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Zona franca
Intervista alla filosofa e teologa Isabella Guanzini

La civiltà come disagio
e la vocazione
di incontrare l’altro

 La civiltà come disagio e la vocazione di incontrare l’altro  QUO-029
05 febbraio 2024

«Negli anni ’30 del secolo scorso, un periodo che presenta allarmanti analogie con l’attuale, quando la crisi economica lasciava già prevedere la tragedia della seconda guerra mondiale, Sigmund Freud scrisse un testo che è stato fondamentale per il pensiero europeo, e anche per la mia personale formazione: Il disagio della civiltà. Oggi, parafrasandolo, potremmo parlare della civiltà come disagio». Esordisce così Isabella Guanzini, filosofa e teologa che, dopo aver insegnato Storia della filosofia alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e dopo alcuni anni da ricercatrice all’Università di Vienna, è oggi docente ordinario di Teologia fondamentale all’Università di Linz, in Austria.

«Provo a spiegare, in toni spero non troppo foschi, questa trasformazione, questa metamorfosi del disagio freudiano, partendo dall’immagine di un mondo che è diventato per lo più il nostro punto di aggressione: tutto deve essere conosciuto, dominato, controllato, previsto, ottimizzato, misurato. Prendiamo il nostro corpo: diviene subito un oggetto da migliorare, nel suo aspetto e nelle sue prestazioni. Ogni esperienza, anche la più semplice e quotidiana, viene sottoposta a una sorta di ottimizzazione parametrica. Nel mondo produttivo, ma anche nel contesto accademico, tutto obbedisce a una logica prestazionale e aggressiva, in cui la relazione si trasforma spesso in competizione, l’impegno in concorrenza, la vocazione in prestazione. L’effetto è la caduta di ogni attaccamento appassionato, entro un regime temporale sempre più accelerato. Il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha analizzato in modo molto persuasivo l’accelerazione dei mutamenti sociali, delle trasformazioni tecnologiche e del ritmo di vita, spropositata e del tutto ingovernabile da parte dei soggetti, diagnosticando una condizione generalizzata di alienazione sociale. Siamo stati costretti a interiorizzare circuiti e strategie che noi stessi non abbiamo prodotto e che ci obbligano ad adattarci a loro. Mentre aumentiamo il nostro capitale e la nostra efficacia sociale, perdiamo lentamente il contatto con noi stessi e con il mondo, facendoci oggetti entro un sistema che alimenta soltanto sé stesso. Qual è l’ansia, qual è il disagio fondamentale che si genera in rapporto a questo mondo di dati, a questo modo aggressivo di entrare in contatto con la realtà, con sé stessi e con gli altri? È l’angoscia che il mondo reso fondamentalmente oggetto controllabile e disponibile — e la crisi ecologica ne è il sintomo apocalittico — non parli più ai soggetti: è la paura nei confronti di un mondo che ha perso la propria voce, di una realtà con la quale si fa fatica a entrare in risonanza, in cui non si trova il proprio posto come soggetti e lentamente diventa qualcosa che non ci riguarda. “Alienazione” esprime precisamente il sentimento di questa estraneità e confusione, accompagnato dalla paura della perdita del mondo o del fantasma di un mondo che si fa sempre più silenzioso. Questo sentimento di alienazione si percepisce soprattutto tra le generazioni più giovani, che si traduce in un sentimento di passività, e nell’angoscia di fronte alla perdita della propria identità e del linguaggio. Lo sfinimento del desiderio, la mancanza di vitalità, la tendenza all’isolamento e una sorta di indifferenza verso il mondo sono una reazione di difesa nei confronti di una realtà che nei decenni passati è stata trasformata nel nostro punto di aggressione, e ora non risponde più. Non si tratta di una forma di depressione, né di una semplice dipendenza dai videogiochi. Piuttosto, di una tendenza all’isolamento: interrompere le relazioni sociali e ritirarsi nel proprio spazio virtuale sembra essere l’unica reazione a un’esperienza profonda di ansia di fronte alla pressione sociale in un mondo che è diventato silenzioso e alieno. In questa situazione, è meglio scomparire e interagire solo con uno schermo».

Come dice Papa Francesco il numero sopravanza la parola.

