· Città del Vaticano ·

Ricordi e speranze di chi ha vissuto cinquant’anni fa l’esperienza del “Convegno sui Mali di Roma”

La Chiesa “lievito” della città

 La Chiesa “lievito” della città  QUO-040
17 febbraio 2024

La vita è un mistero! Frase detta e ridetta, sulla quale centinaia e centinaia di volte ci siamo fermati a riflettere per cercare di darle un senso. Ma la vita, spesso, ci fa vivere inaspettatamente sensazioni non cercate e non volute. Guardando indietro alla mia esperienza, ormai di lunga durata, mi sono reso conto di aver vissuto — ed è interessante che sul momento non me ne sono neppure reso conto — avvenimenti che poi hanno lasciato il segno.

Faccio solo qualche esempio. Il 25 gennaio 1959 ero anch’io a pregare nella basilica di San Paolo quando Papa Giovanni xxiii annunciava la sua intenzione di indire il concilio Vaticano ii. L’11 ottobre 1962 mi sono ritrovato in processione, all’ingresso della basilica Vaticana, per l’inizio dei lavori conciliari. Il 24 luglio 1974 ero, con un gruppo di giovani, ad Atene quando ha avuto fine il regime dei Colonnelli in Grecia. Il 4 novembre 1995 mi trovavo a Gerusalemme quando, a Tel Aviv, veniva ucciso il primo ministro Yitzhak Rabin (ricordo ancora, senza capirne la portata, le lacrime di una signora palestinese che diceva ad alta voce in italiano: «povero il mio popolo, povero il mio popolo!»). E il 7 ottobre 2023, data che rimarrà tragicamente nella storia, ero con un gruppo di pellegrini a Betlemme.

Allo stesso modo, nel febbraio del 1974, senza avere profonda coscienza degli avvenimenti che in quel periodo coinvolgevano la Chiesa di Roma, mi sono ritrovato nelle assemblee di approfondimento del famoso convegno dal titolo: «Responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nella diocesi di Roma». Sono stato, successivamente, a stretto contatto con monsignor Luigi Di Liegro, animatore del convegno (ci vedevamo con un gruppo di preti una volta al mese la sera della domenica a piazza Poli), e poi gli sono succeduto come direttore della Caritas di Roma. Sono stato vicino anche a Luciano Tavazza (che ha stilato la relazione conclusiva del convegno), parrocchiano di San Frumenzio, dove sono stato inviato due anni dopo a prestare servizio: con lui ho condiviso tanto nel discernimento e nella conduzione della comunità parrocchiale.

Ora mi è stato rivolto l’invito a “ricordare” l’esperienza di quel convegno cinquant’anni dopo.

Nel luglio del 1971 il cardinale vicario Angelo Dell’Acqua, a seguito di un’idea di don Di Liegro, aveva costituito un Comitato promotore e una Commissione centrale per realizzare un Convegno diocesano finalizzato a verificare «L’esercizio della carità nella diocesi di Roma». Il tema fu presentato da don Luigi Di Liegro in quanto direttore del “Centro pastorale per l’animazione della comunità cristiana dei servizi socio caritativi”, che aveva il compito di promuovere e coordinare la pastorale organica nella dimensione territoriale — diocesi, prefetture, parrocchie — e nei diversi ambienti di vita.

La Commissione costituita da Dell’Acqua e poi confermata dal suo successore, il cardinale Ugo Poletti, lavorò per quasi tre anni, con cinque Commissioni di settore, aiutate anche da esperti del Servizio assistenziale del Papa, per indagare sullo stato sociale, economico e religioso dei cittadini della diocesi di Roma. Ma dopo il 25 luglio 1973, data di una riunione congiunta tra la Commissione centrale ed il Comitato promotore del Convegno, il tutto non ebbe più seguito.

Da allora, infatti, non vennero più convocati gli organismi di coordinamento delle diverse Commissioni, ma venne nominato segretario del Convegno don Di Liegro e furono designati direttamente i relatori: il teologo Clemente Riva, il sociologo Giuseppe De Rita e Luciano Tavazza.

Poche settimane più tardi, il 25 ottobre, il cardinale Poletti dava l’annuncio di questo convegno diocesano, aperto a tutte le componenti sociali, da realizzarsi nel febbraio 1974 allo scopo di interrogarsi sulle «Responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e di giustizia nella Diocesi di Roma».

