· Città del Vaticano ·

Il racconto della guerra tra poesia e cinema
L’arte che attraversa le guerre

I poeti ovvero i reduci

 I poeti  ovvero i reduci   QUO-041
19 febbraio 2024

«Egli trasse un profondo respiro. “Sono tornato”, disse». A dire queste parole è Sam Gamgee, il giardiniere hobbit che torna nella sua amata Contea al termine della tremenda Guerra dell’Anello che lo ha visto sorprendente protagonista. È l’ultima battuta del lungo romanzo di Tolkien, Il signore degli anelli, che affronta un tema “classico”: la guerra e le sue ferite. Più che “classico” questo forse è il tema della letteratura tout-court. Tolkien con il suo capolavoro, scritto dopo la prima guerra mondiale (che lo aveva visto combattere sul fronte francese) e durante la seconda (che vide due dei suoi figli impegnati contro la Germania), ha ricordato allo smemorato e ottimista uomo del Novecento una semplice verità: siamo tutti reduci. Ed è di questo che parla la letteratura, cioè dei racconti che gli uomini si scambiano attorno al fuoco sin dall'inizio dei tempi, anzi forse il tempo inizia proprio da quell’abitudine di raccontare storie attorno al fuoco. Perché già il racconto stesso riesce a creare un fuoco ancora più grande di quello fisico, un calore più intenso, interiore, tenace, capace di accompagnare il suo cammino su questo strano posto che chiamiamo “mondo”. Un nome questo che indicare un auspicio più che un realtà; infatti la parola latina mundus dice di un luogo pulito, chiaro, visibile, cioè «mondato», ovvero quella porzione della Terra, ma anche del cielo, illuminata dalla luce e quindi visibile, identificabile e riconoscibile dall’essere umano, quando invece noi sappiamo che il mondo spesso non è tutto questo ordine ma è il luogo del caos, del non senso, dell’assurdo. Di tutte le esperienze umane la violenza e la guerra rappresentano il culmine di quel caos. Per condurre questo caos verso il cosmos, verso il mondo, un “tutto ordinato”, per riconquistare un senso perduto, il racconto, la poesia, la letteratura, sono le armi più efficaci escogitate dagli uomini.

Quindi all’inizio, come per Dante nella Commedia, c’è la selva oscura, lo smarrimento, ma poi si apre il viaggio che conduce ad un’uscita: «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno xxxiv , 139). Il viaggio della vita, che comprende sempre una “discesa agli inferi” porta a un ri-vedere, a un ritorno, a una rinnovata visione del mondo, della realtà. Questo vuol dire “essere reduci”, una condizione che tocca l’esistenza di ogni uomo. Questo è il tema delle storie degli uomini, dai racconti degli uomini preistorici a Tolkien, dai poemi omerici al cinema di guerra come Rambo o come un film epico e struggente quale Il cacciatore di Michael Cimino, ben raccontato da Cristiano Governa in questa pagina che ci ricorda le ferite della guerra che spesso non guariscono, segnando per sempre chi ha vissuto quell’esperienza estrema, mortale.

Ogni storia è storia di salvezza


Da questo punto di vista si può affermare che ogni storia è storia di salvezza. Ismaele, l’io-narratore di Melville che ci regala Moby Dick è l’unico sopravvissuto della caccia alla balena bianca e lo vediamo solo, aggrappato ad una bara, nell’oceano: il superstite, che torna “sano” e salvo, può, forse deve, raccontare. E dire che ha visto la morte in faccia ma è rimasto in vita, ha affrontato lo smarrimento della vita e lo ha attraversato, rimanendo segnato, trasformato, ma vivo.

Ma prima ancora di Ismaele, c’è Giacobbe che esce incolume dalla lotta con l’angelo di Dio al guado dello Yabbok in una delle notti più misteriose della Bibbia, che lo trasformerà fin nel nome: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!» (Genesi 32,29) Israele, il popolo della memoria e del racconto; il popolo della storia della salvezza. E prima ancora di Giacobbe-Israele c’è l’uomo preistorico, il nostro comune progenitore che ha conquistato il mondo uscendo dalle caverne per andare a caccia e dove poi cuoceva, attorno al fuoco, gli animali feroci che riusciva a uccidere. E mentre cuoceva attorno a quel fuoco si narravano le avventure della caccia e chi narrava era colui che era tornato a casa sano e salvo. Narrazioni potenti, al punto che c’era poi qualcuno (lui stesso o un altro?) che di quei racconti faceva arte, dipingendoli sulle pareti della caverna. Anche quel cacciatore, alla fine della sua lunga “guerra”, ferito esteriormente e interiormente, poteva fare come Sam, trarre un grande sospiro e dire ai suoi cari: «Sono tornato».

di Andrea Monda


Tolkien e Lewis


da Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien


(Frodo è tornato dalla guerra dell’Anello, ha salvato la Contea, che ora però gli sta stretta). 

