· Città del Vaticano ·

A colloquio con Claudia Campus autrice del libro «Perfettamente imperfetta»

«Nonostante la malattia
io amo la vita»

 «Nonostante la malattia io amo la vita»  QUO-034
10 febbraio 2024

«Chi soffre della mia malattia viene chiamato “bambino farfalla”. Mi è sembrata strana questa descrizione della malattia perché la farfalla è leggera e la malattia è pesante». A scriverlo in un libro autobiografico intitolato Perfettamente imperfetta (Qui Edit, Verona, 2023, pagine 109, euro 13) è Claudia Campus, 40 anni, nata a Berchidda, paesino nel nord della Sardegna, affetta fin da neonata da una malattia rara, l’epidermolisi bollosa. Una malattia crudele che distrugge la pelle, che richiede ogni giorno ore di medicazioni e che intacca a volte anche l’esofago non permettendo di mangiare. Inoltre, nel 2015, a causa di un carcinoma Claudia ha subito l’amputazione di un piede. Nonostante questo calvario, lei resta fedele al suo motto: «Una vita mi è stata data, questa. E io cerco di viverla ogni giorno nel miglior modo possibile». Aiutata da tante persone a cui è grata e soprattutto da suo padre, venuto a mancare due anni fa, non ha mai mollato la presa sulla vita. «De André con una bella canzone — osserva Claudia — diceva “Dio dal cielo, se mi vorrai amare, scendi dalle stelle e vienimi a cercare”. Qualche volta ho pensato che Dio è rimasto sempre sulle stelle e non è mai sceso a incontrarmi e accompagnarmi. Oggi devo cambiare idea: Dio, il mio Dio, e non quello a mani giunte chiuso in sacrestia, ha mandato a me varie persone per accompagnarmi nei chilometri della malattia e sofferenza».

Il tema dell’essere felici, della voglia di vivere è molto presente nella sua testimonianza. «Non ho raggiunto la felicità che desidero», sottolinea nell’autobiografia, «ma so di desiderare e amare il bello della mia vita. Innamorarsi della propria vita significa vivere e continuare a lottare contro le avversità, le difficoltà, e contro quel pessimismo ansioso che ogni tanto vorrebbe sconfiggerti». La sua vita è anche un’esortazione forte per tanti giovani che si sentono esclusi, scartati, guardati con disprezzo o indifferenza: «Vorrei dire ai giovani — lei che si sente giovane nel cuore — di essere sempre se stessi, di lottare e superare i momenti in cui si sentono diversi da ciò che impone la società».

In occasione della Giornata mondiale del malato, Claudia Campus si è soffermata con «L’Osservatore Romano» sulla sua vita, sulle sue fatiche e speranze offrendo un vibrante messaggio per quanti patiscono a causa di varie patologie e per coloro che ogni giorno si impegnano a stare vicino a chi soffre.

Nella nostra società si è sempre più portati a rimuovere dai propri pensieri la sofferenza, la malattia, come se non ci potesse essere in qualche modo una vita piena se non si è perfettamente in forma. La tua esperienza sembra testimoniare esattamente il contrario. Come è possibile allora essere felici anche nella sofferenza?

Diciamo che la parola “felicità” in questo caso è tanto, non è proprio esatta, nel senso che, più che felici, ci si adegua a questa vita, cercando di non farsi mancare niente, di vivere ogni giorno appieno e di essere felici anche delle cose più piccole che ci capitano. E ciò mi porta, a maggior ragione, a cogliere e a essere felice per le piccole cose della vita. Per me questo è felicità, questo è stare bene, nonostante la sofferenza e la malattia ti precludano anche tante cose. Questa per me è la “felicità”, tra virgolette, perché la felicità è altro. Però, ripeto, parlo per me, cerco di accontentarmi di quello che ogni giorno mi viene dato. Per me è già un giorno in più, e questa per me è la “felicità”. Io amo tanto questa vita ed esserci, nonostante tutto, è importante per me.

Facci un esempio, Claudia, di una di quelle “piccole cose” che ti rendono felice.

Quando mi sveglio, per esempio, e vedo una bella giornata di sole, e posso uscire, anche se in carrozzina, a fare una passeggiata, incontrare le amiche, le persone a cui tengo, mia cugina: persone che mi fanno stare bene, che mi fanno bene al cuore.

Claudia, vedendoti, si viene catturati – letteralmente – dalla sottolineatura che fai dei tuoi lineamenti, dei tuoi occhi, del sorriso smagliante. Una cura attenta della tua bellezza. Ecco, ti chiederei: è una mascheratura dei danni della malattia oppure è un modo per custodire il proprio corpo in tutta la sua femminilità?