Il tema proposto inizialmente, che intendeva indagare sul comportamento cristiano dei romani, era dunque cambiato e l’attenzione si concentrava sulle “responsabilità” dei cristiani di fronte a ciò che andava fatto nella diocesi in ordine alla giustizia e alla carità.

Quali sono stati, allora, i motivi veri di quella scelta?

In proposito De Rita scriveva che l’obiettivo centrale del convegno era quello di voler coniugare «osservazione e impegno». La ricerca dei dati veniva dalla volontà di leggere i bisogni reali della società italiana, e in modo particolare quella romana. Da questa lettura poteva scaturire sia la volontà di agire concretamente per contrastare gli squilibri riscontrati, sia l’impegno a promuovere solidarietà. Il cardinale vicario dichiarava a Radio Vaticana: «Sovente ci vien detto: non crediamo più a quanto la Chiesa ci insegna. Il messaggio evangelico è una astrazione; è una bella ideologia, ma non ha nessuna applicazione concreta alla vita di ogni giorno. Gli uomini che portano quel messaggio offrono troppo spesso contraddizioni e compromessi tra l’insegnamento e la vita. La società di oggi è troppo ingiusta, per essere cristiana! Ecco dove viene toccata la credibilità del Vangelo. Possiamo tacere o restare indifferenti?».

Questo, dunque, spiega il perché della scelta del tema.

Al Convegno monsignor Riva individuava le cause del malessere della città, elencandone essenzialmente cinque. Due riguardavano il mondo ecclesiastico: «le responsabilità del clero, dei religiosi e delle religiose»; e «un certo tipo di predicazione e di catechesi disincarnata dalla realtà viva e dalla storia dell’umanità che abita a Roma». Tre invece riguardavano il mondo laico: «la mancanza a livello politico ed amministrativo di una seria ed organica politica della casa, del lavoro, dell’industria, della scuola, della sanità, dell’assistenza»; «il male dei favoritismi e del clientelismo»; e «la paura e l’impreparazione per un leale confronto politico e sociale».

In definitiva, per Riva, «è estremamente importante che vi sia chiarezza nelle indicazioni delle responsabilità, sia dei mali clientelari di gruppi che si appoggiano reciprocamente per il perseguimento di profitti e di interessi propri in senso egoistico e corporativistico, ignorando e calpestando le giuste esigenze degli altri, sia anche delle apatie e inerzie di coloro che sono vittime di ingiustizie altrui... La Chiesa rispetta l’autonomia dei vari responsabili nell’individuazione, elaborazione e attuazione delle tecniche e delle iniziative adatte e adeguate all’amministrazione della città, ma non può essere estranea alla propria comunità umana e alle esigenze fondamentali e ai bisogni vitali di coloro che la compongono. Non può tacere su responsabilità, su squilibri, su disordini, su inconvenienti che riguardano la vita e l’integrità della persona umana. Ogni problema umano è fondamentalmente un problema morale. Vi è una pornografia di immagini, di spettacoli, di prostituzione, ma vi è anche una pornografia dell’ingiustizia e della miseria sociale; e vi è una prostituzione di individui e di gruppi ad interessi ed egoismi economici e politici».

Da parte sua don Di Liegro ricordava: «La Chiesa dev’essere lievito e perciò non può rimanere accanto alla città, né può essere una città a sé stante, meno ancora una città contro un’altra città con cui entra in concorrenza». Ecco l’esigenza: la comunità cristiana si interroga. Ecco il senso sociale e religioso dell’iniziativa: uscire, cioè, da una forma di vita cristiana prevalentemente individuale, personale e anonima.

Il cardinale vicario nella introduzione invitava a evitare — e lo diceva esplicitamente — di «cedere al pericolo di fare relazioni di denuncia» perché l’indagine presenta «ancora una troppo limitata gamma di ipotesi interpretative e di responsabilizzazione individuale e collettiva». E inoltre esortava a non «cedere ad una tentazione di far della morale politica, di qualsiasi segno e direzione, dove il concreto processo di coscientizzazione e responsabilizzazione della comunità sarebbe mediato e probabilmente distorto da assunzioni di principio non compatibili con il carattere aperto che si è voluto dare all’incontro».

