· Città del Vaticano ·

Il magistero

 Il magistero  QUO-038
15 febbraio 2024

Venerdì 9

La carità di
Mama Antula
contro il virus
dello
individualismo

La carità di Mama Antula, soprattutto nel servizio ai più bisognosi, oggi si impone con grande forza, in mezzo a questa società che corre il rischio di dimenticare che «l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere» (Fratelli tutti, 105).

In [essa] troviamo un esempio e un’ispirazione che ravviva l’opzione per gli ultimi, quelli che la società scarta.

Il Signore ci dia la grazia di seguire il suo esempio e che questo ci aiuti a essere segno di amore e tenerezza tra i nostri fratelli.

Il cammino della santità implica fiducia, abbandono, come quando María Antonia giunse soltanto con un crocifisso e scalza a Buenos Aires, perché non aveva posto la sua sicurezza in sé stessa, ma in Dio, confidava che il suo apostolato fosse opera di Lui.

Lei sperimentò ciò che Dio vuole da ognuno di noi, che possiamo scoprire la sua chiamata, ognuno nel proprio stato di vita, poiché qualunque esso sia, si sintetizzerà sempre nel realizzare “tutto per la maggior gloria di Dio e la salvezza delle anime”.

Questa premessa — alla base della spiritualità ignaziana della quale Mama Antula si nutrì — la mosse in ogni sua opera.

Una delle principali preoccupazioni quando fu soppressa la Compagnia di Gesù fu di impartire lei stessa gli esercizi spirituali, cercando di aiutare tutti a scoprire la bellezza della sequela di Cristo.

Ma non fu facile, poiché, per l’avversione che si era creata contro i Gesuiti, giunsero a proibirle di dare gli esercizi, di modo che decise di impartirli clandestinamente.

Questa dimensione della clandestinità è importante. Un altro messaggio nel mondo di oggi è non arrenderci di fronte alle avversità, non desistere dai buoni propositi di portare il Vangelo a tutti, nonostante le sfide.

Oltre alla devozione che nutriva per san Giuseppe, da cui prese il nome, mi piacerebbe sottolineare il suo grande fervore per l’Eucaristia, la quale deve essere il centro della vita, e dalla quale scaturisce la forza per realizzare il nostro apostolato.

(A pellegrini giunti dall’Argentina
per la canonizzazione di Maria Antonia
di San Giuseppe)

Sabato 10

La gente sa
che dove c’è
la divisa
ci si può fidare

Grazie per il lavoro fedele e paziente con cui garantite a coloro che vengono in Vaticano, dall’Italia e dall’estero, e date la possibilità di vivere momenti di fede e di preghiera, come pellegrini, o di svago, come turisti, in un clima sereno di ordine e di sicurezza.

È un impegno delicato, che merita tanto più apprezzamento in quanto svolto tutti i giorni — e le notti! — dell’anno.

Voglio ringraziarvi anche per la disponibilità e la capacità di adattamento con cui provvedete all’incolumità mia e dei miei collaboratori in occasione di viaggi e spostamenti a Roma e in altre località italiane, spesso facendovi carico di orari ed esigenze logistiche scomode e disagevoli!

Il vostro è un lavoro dai molti risvolti, fatto di paziente prevenzione, di vigilanza sul campo, di gestione di situazioni impreviste, a volte pericolose, nella maggior parte dei casi affrontate in modo discreto e senza dare nell’occhio.

Un lavoro che richiede coraggio, tatto, nervi saldi, attenzione e comprensione per i bisogni e le criticità di chi domanda il vostro aiuto e anche di chi rende necessario il vostro intervento con comportamenti problematici.

San Giovanni xxiii diceva che quello delle Forze dell’Ordine è un compito gravoso, che richiede grandi qualità morali e soprattutto dedizione e abnegazione.

Per questo vi definiva “buoni servitori della comunità umana e artefici di pace nella società”. Sono parole che ben esprimono sia le attese — a volte molto esigenti — di cui siete oggetto, sia gli ideali a cui vi ispirate.

Il bene comune e la pace nella società non si improvvisano e non fioriscono sempre spontaneamente. Le luci e le ombre della natura umana, limitata e ferita dal peccato, comportano la necessità che ci sia chi, di fronte al male, non resti a guardare, ma si assuma la responsabilità di intervenire, per tutelare le vittime e riportare all’ordine i trasgressori.

