· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
I numerosi colpi di Stato nella regione riflettono i cambiamenti geopolitici di tutta l’Africa

L’incognita saheliana

 L’incognita saheliana  QUO-039
16 febbraio 2024

La fascia saheliana dell’Africa è la cartina al tornasole delle trasformazioni che stanno evolvendo in diverse parti del continente e del cosiddetto Global South (Sud Globale), centrate su un’accentuata enfasi della sovranità nazionale, dell’autonomia decisionale nelle relazioni internazionali e del quadro geopolitico multipolare emergente. Risulta altresì evidente il ritorno dell’autoritarismo e del militarismo lungo la fascia saheliana in particolare, a seguito dei colpi di Stato in Mali (2020 e 2021), Guinea (2021), Sudan (2021) Burkina Faso (2 volte nel 2022) e Niger (2023). A latere rimane la transizione politica ciadiana strettamente controllata dalla famiglia del defunto Idriss Déby. E cosa dire della recente crisi istituzionale in Senegal dove il rinvio delle elezioni voluto dal presidente uscente Macky Sall ha fatto precipitare il Paese nell’incertezza più totale?

Ampliando lo spettro nel più vasto perimetro dell’Africa Occidentale potremmo anche includere nell’elenco di cui sopra il golpe avvenuto in Gabon (2023) le cui caratteristiche hanno comunque una peculiarità a parte rispetto al contesto saheliano. Sta di fatto che la nascita dell’Alliance des États du Sahel (l’Alleanza degli Stati del Sahel) a seguito dell’adesione alla Carta Liptako-Gourma, che prende nome dalla regione condivisa tra i firmatari, è certamente sintomatica dei cambiamenti in atto.

Siglata nella capitale maliana, Bamako, lo scorso 16 settembre dai presidenti — Assimi Goïta per il Mali, Abdourahamane Tchiani per il Niger e Ibrahim Traoré per il Burkina Faso — prevede nell’articolo 6 che «qualsiasi attacco alla sovranità e all’integrità del territorio di una o più parti contraenti sarà considerato un’aggressione contro le altre parti e imporrà un dovere di assistenza e soccorso di tutte le parti, individualmente o collettivamente, compreso l’uso della forza armata per ripristinare e garantire la sicurezza all’interno dell’area coperta dall’Alleanza».

Inoltre, il 1° dicembre scorso, è stato diramato un comunicato congiunto nel quale si legge: «Consapevoli dell’enorme potenziale per la pace, la stabilità, la forza diplomatica e l’emergere economico che offre un’alleanza politica rafforzata, i ministri degli Esteri (…) guidati dall’ambizione di realizzare finalmente una federazione che unisca Burkina Faso, Mali e Niger, raccomandano ai capi di stato dell’Alleanza degli Stati del Sahel la creazione di una confederazione dei tre Paesi».

Non a caso, già alcuni giorni prima, il 25 novembre, i ministri dell’Economia e delle Finanze dei tre Paesi avevano raccomandato la creazione di un fondo di stabilizzazione e di una banca d'investimento, nonché la creazione di un comitato incaricato di approfondire le discussioni sulle questioni dell’unione economica e monetaria. A corollario di quest’attivismo regionale, il ministro nigerino della difesa, generale Salifou Mody e il vice-ministro della Difesa della Federazione Russa, colonnello generale Yunus-bek Yevkurov, hanno firmato a Niamey il 4 dicembre scorso un documento d’intesa per il rafforzamento della cooperazione militare ed energetica tra Niger e Russia; un accordo analogo a quelli già siglati con Mali e Burkina Faso (armi, tecnologie, costruzione di centrali nucleari, forniture di grano). Dulcis in fundo, il Niger si è unito a Mali e Burkina Faso nella decisione di abbandonare il g5 -Sahel, vale a dire la struttura di coordinamento regionale delle iniziative di anti-terrorismo. Una decisione in linea con la volontà del generale Abdourahamane Tchiani, ex capo della guardia presidenziale nigerina e ora leader della giunta al potere a Niamey, che ha decretato la fine delle missioni di sicurezza Ue (Eucap-Sahel e Eutm), caposaldo dell’influenza europea nella regione saheliana.

