· Città del Vaticano ·

L’irruzione nazifascista nel 1944 al monastero di San Paolo fuori le Mura

«Manderemo a zappare il Papa»

 «Manderemo a zappare  il Papa»   QUO-031
07 febbraio 2024

Il 2 febbraio 1944 al monastero di San Paolo fuori le Mura si presenta all’Abate, don Ildebrando Vannucci, tale don Ildelfonso Troia, monaco vallombrosano. All’abate dice di venire da Firenze e di aver bisogno di ospitalità perché ricercato dai fascisti. Monsignor Vannucci gli risponde che non sarà possibile ospitarlo fino a quando non sia stato possibile parlare con il superiore del monaco.

Nel pomeriggio del 3 febbraio si presenta sempre al monastero un uomo anziano, chiedendo di un certo Bernabò, incaricato di condurre a San Paolo due religiosi provenienti da Firenze. Don Giulio Fabbri, segretario amministrativo del monastero, risponde di non conoscere alcun Bernabò. L’uomo chiede allora di telefonare ma ciò gli viene negato. Chiede poi di entrare nel monastero, ottenendo un altro diniego.

Inizia così uno degli episodi più efferati mai vissuti a Roma sotto l’occupazione germanica; l’irruzione nazifascista al monastero di San Paolo fuori le Mura. L’episodio ha due protagonisti: un commissario di Polizia, Pietro Caruso, ufficiale della milizia fascista, qualificatosi come il “comandante” della spedizione; e il sedicente tenente Pietro Koch, capo dell’omonima famigerata banda, che diresse effettivamente le operazioni.

La sera di quel 3 febbraio 1944 l’Abbazia di San Paolo venne circondata. «Qualcuno ha parlato di 300 persone della Polizia fascista repubblicana», si legge in una nota della Segreteria di Stato. Poco prima di mezzanotte i fascisti irruppero nell’Abbazia dal giardino che guardava sulla via Ostiense, penetrando nel monastero. A difendere l’extraterritorialità dell’edificio c’era la Guardia Palatina che sparò in aria un colpo di avvertimento, dando poi l’allarme. Ma il comandante della guardia, subito accorso, viene aggredito e disarmato.

Nel frattempo, in un’altra ala del monastero si consumava un non diverso dramma. Alla porta d’ingresso centrale bussavano due personaggi, sedicenti monaci di Santa Prassede provenienti da Firenze. Chiedevano ospitalità asserendo che l’abate era al corrente della cosa. Dopo qualche esitazione fra’ Vittorino, il portinaio, aprì la porta e fu la seconda irruzione in San Paolo ad armi spianate. I fascisti neutralizzarono Fra Vittorino e una guardia palatina e resero inutilizzabile il telefono. «Questa è zona extraterritoriale», protestò Fra Vittorino. Ma circa un centinaio di agenti in borghese salivano già per lo scalone principale del monastero dirigendosi verso lo studentato e la clausura. Iniziava la perquisizione. «Gli agenti — narra la relazione di cui si è detto — imponevano di aprire bussando fortemente alle porte, che, se l’ordine non era prontamente eseguito, venivano sfondate».

Fatta la perquisizione, si ordinò a tutti di scendere a pianterreno per gli interrogatori, mentre le ricerche proseguivano. «Dopo circa due ore di ricerca — questa la cronaca del dramma — riuscirono a trovare una sala nei locali parrocchiali dove dormivano degli ospiti. Appena viste tali persone, gli agenti le investirono in malo modo con insulti e minacce e qualcuno sparò in aria qualche colpo di rivoltella a scopo intimidatorio. I rifugiati balzarono dal letto e cercarono scampo fuggendo verso il cortile, ma furono inseguiti e, con pugni, calci e staffilate furono cacciati anche essi nei saloni terreni. Molti di essi gridavano per il dolore causato dai maltrattamenti e dalle ferite riportate. Qualcuno ha raccontato di aver visto un agente che li percuoteva con un randello».

La perquisizione intanto continuava, anche con deliberata infamia da parte dei fascisti. «Rovistavano frugando nei letti, nelle valigie e negli abiti, e, tutto quello che trovavano che potesse avere qualche valore, era portato nel cortile, dove il bottino veniva diviso e inviato poi su diversi carri ad ignote destinazioni».

Percosse, spari, insulti, minacce, calci, schiaffi, percosse con calci di fucile, insomma violenze di ogni tipo. «Il contegno degli invasori nel compiere la loro impresa fu veramente indegno, per il modo come essi trattarono non solo gli ospiti (...) ma anche i monaci e persino l’Eccellentissimo Abate».

La relazione della Segreteria di Stato su tali tragici fatti, per quanto dettagliata, purtuttavia ammetteva di star raccontando qualcosa di «molto inferiore alla realtà». All’abate fu ordinato di giurare che tutti gli ospiti erano veramente religiosi (i ricercati, sotto mentite spoglie, erano quindi camuffati in abito talare). Ma don Ildebrando rifiutò, al che un ufficiale lo accusò di aver macchiato la sua dignità di sacerdote «nascondendo nel convento ebrei, giovani renitenti di leva e ufficiali, permettendo la diffusione di giornali sovversivi». La banda Koch promise vendetta: «Manderemo a zappare il Papa»; «la Chiesa Cattolica ricovera imboscati armati, questo è schifoso! Il Santo Padre che permette queste cose si rende traditore».