Per questo impegno le “auto azzurre” diventano punto di riferimento anche per altri bisogni meno istituzionali, ma non meno importanti a livello umano, di cui pure vi fate carico: dalla richiesta di informazioni, ai piccoli imprevisti, o a chi si rivolge a voi per manifestare un disagio, o perché, sentendosi emarginato, cerca comprensione ed empatia.

Perché la gente sa che “dove c’è la divisa, ci si può fidare”.

(Ai Dirigenti e al Personale dell’Ispettorato
di Pubblica Sicurezza “Vaticano”)

Lunedì 12

Cultura
dell’umano
contro
l’egemonia
tecnocratica

La questione che affrontate in questa Assemblea è della massima importanza: quella di come si possa comprendere ciò che qualifica l’essere umano. Si tratta di un interrogativo antico e sempre nuovo, che le sorprendenti risorse possibili grazie alle nuove tecnologie ripropongono in forma ancor più complessa.

Il contributo degli studiosi da sempre ci dice che non è possibile essere a priori “pro” o “contro” le macchine e le tecnologie, perché questa alternativa, riferita all’esperienza umana, non ha senso.

E anche oggi, non è plausibile ricorrere solamente alla distinzione tra processi naturali e processi artificiali, considerando i primi come autenticamente umani e i secondi come estranei o addirittura contrari all’umano.

Occorre inscrivere i saperi scientifici e tecnologici all’interno di un più ampio orizzonte, scongiurando l’egemonia tecnocratica.

Consideriamo, ad esempio, il tentativo di riprodurre l’essere umano con i mezzi e la logica della tecnica.

Tale approccio implica la riduzione dell’umano a un aggregato di prestazioni riproducibili a partire da un linguaggio digitale, che pretende di esprimere, attraverso codici numerici, ogni tipo di informazione.

La stretta consonanza con il racconto biblico della Torre di Babele (Gen 11, 1-11) mostra che il desiderio di darsi un linguaggio unico è inscritto nella storia dell’umanità.

E l’intervento di Dio, troppo frettolosamente inteso come punizione distruttiva, contiene invece una benedizione propositiva [che] manifesta il tentativo di correggere la deriva verso un “pensiero unico” attraverso la molteplicità delle lingue.

Gli esseri umani vengono messi di fronte al limite e alla vulnerabilità e richiamati al rispetto dell’alterità e alla cura reciproca.

Le crescenti capacità della scienza e della tecnica conducono gli esseri umani a sentirsi protagonisti di un atto creatore affine a quello divino, che produce l’immagine e la somiglianza della vita umana, inclusa la capacità del linguaggio, di cui le “macchine parlanti” sembrano dotate.

Sarebbe allora nel potere dell’uomo infondere lo spirito nella materia inanimata? La tentazione è insidiosa.

Ci viene chiesto di discernere come la creatività dell’uomo possa esercitarsi in modo responsabile.

Si tratta di investire i talenti ricevuti impedendo che l’umano sia sfigurato e che siano annullate le differenze costitutive che danno ordine al cosmo.

Il compito principale si pone quindi a livello antropologico e richiede di sviluppare una cultura che, integrando le risorse della scienza e della tecnica, sia capace di riconoscere e promuovere l’umano nella sua specificità irripetibile.

Occorre esplorare se tale specificità non sia da collocare addirittura a monte del linguaggio, nella sfera del pathos e delle emozioni, del desiderio e dell’intenzionalità, che solo un essere umano può riconoscere, apprezzare e convertire in senso relazionale a favore degli altri, assistito dalla grazia del Creatore.

Un compito culturale, dunque, perché la cultura plasma e orienta le forze spontanee della vita e le pratiche sociali.

Come è impegnativo l’argomento che affrontate, impegnative sono anche le due modalità con cui intendete farlo.

Primo, perché vedo lo sforzo di attuare un effettivo dialogo, uno scambio transdisciplinare in quella forma che Veritatis gaudium descrive «come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio».