Il numero colonizza la parola e sopravanza l’esperienza. E trasforma il mondo in oggetto, traduce la realtà in algoritmo, ossia in un luogo in cui si fa fatica a trovare il proprio posto, a essere chiamati con il proprio nome, a iscrivere la propria singolarità in una storia di legami e di esperienze comuni. Soprattutto, un mondo diventato oggetto ha un linguaggio non propriamente umano, ma informatico. Da questo linguaggio è difficile che giunga un appello o una chiamata reale; per lo più arriva un imperativo prestazionale o un invito a ottimizzare. E questo si vive anche nel mondo intellettuale, che chiede spersonalizzazione e oggettivazione maniacale. Si crea una nuova forma di estraneazione, in cui la digitalizzazione gioca un ruolo decisivo. È il disagio di non riuscire a trovare il proprio posto come soggetti, a diventare soggetti con la propria voce. Entro un universo di oggetti osservabili, anche il proprio sé è chiamato a esibirsi, a presentarsi, a mostrare la propria singolarità: tuttavia ciò accade oggi per lo più in quella logica della funzionalità, dell’investimento e dell’efficienza che è tipica delle cose. In questo modo, la soggettività cerca ogni volta di emergere disinnescando ciò che in realtà le è più proprio, ossia la dimensione invalutabile dei suoi attaccamenti, che si accompagna alle sue spesso implicite domande di senso. L’attuale regime temporale, segnato dalla logica dell’accelerazione e della prestazione, rende molto faticosa la ricerca e la scoperta di ciò che per ciascuno rappresenta il proprio punto di luce, in cui l’esperienza quotidiana brilla in modo diverso. Il nostro rapporto con il tempo è cruciale per comprendere la complessità del mondo sociale. È nell’orizzonte del tempo vissuto, nel ritmo che scandisce la vita privata e collettiva degli individui che si comprende lo spirito di un’epoca. La vita del soggetto tardo moderno appare regolata da una rigorosa disciplina temporale, pervasiva e impolitica (totalmente immune da interrogativi etici, valori o dogmi), si sviluppa principalmente e ineluttabilmente attraverso una logica di accelerazione sociale, da un’escalation continua — elettrizzante, ma anche estenuante — come condizione della stabilità del sistema, così che rallentare significherebbe semplicemente uscire dalla gara. Tutto diventa sempre più veloce, dai modi di produzione ai mezzi di trasporto, dagli stili di consumo alle forme di relazione e di comunicazione. Entro questa dittatura temporale si atrofizzano lo spazio e il tempo necessario per diventare semplicemente soggetti: perché diviene sempre più difficile entrare in una zona di rallentamento, di shabbat simbolico, che ci dia il tempo per pensare a come stiamo abitando il nostro tempo. Gli esseri umani non coincidono con le loro funzioni, con le loro imprese, con le loro prestazioni, con le loro routine sociali. Non basta fare, occorre anche salvarsi da ciò che si fa, con ciò anche salvare ciò che si fa, dando a esso un senso. Per questo è necessario un tempo che interrompa nel vivo il circuito spossante del nostro fare e disfare, che apra un varco e un punto di fuga nel cerchio ossessivo dell’azione e della produzione, per farci entrare in relazione con zone di risonanza e di affezione, senza le quali si spegne ogni desiderio di vita e si dilegua ogni possibilità di vocazione. Non è solo una questione di autoaffermazione ma di esposizione a qualcosa che chiama, per farci uscire dall’estraneazione e dall’indifferenza di un mondo che non conosce il nostro nome. È la possibilità di una forma di ricettività che allo stesso tempo destabilizza e potenzia la vita, perché la apre a una dimensione e a un ritmo diversi, non oppressi dalle richieste eteronome di una realtà che non sa riconoscerci come soggetti. Ma il tempo diviene allora una questione anche teologica. Perché urge non soltanto una Parola che sappia interrompere la freccia anonima di un tempo strategico, che vada dritto allo scopo, ma anche una modalità di incontro con il mondo e con l’altro che non impone e giudica la prestazione, ma suscita una vocazione.

Anche perché la vocazione implica la relazionalità, non è un fatto soggettivo ma oggettivo, non coincide con “ciò che mi piace”.

