· Città del Vaticano ·

A 50 anni dal Convegno diocesano “Sui mali di Roma”
A colloquio con Giuseppe De Rita, relatore alle assemblee pubbliche del 1974

L’indifferenza
è il grande tema di oggi

 L’indifferenza è il grande tema di oggi  QUO-034
10 febbraio 2024

Il convegno su “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma”, passato alla storia come “il convengo sui Mali di Roma”, si tenne fra il 13 e il 15 febbraio 1974. In quel periodo Roma, dopo il boom economico e le luci delle Olimpiadi, era una città in profonda crisi, tra contestazione, primi passi dei movimenti eversivi, povertà. In particolare si era presa coscienza del problema delle periferie, cresciute enormemente, trasformatesi in luoghi di emarginazione prive di centri di aggregazione sociale. Era avvertito con urgenza soprattutto il problema dei “borghetti”, stanziamenti di baracche che in varie zone della città ospitavano in condizioni di grandi precarietà — spesso senza luce né acqua corrente — decine di migliaia di persone (tra le 70 mila e le 100 mila).  Fu il cardinale Ugo Poletti, nominato vicario nel 1973 dopo essere stato vicegerente, a promuovere azioni concrete per mettere mano ai mali di una “città povera e conflittuale”, raccogliendo il popolo e creando un nuovo strumento ecclesiale che faceva proprie le indicazioni del Concilio. Nella sua azione fu particolarmente supportato da un gruppo di lavoro composto da don Luigi Di Liegro, da don Clemente Riva, dal giornalista e attivista cattolico Luciano Tavazza e dal sociologo Giuseppe De Rita, allora segretario del Censis. lo stesso De Rita parteciperà, il 19 febbraio prossimo, all’incontro “Dis/uguaglianze. A 50 anni dal Convegno sui Mali di Roma”, che si terrà nell’aula della Conciliazione del Vicarato di Roma che sarà aperto dal cardinale vicario Angelo De Donatis e al quale prenderanno parte anche lo storico Andrea Riccardi, Luigina Di Liegro, segretario generale della Fondazione Di Liegro, Pierciro Galeone, vicepresidente della medesima fondazione e Giustino Trincia, direttore della Caritas di Roma.


Tra il 13 e il 15 febbraio del 1974 si svolse a Roma il convegno ecclesiale: “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di carità e giustizia nella città di Roma”, poi denominato dai giornalisti e passato alla storia come il convegno “sui mali di Roma”. Uno dei protagonisti di quell'evento fu il sociologo Giuseppe De Rita che incontriamo nella sede del Censis, il centro studi da lui fondato circa dieci anni prima.

Facciamo il punti di esattamente 50 anni fa, che lavoro faceva?

A febbraio del 1974 c’era già il Censis e quindi vi lavoravo nella vecchia sede di Corso Vittorio, fu subito dopo, nel mese di marzo che arrivammo qui a piazza di Novella.

Come si è trovato ad essere uno dei relatori di questo convegno? Fu per l'amicizia con monsignor.Riva?

Il convegno doveva essere un appuntamento quasi di routine, giacché era previsto come l'incontro annuale indetto dal Servizio degli assistenti sociali del Pontefice, dedicato questa volta alle povertà relazionali della città. Ma Ugo Poletti, il cardinale vicario, nominò invece un gruppo di lavoro alquanto eterogeneo, poco istituzionale: con lui e il vescovo ausiliare, monsignor Giulio Salimei, c’erano don Luigi Di Liegro, il prete rosminiano Clemente Riva, Luciano Tavazza, grande animatore degli ambienti del volontariato sia romano sia nazionale e il sottoscritto, segretario del Censis e imprenditore privato nel campo della ricerca sociale. Si capì subito che la logica sottostante a questa idea di convegno non era quella di un appuntamento di routine ma di smuovere le acque e far parlare la città. Sorsero subito sospetti e chiacchiere, soprattutto contro Poletti, accusato di uscire dai binari tradizionali e di affidarsi a persone non note, non “abituali”. C'è da considerare che anche la Democrazia ciristiana romana non si sentiva molto rassicurata da questa impostazione...insomma, le polemiche arrivarono fino al Papa, che convocò Poletti. Il cardinale difese con forza e abilità l’impostazione data dal gruppo di lavoro e quando presentò il programma a Paolo vi , alla sua domanda: «Riva so bene chi sia; ma questo De Rita, da dove viene?» prontamente e con astuzia rispose con un argomento che non ebbe repliche: «È padre di otto figli». E così organizzammo il convegno, pieni di entusiasmo, e ricordo che il cardinale, per incitarmi a fare bene, mi disse: «Guardi che lei è il primo laico che parla in San Giovanni dopo Federico Barbarossa». Non so se era vero ma lo cito perché indica l'audacia che ci fu nella preparazione e nella realizzazione di quell’evento.