Incoraggio tale forma di dialogo... È la via per andare oltre la giustapposizione dei saperi, avviando una rielaborazione delle conoscenze attraverso il vicendevole ascolto e la riflessione critica.

Secondo, nella dinamica del vostro incontro si vede un modo di procedere sinodale. Uno stile di ricerca esigente, perché comporta attenzione e libertà di spirito, apertura a inoltrarsi su sentieri inesplorati e sconosciuti, affrancandosi da ogni sterile “indietrismo”.

Per chi si impegna in un evangelico rinnovamento del pensiero, è indispensabile mettere in questione anche opinioni acquisite e presupposti non criticamente vagliati.

In questa linea, il cristianesimo ha sempre offerto contributi di rilievo, riprendendo da ogni cultura in cui si è inserito le tradizioni di senso che vi trovava inscritte: reinterpretandole alla luce della relazione con il Signore, che nel Vangelo si rivela, e avvalendosi delle risorse linguistiche e concettuali presenti nei singoli contesti.

Un cammino di elaborazione lungo e sempre da riprendere, che richiede un pensiero capace di abbracciare più generazioni: come quello di chi pianta alberi, i cui frutti saranno mangiati dai figli, o di chi costruisce cattedrali, che verranno completate dai nipoti.

(All’assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita)

Mercoledì 14

Un cammino
di conversione
per superare
divisioni, odio
e violenza

Mentre iniziamo, con digiuno, penitenza e preghiera il cammino quaresimale, mi unisco ai Vescovi del Brasile nel rendimento di grazie per i 60 anni della Compagnia di Fraternità, itinerario di conversione che unisce fede e vita, spiritualità e impegno fraterno, amore a Dio e amore al prossimo, specialmente a chi è più fragile e bisognoso di attenzione.

Un percorso proposto ogni anno alla Chiesa e a tutte le persone di buona volontà di questa amata nazione.

Quest’anno, con il tema “Fraternità e Amicizia Sociale” e il motto “Voi siete tutti fratelli e sorelle” (Mt 23, 8), i vescovi del Brasile invitano tutto il popolo a percorrere, durante la Quaresima, un cammino di conversione basato sull’Enciclica Fratelli tutti.

Siamo invitati a costruire una vera fraternità universale che favorisca la nostra vita in società e la nostra sopravvivenza sulla Terra, nostra Casa Comune, senza mai perdere di vista il Cielo dove il Padre ci accoglierà tutti.

Purtroppo vediamo ancora molte ombre, segnali della chiusura in se stessi. Perciò, ricordo il bisogno di allargare la nostra cerchia per arrivare a quelli che spontaneamente non sentiamo parte del nostro mondo di interessi, di estendere il nostro amore a “ogni essere vivente”, vincendo frontiere e superando “le barriere della geografia e dello spazio”.

Auspico che la Chiesa in Brasile ottenga buoni frutti in questo cammino quaresimale e formulo voti affinché la Campagna di Fraternità, ancora una volta, aiuti le persone e le comunità di questa amata nazione nel loro processo di conversione al Vangelo, superando ogni forma di divisione, indifferenza, odio e violenza.

(Messaggio per la Campagna quaresimale
di Fraternità in Brasile )

L’accidia
demone
che distrugge
la gioia
del “qui e ora”

Tra tutti i vizi capitali ce n’è uno che spesso passa sotto silenzio, forse a motivo del suo nome che a molti risulta poco comprensibile: l’accidia. Per questo il termine viene spesso sostituito da uno più comune: la pigrizia.

In realtà, la pigrizia è più un effetto che una causa. Quando una persona se ne sta inoperosa, indolente, apatica, diciamo che è pigra.

Ma, come insegna la saggezza degli antichi padri del deserto, spesso la radice di questa pigrizia è l’accidia, che letteralmente dal greco significa “mancanza di cura”.

Una tentazione molto pericolosa, con cui non bisogna scherzare. Chi ne cade vittima è come fosse schiacciato da un desiderio di morte: prova disgusto per tutto; il rapporto con Dio diventa noioso; e anche gli atti più santi, che in passato gli avevano scaldato il cuore, appaiono ora inutili. Rimpiange il tempo che scorre, e la gioventù irreparabilmente alle spalle.