È un po’ tutte e due le cose. Visto che per la mia pelle, purtroppo, non c’è una cura, ed è una malattia evidente, esterna per lo più, di conseguenza ha un impatto visivo molto forte. A me piace molto truccarmi, mi piace innanzitutto essere carina per me stessa, e poi essere piacevole anche allo sguardo del prossimo. Invece di soffermarsi sulle mani, magari si soffermano sul viso. Cerco un po’ – dico sempre – di aggiustare quel che non posso. Perché la mia pelle non la posso guarire ma il mio aspetto lo posso migliorare: il viso, gli occhi.

Ti sei mai sentita emarginata, isolata per la tua condizione? Se sì, come hai affrontato le difficoltà dovute alla malattia che, come sottolinei anche nel libro, ti fa “navigare in acque agitate”?

Sì, capita di sentirsi isolati, soprattutto da quando sono in carrozzina, perché, per la verità, prima di subire l’amputazione dell’arto, ho sempre vissuto una vita abbastanza normale, o meglio ho cercato di far sì che la mia vita fosse come quella della maggior parte delle persone, delle mie coetanee. Nonostante ogni mattina la medicazione ci sia sempre stata, dall’età di 14 anni, però, fatta quella, chiudevo tutti i miei problemi, le medicazioni in casa, uscivo e mi godevo la mia età, la mia spensieratezza. Perché, nonostante la malattia, ho anche avuto i miei momenti di spensieratezza. Mentre, da quando sono in carrozzina, comunque dipendo dalle persone che mi aiutano, è tutto più complicato e si soffre anche la solitudine perché non sei libera di uscire e di fare ciò che vuoi. In più io abito da sola, non ho una famiglia purtroppo al mio fianco che mi sostiene e che mi aiuta. E quindi è tutto più complicato, e ho imparato a convivere anche con la solitudine.

Durante la pandemia, immaginiamo che questo che ci racconti sarà stato ancora più duro.

Quando era ancora in vita mio padre, gli chiedevano: “Claudia come la sta passando, come sta vivendo il fatto di rimanere chiusa in casa?”. In realtà già da un po’ d’anni ero in questa situazione e già vivevo quell’essere chiusa in casa. Io a volte — l’ho anche scritto nel libro — la vita la guardo attraverso la finestra, perché passano anche settimane in cui resto chiusa in casa, come adesso che da poco ho affrontato un altro intervento e sono già due settimane che non esco. Nonostante tutto sono grata, l’importante – dico sempre – è esserci.

Spesso si usa la metafora della guerra quando si fa riferimento alla lotta che si deve fronteggiare con la malattia. Tu lo ritieni appropriato questo linguaggio? Non si finisce per creare eroi quando ce la si fa e vittime dall’altra parte quando non ce la si fa?

Io non mi reputo un’eroina e mai lo sarò. Semplicemente sto affrontando una malattia. È un termine, sì, che secondo me non è proprio appropriato. A volte l’ho sentito in ospedale per i bambini più piccoli, forse per loro un pochino sì, si dovrebbe dire per loro. Però, per me stessa, no. Se combatti una malattia, purtroppo, stringi i denti e cerchi di andare avanti e di combattere. Ma non sono un eroe, assolutamente no.

Nonostante i danni che il morbo ha causato anche alle tue mani, non hai rinunciato a scrivere. Come senti che la scrittura ti ha sostenuto e continua a sostenerti nella malattia?

Tanto, perché innanzitutto è un metodo per sfogarsi. Io ho iniziato il libro perché volevo comunicare con mio padre, che ero triste e avevo bisogno di parlare con lui in qualche modo. Ovviamente, purtroppo, non mi ha mai risposto perché non c’era già più, però è da lì che è iniziato il libro; da lì, volendo comunicare con lui, ho iniziato a scrivere. Ci sono stati dei giorni in cui scrivevo senza sosta, avevo proprio bisogno di quello sfogo. Aiuta tanto, secondo me.

Proprio nel libro che hai scritto per raccontare la tua vita, intitolato Perfettamente imperfetta, ci ha colpito, e crediamo che colpisca tutti, il tuo rivolgerti ai giovani, e non, con condizioni di malattia o di sofferenza, incoraggiandoli a essere sempre se stessi, a lottare e a superare i momenti in cui si sentono diversi da quello che impone la società. Come sei arrivata a questa convinzione nel percorso accidentato della tua vita?