Che ricordo ha di Poletti?

Un uomo di grande semplicità e di grande furbizia, quasi contadina. Aveva fatto il vescovo a Spoleto, l’esperienza per lui era un bagaglio prezioso. Aveva una semplicità quasi evangelica, quando salutava i miei figli sembrava fosse lo zio di casa, e i miei figli lo chiamavano per nome, “Ugo! Ugo!”; era un uomo che sapeva entrare in sintonia con tutto quello che toccava. Con questa semplicità Poletti alla fine fu quello che riuscì ad indurre la Cei ad indire il convegno sulla promozione umana del 1976, figlio naturale di quello del 74. E penso che anche nel ‘76 fu lui a propormi come primo relatore.

E con Di Liegro che rapporti c'erano?

Buoni, anche perché Poletti pensava come Di Liegro che la fede non basta se non ci sono le opere. Su questa sintonia Di Liegro “ricattava” Poletti. Ricordo che una volta Di Liegro gli propose di organizzare, per il Venerdì Santo, una serie di processioni da svolgersi davanti a tutti gli ospedali di Roma, luoghi della sofferenza. Poletti era perplesso, pensava ai grandi disagi che avrebbe subito il traffico della città davanti a luoghi così affollati come gli ospedali, ma alla fine Di Liegro la spuntò. Così come quando poi aprì la mensa al Colle Oppio, io stesso avevo qualche dubbio, pensavo che l'iniziativa del febbraio del ‘74 doveva essere innanzitutto di tipo intellettuale, pensare la fede, ma Poletti spingeva per l’azione e in questo era spinto a sua volta da Di Liegro. Il convegno del 1974 era un detonatore che avrebbe fatto esplodere tutta una serie di azioni concrete, di opere. Tutta questa “energia” messa in moto in quel convegno la potei constatare ai funerali di Di Liegro, nel 1997: la forza vibrante di quella folla era il segno della storia di oltre vent’anni prima. Il senso collettivo della Chiesa lo percepii quel giorno quando salutammo don Luigi.

Quale fu il segreto del successo del convegno del '74? L'apertura alle voci dal basso?

Il segreto fu quello di sentire tutti. In un contesto storico di crisi, di forti tensioni, dopo la contestazione del ‘68, nel momento in cui lo Stato si rinchiudeva ecco che la Chiesa si apriva, spalancava le porte e invitava tutti a partecipare. C'erano fisse 6000 persone dentro la basilica di San Giovanni e poi nei giorni successivi le tante sale cinematografiche vicine al Laterano allestite per ospitare migliaia di persone che potevano intervenire e prendere la parola. Ciascuno era libero di parlare, tutti si sentivano parte della Chiesa, anche quello che era arrivato dal Borghetto Latino, con la sua esistenza disagiata, poteva dire la sua. Questo fu il segreto di un evento irripetibile, che così non si è più ripetuto. Oggi se volessimo rifare un tentativo analogo, altro che 6000 persone in basilica... penso che occuperemmo le prime 6 fila di sedie, non di più. E invece 50 anni fa quello fu il segreto: la vicinanza della Chiesa a ciò che cresceva nella società. Era, per inciso, la stessa logica che muoveva il Censis: fenomenologia, non programmazione. Fu questa un’intuizione di Tommaso Morlino (uomo vicinissimo a Moro) che suggerì a me, programmatore, di lasciare la dimensione della programmazione e di dedicarmi alla fenomenologia. Così facemmo e ancora facciamo, descrivendo, raccontando l'Italia. E così fu nel febbraio del ‘74: una Chiesa vicina, in ascolto, attenta alle voci che venivano dal basso. Seguimmo la suggestione di Walter Benjamin per cui “la borghesia dovrebbe limitarsi a raccontare le cose come sono”. E così noi organizzatori non ci proponemmo con un progetto, un programma, un’idea, ma cercammo di scoprire e riconoscere i processi che erano già in corso nella società. Posso dire che in fondo siamo stati banali, nel senso che nessuno di noi aveva un progetto chiaro su quell'evento, se non quello di farlo, di farlo esistere. Il divenire puro: volevamo far “divenire” la Chiesa. Se vogliamo si può dire che siamo stati anti-sessantottini, rifiutandone l'approccio ideologico. Per dirla con le parole di Bergoglio, penso al geniale Bergoglio di Aparecida: avviare i processi e riconoscere che la realtà non è sferica ma poliedrica, sghemba, una realtà alla quale però è sempre superiore l’idea.