L’accidia è definita il “demone del mezzogiorno”: coglie nel mezzo delle giornate, quando la fatica è al suo apice e le ore appaiono monotone, impossibili da vivere.

In una celebre descrizione il monaco Evagrio rappresenta così questa tentazione: «L’occhio dell’accidioso è continuamente fisso alle finestre, e nella mente fantastica sui visitatori [...] Quando legge, l’accidioso sbadiglia ed è facilmente vinto dal sonno, si stropiccia gli occhi, si sfrega le mani e, ritirando gli occhi dal libro, fissa il muro; poi di nuovo rivolgendoli al libro, legge ancora un poco [...]; infine, chinata la testa, vi pone sotto il libro, si addormenta di un sonno leggero, finché la fame non lo risveglia»; in conclusione, «l’accidioso non compie con sollecitudine l’opera di Dio».

I lettori contemporanei intravedono in queste descrizioni qualcosa che ricorda molto il male della depressione, sia da un punto di vista psicologico che filosofico.

Per chi è preso dall’accidia, la vita perde di significato, pregare risulta noioso, ogni battaglia appare priva di senso.

Se anche in gioventù abbiamo nutrito passioni, adesso ci appaiono illogiche, sogni che non ci hanno reso felici.

Ci si lascia andare e la distrazione, il non pensare, appaiono le uniche vie d’uscita: si vorrebbe essere storditi, avere la mente completamente vuota... un po’ morire in anticipo, ed è brutto.

Davanti a questo vizio pericoloso, i maestri di spiritualità prevedono diversi rimedi.

Il più importante [lo] chiamerei la pazienza della fede. Benché sotto la sferza dell’accidia il desiderio dell’uomo sia di essere “altrove”, di evadere dalla realtà, bisogna invece avere il coraggio di rimanere e di accogliere nel mio “qui e ora”, nella mia situazione così com’è, la presenza di Dio.

I monaci dicono che la cella è la miglior maestra di vita, perché è il luogo che concretamente e quotidianamente ti parla della tua storia d’amore con il Signore.

Il demone dell’accidia vuol distruggere questa gioia semplice del qui e ora, questo stupore grato della realtà; vuol farti credere che è tutto vano, che nulla ha senso, che non vale la pena di prendersi cura di niente e di nessuno.

Nella vita incontriamo gente “accidiosa”, di cui diciamo: “questo è noioso!” e non ci piace stare con lui; gente che ha pure un atteggiamento di noia che contagia.

Quanta gente, in preda all’accidia, mossa da un’inquietudine senza volto, ha stupidamente abbandonato la via di bene che aveva intrapreso!

Quella dell’accidia è una battaglia decisiva, che bisogna vincere. Non ha risparmiato nemmeno i santi, perché in tanti loro diari c’è qualche pagina che confida momenti tremendi, di notti della fede, dove tutto appariva buio.

Questi santi e queste sante insegnano ad attraversare la notte nella pazienza accettando la povertà della fede.

Hanno raccomandato, sotto l’oppressione dell’accidia, di tenere una misura di impegno più piccola, di fissare traguardi più a portata di mano, ma nello stesso tempo di resistere e perseverare appoggiandoci a Gesù.

La fede, tormentata dalla prova dell’accidia, non perde di valore. È anzi la vera fede, l’umanissima fede, che nonostante tutto, nonostante l’oscurità, ancora umilmente crede.

È quella fede che rimane nel cuore, come la brace sotto la cenere. E se qualcuno cade in questo vizio o in una tentazione di accidia, cerchi di guardarsi dentro e custodire la brace della fede.

Testimonianza
del cardinale
Simoni

Tutti abbiamo sentito le storie dei primi martiri della Chiesa. Ma anche oggi ci sono tanti martiri... tanti perseguitati per la fede.

Mi permetto di salutare un “martire vivente”, il Cardinale Simoni. Da prete, da Vescovo, ha vissuto 28 anni nelle carceri dell’Albania comunista, la persecuzione forse più crudele. E continua a dare testimonianza. E come lui, tanti.

Adesso ha 95 anni e continua a lavorare per la Chiesa senza scoraggiarsi. Caro fratello, ti ringrazio della testimonianza.

(Udienza generale nell’Aula Paolo vi )