· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Gran parte del continente è arabile, eppure il 20 per cento della popolazione soffre la fame

Agricoltura africana
e sviluppo sostenibile

(c) Ben Small/HelpAge International

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09 febbraio 2024

Molti analisti ritengono che il continente africano potrebbe diventare il granaio del mondo. Qui il riferimento, è bene precisarlo, va ben al di là della produzione cerealicola, infatti, ponendo l’agricoltura al centro della trasformazione economica, soprattutto nella macroregione subsahariana, l’Africa avrebbe il potenziale per diventare una potenza agricola globale e un esportatore netto di cibo. Secondo la Banca Africana per lo Sviluppo (Afdb), il mercato alimentare e agricolo dell’Africa potrebbe passare dagli attuali 280 miliardi di dollari all’anno, ai 1.000 miliardi di dollari entro il 2030. Stiamo parlando di un continente che possiede il 60 per cento della terra arabile incolta del mondo, il cui settore agricolo rappresenta il 35 per cento del Pil, dando impiego a più africani di qualsiasi altro settore. Allora perché l’Africa spende ogni anno l’incredibile cifra di 78 miliardi di dollari in valuta estera per le importazioni alimentari, mentre alcuni Paesi come Zimbabwe, Guinea e Sudan superano il 100 per cento delle loro entrate annuali in valuta estera? Perché nel 2020 oltre il 20 per cento degli africani ha dovuto affrontare la fame, una cifra doppia rispetto a qualsiasi altra regione del mondo?

Il tema è molto complesso e la risposta non può essere univoca nel senso che i fautori della globalizzazione dei mercati, su scala planetaria, hanno sempre posto in cima alla propria agenda la massimizzazione dei profitti, senza tener conto dei cosiddetti effetti collaterali. A questo proposito è utile leggere quanto riportato in una recente pubblicazione della Fao ntitolata The State of Food and Agriculture 2023. Lo studio esamina i costi nascosti annuali dei sistemi agroalimentari nel periodo 2016-2023 per 154 Paesi. Essi includono i costi ambientali nascosti derivanti dalle emissioni di gas serra, dalle emissioni di azoto, dalle transizioni di uso del suolo e dai prelievi di acque blu; costi sociali nascosti associati alla sottoalimentazione e alla povertà; e i costi sanitari nascosti derivanti da modelli alimentari non salutari. A livello mondiale, la Fao stima che i costi nascosti attribuiti ai sistemi alimentari ammontino a 12,7 trilioni di dollari all’anno, pari a circa il 10 per cento del Pil mondiale, mentre l’agricoltura stessa rappresenta solo il 4 per cento del Pil globale. In Africa, i costi dovuti ai modelli dietetici non salutari causano un costo annuale di 391 miliardi di dollari al continente e altri 18 miliardi di dollari a causa del carico di malattie generate dalla denutrizione. Il secondo costo nascosto più elevato per i sistemi agroalimentari africani, a differenza del resto del mondo, si riferisce alla perdita derivante dalla povertà dei lavoratori del settore, che costa al continente 284,8 miliardi di dollari all’anno, corrispondenti al 30 percento del costo nascosto totale.

Come ha osservato monsignor Renzo Pegoraro nel corso di una tavola rotonda promossa da Bayer con il patrocinio della Pontificia Accademia per la Vita lo scorso 11 Ottobre a Roma: «Lo sviluppo agricolo deve essere sostenibile dal punto di vista socioeconomico e ambientale. Deve poi esserci una formazione adeguata per tutti i soggetti interessati del settore agricolo. È necessario sostenere gli agricoltori, i giovani e le donne, con particolare attenzione alle realtà di piccola scala, offrendo opportunità di lavoro, crescita umana e professionale, nel rispetto della dignità delle persone e delle realtà locali». Per garantire questo sviluppo è dunque necessario farsi carico di alcune importanti sfide che riguardano l’accesso limitato alla tecnologia, agli investimenti finanziari, all’educazione agricola, oltre alla titolarità della terra, delle infrastrutture, e naturalmente alla definizione di strategie per contrastare gli effetti devastanti derivanti dai cambiamenti climatici.