Una sera Sam entrò nello studio e trovò il suo padrone molto strano. Era pallido, e i suoi occhi sembravano vedere cose lontane. «Che c’è che non va, signor Frodo?», disse Sam.  «Sono ferito», egli rispose, «ferito; non guarirò mai del tutto». Ma poi si alzò e il malessere parve scomparire; l’indomani egli sembrò di nuovo perfettamente normale. Solo più tardi Sam rammentò che la data era il sei di ottobre. Quel medesimo giorno di due anni prima faceva buio nella cavità ai piedi di Colle Vento. Il tempo passava, e arrivò il 1421. Frodo fu di nuovo malato in marzo, ma con grandi sforzi riuscì a nasconderlo, perché Sam aveva altre cose a cui pensare. 

... «Non essere troppo triste, Sam. Non puoi essere sempre lacerato in due. Dovrai essere uno e sano per molti anni. Hai tante cose da godere, da vivere, da fare».  «Ma», disse Sam, e le lacrime incominciarono a sgorgargli dagli occhi, «credevo che anche voi voleste godervi la Contea, per anni e anni, dopo tutto quello che avete fatto».  «Anch’io lo credevo, un tempo. Ma sono stato ferito troppo profondamente, Sam. Ho tentato di salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle. Ma tu sei il mio erede: tutto ciò che ebbi e che avrei potuto avere io, lo lascio a te; e poi tu hai Rosa, ed Elanor, e verranno anche il piccolo Frodo e la piccola Rosa, e Merry e Cioccadoro e Pipino, e forse altri che ancora non vedo. Le tue mani e il tuo cervello saranno necessari dappertutto. Sarai Sindaco, naturalmente, finché vorrai, e il più famoso giardiniere della storia; e leggerai brani del Libro Rosso, mantenendo vivo il ricordo dei tempi passati, affinché la gente ricordi il Grande Pericolo ed ami ancora di più il suo caro paese. Tutto ciò ti renderà occupato e felice finché durerà la tua parte nella Storia. Coraggio, ora cavalca con me!».

 da Sorpreso dalla Gioia di  C.S. Lewis  


Per tutto l’inverno i nostri principali nemici furono la pioggia e la stanchezza. Andavo a dormire marciando e mi svegliavo per ritrovarmi ancora in marcia. Nonostante gli alti stivali di gomma, l’acqua nelle trincee ci arrivava sopra il ginocchio; ricordo ancora la gelida fiumana che si rovesciava fuori degli stivali quando ci capitava di forarli contro il filo spinato. La familiarità con i morti di data antica o recente riconfermò in me l’idea che mi ero formata dei cadaveri al momento della morte di mia madre. Imparai a conoscere, a compatire e a rispettare l’uomo comune: e in particolare il caro sergente Ayres, che venne (credo) ucciso dalla stessa granata che ferì me…. Ma, per il resto, la guerra — con la paura, il freddo, l’odore degli esplosivi, gli uomini orribilmente maciullati che ancora si muovevano come scarafaggi mezzo schiacciati, i cadaveri seduti o in piedi, il paesaggio di terra brulla senza un filo d’erba, gli stivali indossati notte e giorno fino a che non sembravano essersi incollati ai piedi — altro non è che un raro e pallido ricordo. È troppo estraneo al resto delle mie esperienze e spesso ho la sensazione che sia accaduto a un altro. In un certo senso, non è neppure importante. Di tutto ciò che seguì, oggi per me conta più l’impressione del primo proiettile che sentii fischiare: così lontano da me che “sibilò” come il proiettile di un giornalista o di un poeta del tempo di pace. In quel momento non provai nulla che somigliasse neppure da vicino alla paura, e tantomeno all’indifferenza: un piccolo segnale tremolante che diceva: «Ecco la Guerra. Ecco la cosa di cui scriveva Omero».