· Città del Vaticano ·

Restaurato «Il cacciatore» di Michael Cimino

La guerra e le sue ferite

 La guerra e le sue ferite  QUO-041
19 febbraio 2024

Nessuno è mai, davvero, sopravvissuto a una guerra. Chi è rimasto ucciso e chi è tornato sono tutti, in qualche modo, caduti sotto i colpi dell’abisso umano. Chi è morto paga con la vita, chi l’ha scampata, con la follia. Eppure, c’è chi trova la forza di andare avanti; per un amore, per un amico o forse, solamente, per curiosità. Questo è il messaggio, il dispaccio segreto che Michael Cimino ci ha consegnato con il capolavoro della sua vita, Il cacciatore (The Deer Hunter). Il film compie quarantacinque anni d’età e ha fatto recentemente capolino al cinema, in versione restaurata (in 4 k) per la gioia di chi sa che il cinema, prima ancora di essere una forma artistica, è un luogo. E cinema è ciò che da quel luogo, dal buio di quella sala, ci raggiunge e resta con noi. Come ha fatto, per tutto questo tempo, la vecchia pellicola con Robert De Niro, Christopher Walken e Meryl Streep.

Ma perché «L’Osservatore Romano» ospita le ragioni, il ricordo, di un film così duro, così aspro, così disperato? E dove, sennò? Questa è la prima risposta che viene in mente, altre magari verranno in seguito. La disperazione è una forma di lontananza dell’uomo da se stesso, il segnale che il destino che la nostra esistenza afferma ha smarrito il nostro indirizzo e siamo soli, apparentemente, in balìa della nostra debolezza, del nostro orrore. Debolezza e orrore che trovano nella guerra il linguaggio comune, la perfetta piattaforma del naufragio dall’umano.

La trama. 1968. Tre amici di una comunità russa ortodossa in Pennsylvania (Mike, Steven e Nick, rispettivamente Robert De Niro, John Savage e Christopher Walken) lavorano in un’acciaieria. La loro unica passione, sbronze e biliardo a parte, è la caccia. Si alzano spesso, ancora prima dell’alba, per vivere quell’istante misterioso e terribile del prendere la mira su un essere indifeso che ti fissa. E fare centro. C’è chi non riesce a farlo nella vita, riuscirà a farlo in guerra? La loro vita cambia quando ricevono la chiamata e si preparano a partire per il Vietnam. Mike e Nick sono entrambi innamorati di Linda (Maryl Streep), che accetta la proposta di matrimonio di Nick. Durante la guerra i tre amici vengono imprigionati dai vietcong e costretti a partecipare a sfide di roulette russa. Nonostante la fuga, le loro vite non saranno più le stesse a causa degli orrori che hanno dovuto subire. Steven perde l’uso delle gambe, Nick diventa pazzo e sbarca il lunario giocandosi la pelle alla stessa roulette russa alla quale era riuscito a sopravvivere e Mike ha di fronte a sé una vita recisa con addosso gli amici perduti, quelli visti morire e una donna alla quale, forse, darà ciò che di umano gli resta. Due le scene che tutti abbiamo in testa, inchiodate nel cervello, la prima è la terribile roulette russa cui sono costretti, da prigionieri, a partecipare Nick e gli altri.

Si tratta probabilmente di una delle scene più crude e disturbanti della storia del cinema, uomini costretti a giocare con la propria vita puntandosi una pistola alla tempia e chi rifiuta di farlo viene spedito in una palude/fogna a farsi masticare dai topi. Per lungo tempo si è discusso circa l’aspetto realistico o meno di quella scena, se durante la guerra in Vietnam insomma, fosse qualcosa di realmente accaduto o documentato. L’enigma rimane intatto, nonché inutile. Perché l’orrore sperimentato in guerra, il gioco feroce con la pelle degli sconosciuti, non si discosta da quanto ci mostra Cimino che fa alla grande il suo lavoro; dire la verità attraverso una finzione, è il cinema bellezza. Ma ecco, farsi largo nella memoria, l’altra scena, quel bilico umano fra una vita vuota e l’ignoto, rappresentato da quegli amici nella bettola, la sera prima di partire per la guerra. Ci sono tutti, Nick, Mike e gli altri, alcuni di loro partiranno, altri resteranno, ma l’ultima sera è la loro, quella degli addii senza parole, con gesti scemi, fra una sbronza di birra, ciondolando attorno a un biliardo finché le note di You’re just too good to be true irrompono nel fumo del locale e raggiungono gli uomini. Come in un racconto di Carver, senti che c’è qualcos’altro nascosto in quei minuti, ma non sai quali parole lo colgano, lo descrivano.

Ognuno di loro, come un commiato al passato, canta sguaiatamente il ritornello della canzone, beve e guarda i suoi amici facendo finta che niente cambierà. Bastano quei due minuti per essere, all’infinito in pari con Michael Cimino. Tutto quello che verrà dopo tornerà lì, in quella bettola, con quel fumo, quel biliardo e una canzone d’amore «can’t take my eyes off of you».

di Cristiano Governa