una faccia fatta di un pericoloso inquinamento ambientale: secondo la “OR Foundation” — organizzazione no-profit ghanese che si occupa di giustizia ambientale, educazione e sviluppo della moda — ogni settimana arrivano su questo mercato circa 15 milioni di balle di indumenti che vengono acquistate dai commercianti per un valore tra i 25 e i 500 dollari ciascuno. Soprannominate, in gergo, “Obroni Wawu” (ovvero “Abiti degli uomini bianchi morti”, perché sono dimessi per lo più dal mondo occidentale), le balle dovrebbero contenere filati di qualità come cotone, lino, lana. Solo questi tessuti, infatti, consentono un corretto riciclo degli indumenti.

In realtà, circa il 40 per cento di essi è troppo danneggiato per essere venduto: un effetto collaterale del così detto “fast fashion”, ossia della moda usa-e-getta che mette in circolo a poco prezzo abiti di scarsa qualità il cui ciclo di vita è volutamente breve. Di conseguenza, ai rivenditori di Kantamanto non resta che gettare tutto ciò che è invendibile in discariche a cielo aperto che finiscono, a loro volta, per inquinare l’oceano.

D’altronde il Ghana non ha strutture sufficientemente all’avanguardia per lo smaltimento di simili rifiuti. Nonostante l’Assemblea metropolitana della capitale, Accra, spenda circa 500.000 dollari all’anno per raccogliere e smaltire gli articoli inutilizzabili del mercato di Kantamanto, solo il 70 per cento di essi viene trattato, mentre il resto viene bruciato, con conseguente inquinamento atmosferico, o buttato via, danneggiando ulteriormente l’ecosistema locale, già di per sé fragile. Le difficoltà di smaltimento sono inoltre cresciute dal 2019 in poi, ossia da quando la grande discarica di Kpone è andata a fuoco proprio a causa dei vestiti usati.

Ora le autorità locali stanno studiando la possibilità di costruire un nuovo punto di raccolta per i rifiuti, ma i costi si aggirano intorno ai 250 milioni di dollari, senza contare la compensazione per i danni ambientali già causati. Basti dire, ad esempio, che in alcune zone delle spiagge di Accra, la sabbia non si vede più, tanto è coperta da cumuli di tessuti. E nel corso di un solo anno, la “OR Foundation” ha registrato e contato 2.344 “tentacoli” tessili, ovvero ammassi aggrovigliati di migliaia di capi di abbigliamento, talvolta lunghi decine di metri, lungo un tratto di costa di 7 chilometri.

Il problema però non è solo ambientale, ma anche sociale: secondo l’Osservatorio della complessità economica (Oec), nel 2021 il Ghana è diventato il primo importatore mondiale di abiti di seconda mano. Ogni mese, infatti, 214 milioni di dollari di abbigliamento vengono spediti nel Paese africano soprattutto da Regno Unito, Canada e Cina. Questa attività ha creato, finora, circa 5.000 negozi con quasi 30.000 posti di lavoro. Ma il costo “umano” è altissimo: secondo Liz Ricketts, direttrice e cofondatrice di “Or Foundation”, i lavoratori ghanesi del settore operano in condizioni di estremo disagio, per non dire di schiavitù, costretti a lavare, tingere, rammendare e stirare gli abiti usati prima di metterli in vendita. A subire le conseguenze più drammatiche della “catena del riciclo” sono le donne e le ragazze: addette al trasporto degli indumenti da un punto all’altro del mercato, spesso sono minorenni che rischiano ogni giorno di soccombere sotto pile e pile di abiti il cui peso varia tra i 50 e i 100 kg. Tra le donne che lavorano come facchine ci sono anche molte madri che portano con sé i propri figli, i quali iniziano a lavorare non appena compiuti i 6 anni di età. Il tutto per un guadagno davvero misero: ogni viaggio per il trasporto di indumenti viene pagato dai 30 centesimi a massimo 1 dollaro. Ben poco, se si considera che, nel Paese africano, un litro di latte ne costa circa 2. Senza dimenticare che l’inquinamento delle acque dell’oceano danneggia il settore ittico: «Nelle nostre reti si aggrovigliano i vestiti — spiega un pescatore, Nii Armah all’agenzia Afp — e finiscono per essere danneggiate, mentre i pesci si allontanano, insieme alla nostra fonte di sostentamento». «Stiamo implorando le autorità di fare qualcosa», conclude. Ma per ora il loro grido è rimasto inascoltato. (isabella piro)