· Città del Vaticano ·

Don Fabio Vallini racconta disagi e progetti di una comunità maltrattata e dimenticata

Una giornata all’Idroscalo,
nel borgo nato
nel secondo dopoguerra

 Una giornata all’Idroscalo, nel borgo nato negli anni Settanta  QUO-034
10 febbraio 2024

Sono fermo a pochi passi di distanza da una chiesina. Siamo in via della Carlinga, all’Idroscalo di Ostia, Roma. Alla mia sinistra, vedo barche che beccheggiano nell’acqua della foce del Tevere; alla mia destra, oltre le prime file di abitazioni, se si fa silenzio, si può sentire il mare: c’è la spiaggia del film di Paola Cortellesi, “Come un gatto in tangenziale”. Don Fabio Vallini, toscano, classe 1955, mi viene incontro da un cancello laterale, pulendosi le mani con uno strofinaccio. Ha appena finito la giornata di lavoro nel piccolo laboratorio artigianale dell’associazione “La Rada”: «Credo molto nel valore del lavoro. E qui ci sono tanti che non fanno niente, o perché non trovano un’occupazione o perché sono agli arresti domiciliari. Ci siamo inventati dei lavori artigianali da fare insieme. Vendiamo i prodotti nei mercatini. E alla gente l’idea è piaciuta».

Mi accompagna dentro una stanza essenziale e accogliente, appoggiata alla chiesina. Per prima cosa gli chiedo com’è Roma vista da lì e come la vede la gente dell’Idroscalo: «Non si sentono a Roma. Roma è una perfetta sconosciuta. Non è come stare a Corviale o a Bastogi, per parlare di periferie che conosco. Non c’è grande percezione della città, se non vista dal punto di vista istituzionale. E il Comune per noi è qualcosa da cui stare in guardia. Soprattutto dopo quello che ci è successo». Don Fabio si riferisce alle demolizioni ordinate nel 2010. Un’operazione tenuta segreta, scoperta sui giornali, e poi realizzata con metodi che il sacerdote definisce disumani. «Fino a quel momento tentativi di collaborazione c’erano. Noi qui si era ancora abbastanza agli inizi. Ma avevamo già un progetto serio di recupero e normalizzazione della zona. C’era un’attitudine positiva. Ma le demolizioni ci hanno preso alla sprovvista». Il borgo e la comunità dell’Idroscalo si cominciano a formare del secondo Dopoguerra. Nel tempo la linea della pubblica amministrazione è stata ondivaga: da chi ha sostenuto l’assoluta inabitabilità del luogo, a chi ha dato i nomi alle strade con tanto di numeri civici, o ha fatto arrivare acqua e luce. «Una gran confusione», chiosa don Fabio. E poi quell’ordine di demolizione del 2010: «Ovvio, qui siamo tutti “abusivi”, ma la motivazione vera ancora oggi non è ancora chiara». Alla fine, dopo animate trattative letteralmente sul filo dei centimetri, si tirò un segno su una mappa e arrivarono all’Idroscalo 600 agenti di polizia in tenuta antisommossa: «Elicotteri, navi…sembrava una guerra. Buttarono già tutto, spargendo oggetti e mobilio. Ma nessuno aveva avvertito i servizi sociali, non c’erano ambulanze, con la gente che si sentiva male». Trenta famiglie persero la casa e furono dirottate “provvisoriamente” in un residence sull’Ardeatina. Ma sono ancora lì. Sarebbe probabilmente costato meno trovare case in affitto a Ostia Nuova, qui a due passi.