In linea di principio tutte queste indicazioni sono state formulate nell’ “Agenda 2030” adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, che sottolinea la necessità di «destinare risorse allo sviluppo delle aree rurali e all’agricoltura e alla pesca sostenibili…»; «tenere conto delle tendenze demografiche nelle strategie e politiche di sviluppo nazionale, rurale e urbano»; «aumentare gli investimenti nelle infrastrutture rurali e nella ricerca agricola»; e di «sostenere un collegamento economico, sociale e ambientale positivo tra le aree urbane, periurbane e rurali». Le aspirazioni agricole per l’Africa sono ulteriormente delineate dall’ “Agenda 2063: l’Africa che vogliamo” dell’Unione Africana (Ua), che richiede una crescita e una trasformazione agricola accelerate, che portino a una prosperità condivisa e a migliori mezzi di sussistenza. Sebbene tali dichiarazioni di intenti globali e panafricane siano cruciali, devono essere seguite da normative e politiche nazionali concrete se si vuole che l’agricoltura africana attragga la portata degli investimenti necessari per diventare un esportatore netto di cibo. Da questo punto di vista, il rilancio dell’agricoltura africana richiederà un deciso cambiamento di rotta nelle politiche di sviluppo nazionali passando dal sostegno, finora quasi incondizionato, di un ristretto numero di colture prevalentemente orientate all’esportazione — cotone, semi di cacao, caffè e thè — al dare priorità a una gamma più ampia di prodotti agricoli per il consumo intra-continentale.

Se da una parte è vero che le esportazioni agricole sono cruciali, poiché generano preziosa valuta estera, dall’altra è importante promuovere la sicurezza alimentare panafricana. Nel 2018, il commercio intra-africano rappresentava il 15 per cento delle esportazioni e, a sua volta, il 15 per cento di questo riguardava prodotti agricoli. L’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), partita ufficialmente i 1° gennaio 2021, si spera incentivi il più possibile questo flusso di prodotti agricoli attraverso i confini africani. Il miglioramento delle procedure doganali ai valichi di frontiera, così com’è stato pensato, dovrebbe contribuire a ridurre al minimo il volume dei prodotti che vanno a male durante il trasporto. Inoltre, la lavorazione locale di tali beni esportati anziché l’esportazione di prodotti grezzi aumenterebbe i ricavi e creerebbe nuove opportunità di lavoro.

A tutto questo ragionamento va aggiunta una considerazione che riguarda l’indirizzo adottato dall’AfDB e da molti governi africani. Essi sostengono che il vero obiettivo per garantire la sostenibilità alimentare e incentivare la redditività consista nell’aumentare la produttività agricola e sostenere le infrastrutture e i sistemi agricoli «intelligenti per il clima», utilizzando investimenti del settore privato per «aiutare a trasformare l’Africa in un granaio per il mondo». È quanto è emerso, ad esempio, lo scorso anno nel 2° Vertice di Dakar sull’agricoltura e l’agroalimentare, che si è tenuto dal 25 al 27 gennaio 2023 in Senegal. Ottanta organizzazioni della società civile africana hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui hanno espresso grande preoccupazione, in quanto ritengono che «il problema strutturale alla base dell’insicurezza alimentare in Africa non è semplicemente quello dell’insufficienza di terra coltivata o di una generale carenza di cibo, come affermato da AfDB». L’Alleanza per la sovranità alimentare in Africa (Afsa), i cui membri includono piccoli agricoltori, pastori, cacciatori-raccoglitori e popolazioni indigene, hanno infatti sottolineato che l’accaparramento di terre da parte di compagnie dell’agrobusiness e di ogni genere di investitori privati sta causando ingenti danni all’ambiente. «Il 50 per cento degli accordi di investimento fondiario in Africa — si legge nella dichiarazione — ha avuto luogo su terreni utilizzati da piccoli agricoltori, principalmente in Etiopia, Senegal, Ghana, Mozambico, Sierra Leone, Tanzania e Uganda».

Sta di fatto che, stando sempre a quanto dichiarato dal cartello di organizzazioni della società civile, le piantagioni di palma da olio stanno letteralmente distruggendo le foreste in Liberia e nell’isola di São Tomé. Mentre i rifiuti industriali delle piantagioni di canna da zucchero inquinano l’ambiente e danneggiano i mezzi di sussistenza in Nigeria. L’Afsa, tra l’altro, ha anche condannato l’utilizzo di una serie di pratiche distruttive come la monocoltura su larga scala, l’allevamento intensivo o gli ogm. L’Afsa non ha poi lesinato critiche alla cosiddetta “Agricoltura intelligente per il clima“»” (Csa — Climate smart agricolture) spiegando che «non solo rafforza le stesse aziende agricole e sementiere responsabili della distruzione dei mezzi di sussistenza degli agricoltori e della biodiversità agricola necessaria per sistemi alimentari robusti, ma contribuisce anche alla crisi climatica, anziché risolverla, rafforzando il sistema alimentare industriale».

Una cosa è certa: considerando che l’Africa sarà responsabile di più della metà dell’incremento della popolazione mondiale previsto dall’Onu entro il 2050, per soddisfare il crescente fabbisogno alimentare sarà comunque necessario aumentare e ottimizzare innanzitutto le produzioni locali. Tutto questo, si spera, nel rispetto dell’ambiente e soprattutto della persona umana creata a immagine e somiglianza di Dio.

di Giulio Albanese