In Vaticano la notizia della nuova razzia provocò grande agitazione. Il Segretario di Stato card. Maglione inviò subito a San Paolo l’ingegner Pietro Galeazzi, della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano, l’uditore della Nunziatura d’Italia monsignor Ambrogio Marchioni e il capo della Gendarmeria vaticana Adolfo Soleti, i quali trovarono la zona extraterritoriale di San Paolo ancora circondata dai fascisti. Fra i veicoli fermi se ne scorgevano tuttavia alcuni con la scritta “Polizei” (Polizia).

Galeazzi e il suo seguito entrarono nel salone degli interrogatori mentre altri agenti in borghese scattavano foto a un gruppo di persone fermate. Qualificatosi con Caruso, Galeazzi gli chiese di spiegare per conto di chi egli, Koch e gli altri si erano introdotti in zona extraterritoriale vaticana protetta dal Trattato del Laterano e dal diritto internazionale. Sapevano i tedeschi di quanto lui, Caruso, e Koch stavano facendo?

Caruso disse che l’operazione aveva lo scopo di procedere all’arresto del Generale di Squadra Aerea Adriano Monti e di altri ufficiali (Monti infatti fu trovato e arrestato nel monastero). Caruso aggiunse che i tedeschi non sapevano dell’operazione; ma dicendo ciò «sembrò interrogare con lo sguardo il sig. Koch, che era a lui vicino, quasi si attendesse da lui un suggerimento». Koch lo smentì: «Affermò categoricamente che l’Autorità tedesca era a conoscenza di quanto si stava compiendo». Ne seguì la vigorosa protesta di Galeazzi a nome della Santa Sede e «per la violazione senza precedenti compiuta dalla Polizia italiana». Chiese pertanto che Caruso, Koch e gli agenti lasciassero il monastero e ripristinassero lo status quo ante. Caruso disse che ormai alcuni dei fermati erano già a Regina Coeli e Koch aggiunse che i suoi avevano trovato nell’Abbazia armi, libelli e foglietti di propaganda comunista; quindi trascese offendendo le Guardie Palatine («imboscati e pusillanimi»), così provocando le proteste di monsignor Marchioni.

«Gli aggressori fecero man bassa di tutto, si impossessarono di abiti, coperte, biancheria, valigie, oggetti di pelle, orologi, penne stilografiche, rasoi ecc. Dalla dispensa presero salati, burro, zucchero, caffè e quanto altro poterono asportare. Furono visti agenti entrare nelle stanze con un soprabito e uscirne con due. Un monaco vide gli agenti che «portavano valigie nel cortile e se le dividevano con sfacciata spudoratezza».

La presenza di auto di “Polizei” attestava di per sé la presenza anche di agenti tedeschi, alcuni dei quali visti in divisa. A Galeazzi fu impedito di parlarci (parlavano in un italiano stentato, usando i verbi all’infinito). Contro ogni evidenza, il comando tedesco di stanza a Roma negò di essere al corrente dell’operazione a San Paolo. Tutto era avvenuto a totale insaputa delle autorità germaniche. La Santa Sede, che non credeva a questa favola, fece notare all’ambasciatore tedesco «che a Roma c’è un comando militare tedesco, senza del quale nulla si può fare e il quale può tutto impedire». Ma i tedeschi insistevano nel negare alcun coinvolgimento. Avvertirono anzi che il funzionario che li aveva tirati in ballo, ossia Pietro Koch, sarebbe stato arrestato.

Koch non fu arrestato; e la stampa di regime giudicò la narrazione vaticana sul raid fascista a San Paolo del tutto romanzesca. Si era trattato «solo di un pacifico ingresso». Trionfalmente, ma più realisticamente, l’Agenzia Stefani scrisse che a San Paolo vi era stata «un’importante operazione» con risultati soddisfacenti: i fascisti avevano infatti catturato cinque ufficiali, fra cui Monti, «9 ebrei, 2 funzionari di polizia, e 48 giovani renitenti alla leva». Molti di costoro erano stati sorpresi dai fascisti in abito talare: espediente, questo del camuffamento, in uso nei conventi e nelle chiese che davano asilo a rifugiati di ogni tipo.

Subito dopo la razzia di San Paolo un protagonista di salvataggi a Roma come don Pietro Occelli, parroco del Buon Pastore e co-fondatore di «Famiglia Cristiana», avrebbe detto ai suoi molti protetti: «Amici, non bastano le tessere che vi ho procurato, le sottane e i colletti che portate; più che mai devo ricordarvi che l’abito non fa il monaco (...). Se a San Paolo, nella Città aperta, nell’extraterritorialità, è capitata la diavoleria che è capitata, qui da noi, fuori di Città aperta, nelle retrovie tedesche, chi può garantirvi la sicurezza? Tamburini [il capo della polizia repubblicana, ndA] dà la caccia all’uomo nelle canoniche e nei conventi; Koch fa l’esaminatore liturgico (...). Disponete di voi come credete meglio; ma se scegliete di restare, dovete dir messa meglio di me, in latino dalla A alla Z».

Si chiudeva un altro triste capitolo della storia di “Roma nazista”, nell’attesa di una Liberazione ancora da venire.

di Matteo Luigi Napolitano