Nonostante tutto la comunità resiste con dignità e guarda al futuro. C’è un nuovo progetto: «Saremmo d’accordo con una diminuzione delle presenze. Il sindaco Raggi aveva avuto un finanziamento europeo per costruire degli appartamenti per noi, ma ancora quei fondi non si vedono. 100 famiglie sarebbero disponibili a trasferirsi nella zona dell’ex campo Morandi, a Ostia Nuova, e per i rimanenti si può riorganizzare il territorio con un borgo un po’ meno esteso, lasciando più spazio al fiume; e diventare noi i custodi — e non i proprietari — della foce. Facendo anche un servizio di accoglienza per chi viene». L’accoglienza è una delle caratteristiche di questa comunità, da sempre: «Chi è venuto per qualsiasi motivo è sempre stato accolto senza pregiudizi. E questo anche verso chi viene da fuori ogni tanto a visitarci, a vedere, a capire». Lo si può constatare anche dalla forma della messa domenicale. «Quello che abbiamo cercato di fare è tradurre tante esperienze religiose — come novene e processioni — in ascolto e condivisione della Parola. Così emerge la freschezza del Vangelo, anche da persone di religioni diverse. Qui nella comunità dell’Idroscalo non ci sono barriere religiose».

La cappellina dell’Idroscalo è da anni un riferimento per la comunità. È stata costruita negli anni ’70 dalla gente, intorno alla storia di un’antica statua lignea della Madonna, che le persone considerano miracolosa. Si dice che per portarla a termine ci sia stata anche la mano di santa Teresa di Calcutta in persona, che da queste parti veniva per occuparsi di alcune delle sue suore, intervenuta con vigore per superare un contrasto nella comunità. Per anni hanno cercato un prete che si occupasse di quella chiesina e quindi di loro. Don Fabio è qui dal 2003: «La gente mi ha sempre accettato e ho sempre partecipato a tutto. Perché io mi sento parte, prima di tutto». La vicina parrocchia di Ostia Nuova, San Vincenzo de’ Paoli, ha curato a lungo la cappellina, ma non poteva garantire una presenza fissa. Don Nicola Barra, prete operaio e parroco lì per anni, ci teneva molto. «Io avevo conosciuto Idroscalo già da quando ero a Corviale. Ma la situazione qui dopo la morte di don Barra era diventata difficile. C’era una coppia di sposi che curava la cappella: Marco e Maria ci fecero vedere la Chiesa e le stanze, e per l’esperienza che avevano già fatto sembrò facile iniziare».

Don Fabio Vallini fa parte della Fraternità dell’Incarnazione, nata a Firenze nei primi anni ’60 grazie all’intuizione di don Mario Cosmi. Egli aveva già capito che dalla parrocchia, per dargli nuova vita, bisognava uscire: sacerdoti, religiosi, laici e coppie consacrate insieme, andando nei quartieri e nei luoghi più problematici. «Si voleva unire, diciamo così, Marta e Maria; e trasformare tante attività per in uno stare con, un condividere la vita con la gente. Un monastero in uscita, per parafrasare il Papa». Una delle caratteristiche della Fraternità dell’Incarnazione è quella di vivere di lavoro e dell’aiuto spontaneo della gente, e di abitare in case in tutto simili alle più povere dell’ambiente, e non di proprietà. Un’esperienza ecclesiale “di nicchia” si potrebbe dire, nascosta come è nascosto l’Idroscalo agli occhi di Roma e dei romani. «Ma a noi non fa problema. Ci sentiamo bene in questo modo. Non cerchiamo né numeri né riconoscimenti». Chiedo infine a don Fabio un episodio che possa aiutare a dare un’idea della sua esperienza: «Potrei elencare una sfilza di fallimenti. Nella nostra storia ce ne sono stati tanti. È la vita, la quotidianità di tutti. E poi ci sono le cose belle, anche molto belle. Il Signore parla veramente e agisce attraverso le persone più semplici e sconclusionate. Ogni giorno arriva quella briciola che serve per vivere quel giorno. E viene da loro». Nel frattempo s’è fatto buio. Una donna si affaccia in casa direttamente dall’auto e passa un fagotto caldo. Ha preparato qualcosa per la cena di don Fabio. Lo saluto. Mi allontano in una strada sterrata, piena di buche. Un giovane mi incrocia. Sullo sfondo, la spiaggia. È finita un’altra giornata all’Idroscalo di Ostia.

di Simone Sereni