E oggi ha ancora dei progetti?

Quello che ho in mente oggi è di organizzare un triennio di ripensamento, così come fu nel ‘74 (convegno sui mali di Roma), nel ‘75 (Giubileo) e nel ‘76 (convegno sull'evangelizzazione e la promozione umana). Vorrei cioè fare una serie di iniziative nel corso dei prossimi due anni . Nel ‘74 ci si occupò dei mali di Roma cioè della “zona rossa”, cioè delle tensioni presenti nella società. All’epoca c’era la contestazione, che montava anche all'interno della Chiesa, e l’affrontammo; oggi invece il “male” è “la zona grigia”: non il caldo delle tensioni ma il freddo dell'indifferenza. Cercheremo come Censis di spiegare alla Chiesa di Roma il fenomeno di questa “zona grigia”. Nel ‘74 ci aprimmo alla fenomenologia e così anche oggi. Sto, come Censis, preparando una ricerca sul fenomeno dell'indifferenza e la offriremo all’attenzione della Chiesa. Il punto è che non mi interessa fare solo il testimone superstite di un evento del passato, ma voglio vivere il presente aprendomi al futuro. E dopo il ‘24 sarà il turno del ‘25, anche questo un anno giubilare. Si tratterà di preparare i cittadini romani ad accogliere i pellegrini raccontandosi, riprendendo il discorso di Paolo vi per il Giubileo del 1975. E infine il 2026, che riprenda il tema del 1976, quella promozione, quel “progresso” dei popoli che ancora oggi può essere attualizzato. Penso infatti che quel convegno del ‘76 fu la cosa più importante, dopo il Concilio, organizzata dalla Chiesa italiana. In conclusione vorrei ricordare febbraio ‘74 con un nuovo trienni di mio lavoro per la Chiesa.

Anche perchè i problemi della Chiesa di allora sono ancora presenti. Parlando con Bartoletti lei nel '76 elencava 9 “piaghe”, per dirla con Rosmini, che non sembrano scomparse come ad esempio il pessimismo; la testimonianza di pura «difesa»; il pensare prevalentemente a chi sta nel recinto, ai “nostri”; il privilegiare alcuni tipi di laici che apparivano “più preti dei preti”; il non resistere alla coazione a parlare o a prendere posizione su qualsiasi cosa; il far cultura di affermazione “docente” invece che di ricerca; il dimenticare l’importanza della mediazione culturale.

Sì, alcune di queste sono tuttora presenti. Aggiungo una tendenza al leaderismo, alla guida dei processi sociali che invece vanno accompagnati, senza protagonismo. Essere vicini, alleati con la società, altrimenti il popolo alla lunga smette di seguirti. Infine, come dicemmo in una nostra precedente conversazione, c’è bisogno di ascolto dello Spirito. Viviamo infatti il passaggio dall'era del Figlio a quella dello Spirito, che è fatta da noi, noi che camminiamo accompagnati dallo Spirito che ci ispira, ci stimola, ma è fatta da noi. Dopo l’era del Padre, a cui ancora molti pensano, il popolo eletto dal Padre Onnipotente, e dopo l’era del Figlio, cioè dell'amore, del rapporto con l'alterità, con il fratello, siamo giunti ora al passaggio all'era dello Spirito. Viviamola con gioia e con quell'apertura fiduciosa che avemmo 50 anni fa. Vale ancora la parola del Salmista: «E vanno con vigore sempre crescente fino a comparire innanzi a Dio in Sion». Vale anche per un novantaduenne qual sono.

di Andrea Monda