Mi sembra che queste parole illustrino molto accuratamente, molto profondamente l’intento del convegno. Anche monsignor Riva, ricordando il Vaticano ii, auspicava per i cristiani una partecipazione con maggiore responsabilità alle vicende storiche sociali e umane: «La carità e la giustizia, nella loro visione cristiana, non sono due semplici doveri passivi di distribuzione o ridistribuzione di beni: sono principalmente due forze che ci impegnano nell’attività, sono energie vitali, di vitalità divina, comunicate all’uomo al fine di spingerlo all’azione, all’iniziativa». Mi viene in mente, leggendo queste parole, quello che diceva il cardinale Martini: «Chi è il cristiano? Non è colui che va a messa la domenica, ma colui che ama il prossimo perché va a messa la domenica».

È ovvio che da queste premesse, dalle sottolineature ormai evidenti e doverose, ci si fermasse a richiamare la responsabilità di ogni battezzato, si evidenziassero gli squilibri, i disordini, gli inconvenienti che riguardavano la vita e l’integrità di ogni persona umana. E la domanda si imponeva da sé: «Che cosa ha da dire al Chiesa al mondo oggi? Al mondo della società romana? Che esso è inaccettabile così come è, e che l’uomo ha la vocazione di trasformarla, affinché diventi una comunità e una famiglia di fratelli, in cui il bene comune è superiore agli interessi privati, e in cui l’attività di ognuno e le istituzioni sociali siano un servizio effettivo di giustizia e di amore fraterno».

Dalla relazione di De Rita ascoltavamo: «Quasi tutti ammettono che, per essere la capitale d’Italia, e una metropoli di livello mondiale, Roma è singolarmente povera di quelle strutture che danno il senso del livello di civiltà raggiunto e garantiscono ai residenti effettivi “diritti di cittadinanza”»; ma «è anche vero che altri servizi sono di ricchezza tale da porre Roma al primo posto in assoluto in Italia», realtà che può essere descritta rilevando che «vi è una schizofrenia di fondo: alti livelli e di consistenza e di qualità per quei servizi tipicamente volti ai ceti più alti e con maggiori disponibilità economiche o di pressione socio-politica; infimi livelli e di consistenza e di qualità, per i servizi finalizzati ai bisogni delle fasce di popolazione a carattere marginale: per i minori, per gli anziani, per gli abitanti delle borgate, ecc.».

E De Rita conclude: «Se non si vuole restare su un piano di “radicale” denuncia e d’impotente condanna dell’attuale situazione, il compito più urgente è quello di sbloccare una società che si è andata irrigidendo nel tempo proporzionalmente alla sua ipertrofizzazione, ma che pure ha al proprio interno tante potenzialità non sfruttate e non espresse: che non è stata mai e forse mai sarà “autopropulsiva”, ma che non può condannarsi ad essere la capitale emblematica di una società a terziarizzazione degradata».

A cinquant’anni dal convegno cosa possiamo dire? O meglio: possiamo ripronunciare le stesse parole? Possiamo dire che la nostra Chiesa stia esprimendo un ruolo profetico, così come chiedeva monsignor Di Liegro?

Luciano Tavazza nella sintesi finale affermava: «Il convegno è stato un evento di libertà e partecipazione che non può esaurirsi in se stesso, ma implica un nuovo stile di vita, di rapporti ecclesiali e di conduzione pastorale della comunità romana». E come conclusione auspicava, chiedendolo con forza per non disperdere la ricchezza dell’evento, opportune e successive riconvocazioni periodiche di questo convegno e suggeriva «la creazione di luoghi di incontro del vescovo e dei suoi confratelli presbiteri con le varie comunità cristiane operanti in Roma, sia dentro che fuori le strutture parrocchiali, per favorire un costume di consultazione e conversione permanente... Non vogliamo, non dobbiamo “recuperare” nulla e nessuno, dichiarare vinti o vincitori. Piuttosto ammettere insieme che riprendiamo il cammino, fatti più ricchi da ciò che abbiamo messo in comune».

È azzardato dire che il cammino che la Chiesa di oggi sta facendo — il percorso sinodale — sia il frutto anche della riflessione di coloro che ci hanno preceduto e che con lungimiranza ce l’hanno indicato come meta da conquistare, sempre a portata di mano ma anche sempre sfuggente?

Dovremo pregare con Helder Camara: «Signore Gesù, / con la tua arte di maestro insuperabile, / apri gli occhi di un alunno un po’ sciocco: /fagli vedere come tu sai attendere / il germogliare dei semi e la venuta della pioggia, / il lavoro delle acque che scolpiscono la pietra / e la marcia delle stelle lassù! / l’azione della grazia nelle anime / e l’aggiornamento senza fine / delle decisioni umane».

di Enrico Feroci