Rimane invece aperta la variabile politica del Ciad. Infatti, se da una parte il governo di N’Djamena ha chiuso anch’esso definitivamente lo scorso dicembre l’esperienza del già moribondo g5 -Sahel, prosegue la cooperazione con la Francia, nella consapevolezza che senza il supporto di Parigi il successore di Déby, il figlio Déby jr., non sarebbe in grado di governare il Paese. A differenza dei vicini di casa — Niger, Mali e Burkina Faso — la politica e le iniziative securitarie ciadiane non possono, almeno per il momento, prescindere da una sorta di equilibrismo tattico in uno scenario a dir poco complesso. Infatti se a oriente è in corso una guerra civile, quella sudanese, con ripercussioni notevoli sulla linea di confine, a occidente il triumvirato dei presidenti del Mali, Burkina Faso e Niger non vede bene il procrastinarsi della presenza francese in Ciad.

Ma attenzione: proprio in Ciad è avvenuta una sorpresa. Il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha deciso di schierare un contingente militare nel Paese africano per due anni entro marzo di quest’anno, al fine di assistere economicamente N’Djamena, frenare l’immigrazione clandestina, aiutare l’esecutivo a combattere il terrorismo e a reprimere il dissenso interno. È dunque evidente che lo scenario geopolitico dell’intero scacchiere saheliano manifesta una costante e progressiva fluidità la cui consistenza è di fatto legata allo stravolgimento in corso sul palcoscenico della storia contemporanea a seguito delle varie crisi in atto a partire da quella russo-ucraina.

La retorica esplicitamente anti-francese dei regimi di Bamako, Ouagadougou e Niamey, che associa ideali antimperialisti a utopie panafricane, ha certamente una duplice valenza. Da una parte è evidente che i vari coup d’État succedutesi in questi anni recenti siano pienamente in linea con la storia di continue intromissioni dei militari nella vita civile e politica, dunque legati alle debolezze nei processi di State-building e nation-building. Dall’altra occorre sottolineare quanto ben evidenziato da Alessio Iocchi, del Norwegian Institute of International Affairs (Nupi) che, in un interessante articolo pubblicato sul sito Ispionline, rileva: «La realtà di un paesaggio politico saheliano, esaurito in idee e forze dalla violenza di una crisi securitaria che, dallo scoppio della guerra in Mali nel 2012, ha avuto pochi momenti di pausa, si è mutata, ramificata, adattata e pare oggi impossibile da sradicare. A patire la violenza del jihadismo, in prima linea, per anni, nelle basi isolate, ci sono stati i soldati e gli ufficiali degli eserciti nazionali, ai quali i politici civili chiedevano pazienza e un continuo tributo di sangue nel quadro di una strategia, concordata con Ue, Francia e Usa, latrice di insuccessi e percepita come estranea agli interessi degli stati saheliani».

Al di là di tali considerazioni, non vanno sottovalutate le ripercussioni delle turbolenze saheliane sulla Cedeao/Ecowas (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale). Infatti, il 28 gennaio di quest’anno, tramite un comunicato congiunto, le giunte militari di Burkina Faso, Mali e Niger (già precedentemente sospesi a seguito dei loro rispettivi golpe) hanno annunciato l’uscita immediata ed incondizionata dalla comunica economica. Difficile fare previsioni guardando al futuro anche se poi, appare scontato, come recita un vecchio proverbio: «Tra i due litiganti il terzo gode». E in questa fattispecie il terzo è rappresentato dai gruppi jihadisti che rappresentano un fattore altamente destabilizzante per l’intera fascia saheliana.

di Giulio Albanese