Ci sono arrivata perché tante volte la vita ho rischiato di perderla. E quando arrivi a quel punto lì hai paura. Ti vengono anche a volte paure inutili, però ti attacchi talmente tanto alla vita che sei grata di ogni cosa. Quindi quando vedo questi giovani che a volte la perdono per cose futili, perché alcune volte — è brutto da dire — “se la vanno a cercare” anche con i social che creano delle sfide, queste cose mi fanno paura. Quando ancora non c’erano i social, secondo me, molte cose erano più belle, c’era più spontaneità, tranquillità. E poi si vuole crescere prima del tempo. È tutto troppo avanti. Io penso: a 13, 14 anni, non dico che ancora giocavo con le bambole, però una via di mezzo tra quello e ciò che c’è adesso. Adesso c’è troppo “tutto subito”, tutto “troppo avanti”. Adesso purtroppo per i giovani c’è il bullismo, molte volte se la prendono con i più deboli. Ci sono ragazzini che non hanno la forza di reagire e si tolgono la vita. Anche questo mi fa molta paura perché io per prima potrei, in alcuni momenti, per la malattia che è molto visibile... Ho ricevuto parole, sguardi che non facevano piacere.

Con quale spirito hai affrontato queste situazioni?

Ringrazio Dio, ringrazio il mio carattere - che secondo me è stato tramandato da mio padre - di sdrammatizzare, di essere perfino io a “prendermi in giro”, per la mia condizione. Questo mi ha aiutato a stringere i denti, a non curarmene, a far finta di niente. E quindi dico ai giovani di non avere vergogna, di non avere paura di certe parole che vengono dette, perché sono ragazzate, passa. L’importante è che noi stiamo bene con noi stessi.

Tua nonna, tuo padre, una famiglia romana, i medici dell’Ospedale Bambino Gesù: ci sono tante persone che ti sono state vicino e continuano ad accompagnarti, ad aiutarti. Cosa ti hanno insegnato e cosa pensi tu di avere insegnato, di aver donato a loro?

Mi hanno insegnato ad amare la vita, qualunque essa sia, ad amarla e rispettarla. Cosa io ho insegnato a loro non so, a crederci, probabilmente, a crederci, a non arrendersi, a trovare il bello anche se il mondo ti sta cadendo addosso; a cercare di non vedere tutto nero ma lasciare sempre aperto quel piccolo spiraglio di luce perché prima o poi secondo me il sole torna, nonostante la sofferenza, la lotta. Perché per questa malattia non c’è cura e io lo so che ogni due per tre sarò nelle sale operatorie. Però apprezzo quei mesi in cui sono fuori dalla sala operatoria, quel periodo in cui sono fuori dall’ospedale e apprezzo queste cose e penso di avere insegnato anche a loro tutto questo.

La prima cura di cui abbiamo bisogno nella malattia — scrive Papa Francesco nel messaggio per la Giornata mondiale del malato di quest’anno — è la vicinanza piena di compassione e di tenerezza. I malati secondo te possono aiutare la società a essere più umana e in fondo anche la Chiesa a essere più aderente al Vangelo?

Un po’ sì. Per la Chiesa aderente al Vangelo, non saprei, però a rendere la società più umana sì, se solo ci ascoltassero o se solo ci guardassero con occhi diversi da come veniamo visti, perché a volte veniamo guardati con l’occhio della pietà che a me dà fastidio, non lo sopporto. Si impara se veniamo visti come essere umani e non come alieni.

Quando si è toccati così profondamente, nella carne, è naturale fare domande a Dio, interrogarsi su Dio. Come vivi il rapporto con la fede, con la preghiera?

Sono una ragazza che non va a dormire se non dice le preghiere, ogni notte. Sono anche una ragazza che si arrabbia con Dio quando per l’ennesima volta viene messa la mia vita a dura prova, e quindi allora ci parlo, con Lui, arrabbiata. Poi mi passa, la sera dico sempre le preghiere e penso che se sono arrivata ai miei 40 anni lo devo a qualcuno che c’è lassù, in cui credo, come lo devo alle persone che non ci sono più in questa vita e che sicuramente continuano ad aiutarmi da lassù. Invoco sempre Dio: nelle cose belle lo ringrazio, così come lo invoco quando non sto bene.

Con la tua malattia purtroppo l’aspettativa di vita è bassa; già essere arrivati a 40 anni - tu stessa lo annoti nel libro - è una conquista per certi aspetti quasi “miracolosa”. Cos’è il futuro per te?

Nella mia situazione parlare di futuro è una cosa grande, per me il futuro è ogni giorno in più. Il futuro non lo so, però tante cose belle perché quelle brutte penso di averle già avute a sufficienza e quindi spero in una rivincita: che ci siano solo giornate, mesi, anni belli davanti, anche se, ripeto, non so se sarà così. Già domani se è una bella giornata e io sto bene, non ho dolori, è già qualcosa di bello per me.

Ogni giorno in qualche modo è il tuo futuro.

Sì, per me sì.

di Alessandro Gisotti
e Antonella Palermo