Credo che in questi ultimi decenni si sia imposto un paradigma di successo personale o di autoaffermazione sociale, in cui si è enfatizzata la dimensione anonima della prestazione, che si può interpretare come la forma secolarizzata della vocazione. Entro la nostra costellazione eminentemente monetaria — dove per la prima volta nella civiltà umana a dominare sono i valori tecnico-economici e la sua configurazione sociale eminentemente individualistica — ciascuno è “chiamato” a farsi da sé. Siamo sempre riportati a noi stessi, con tutta l’autonomia e il peso che ciò comporta. Quella che è stata descritta come società del rischio si caratterizza come una società in cui ogni cosa può e insieme deve essere sempre di nuovo decisa dai singoli. Ci si trova allora esposti a fluttuazioni imprevedibili, che si devono governare tendenzialmente da sé: venuta meno la forza dell’interpellazione, della chiamata dell’Altro, ognuno di noi resta “senza copertura”, affidato soltanto a sé stesso, “chiamato” ad autorizzarsi da sé. In assenza di criteri per la decisione, tuttavia, ci troviamo paradossalmente imprigionati in una rete autoimposta di regolamentazioni e prescrizioni cogenti per le faticose routines del quotidiano, imperativi salutistici e compensatori per i rinnovati must del wellness e del fitness. Lungi dal generare un effetto emancipatorio, tale situazione assume lentamente i tratti di un azzardo insostenibile che provoca un diffuso senso di angoscia e di inadeguatezza. Resta il carico della professione, ma evapora il senso della vocazione.

Con tutta l’ambiguità implicata nell’idea stessa di realizzazione.

La realizzazione dà l’idea di un prodotto compiuto, finito, che deve entrare nel mercato. Il principio dell’autorealizzazione è in effetti uno degli imperativi categorici del discorso del capitalista che negli ultimi decenni ha imposto il modello di una “vita piena” di oggetti, prodotti del consumo e del godimento, che ha promosso processi di identificazione attraverso le cose. Non si può però negare che tale principio di realizzazione non abbia generato anche un altro tipo di discorso, che definirei “religioso maniacale”. Qui la difesa della religione diviene la maschera di un popolo immaginario con la sua suscettibilità identitaria, ma al prezzo di una perdita della potenza spirituale della tradizione. È il religioso come brand, che impone i suoi prodotti esclusivi (contro l’altro). Non a caso vengono strumentalizzati elementi materiali (il crocifisso, il presepe, il campanile, il cibo, il vino) come elementi di selezione e di differenziazione (i famosi identity markers che l’apostolo Paolo ha strenuamente combattuto) che amputano la dimensione dello Spirito, e trasformano la vocazione in autorealizzazione. Il filosofo Gilles Deleuze, in un meraviglioso testo sul cinema, cita il regista Robert Bresson: «Sceglie davvero, sceglie effettivamente, solo colui che viene scelto». Notoriamente Bresson è autore religioso e Deleuze è il pensatore dell’immanenza. Eppure, qui emerge una voce o una presenza che, incuneandosi fra la soggettività e il suo mondo, la interpella, imponendole una decisione. Essa, infatti, è soprattutto lo spazio di un legame che ci sospinge ogni volta verso il campo enigmatico del rapporto con l’altro, che chiama e richiama sempre di nuovo a sé stessi. Credo che il cuore della questione antropologica sia la possibilità di un’esperienza umana che si apre a un fuori capace di rianimarla e renderla finalmente viva. La libertà non nomina infatti né la scelta fra questa o quella cosa, questa o quella strada, né l’esperienza di una corrispondenza conquistata con sé stessi al di là delle scissioni, ma l’assunzione di responsabilità verso questa presenza intimissima e insieme ignota che magnetizza il desiderio, insieme alle sue divisioni. È il rapporto con un’alterità che però chiama ma non impone: è come quella “voce di silenzio sottile” che raggiunge il profeta Osea, che è quasi impercettibile, per questo si presenta nella quiete del deserto per farsi sentire. Non è una voce tonante, tanto fragorosa da rendere le domande del soggetto inudibili. Questa, secondo me, è la sostanza del problema religioso oggi, che rischia, almeno nello spazio pubblico, una deriva identitaria che, paradossalmente, evacua le esigenze più profonde della soggettività. L’esperienza religiosa rischia di diventare una fucina di investiture imperiali — invece che di vocazioni reali — ossia di “chiamate alle armi” che ingiungono una presenza e in cui la fede si traduce in una forma di sentenza.

Velocizzazione e ansia da prestazione sarebbero le cifre del tempo, su cui però il maschio sembra un po’ più vulnerabile. Non è riuscito né ad adeguarsi alla velocità e soffre di più l’ansia da prestazione.

Senza dubbio il maschio deve essere prestazionale, secondo un imperativo archetipico, introiettato da secoli, che impone all’uomo un ideale muscolare. È “l’uomo che non deve chiedere mai” e la cui economia psichica interiorizza, assimila e rispecchia i meccanismi del mercato. Istintivamente, cerca zone franche di disaffezione e disinteresse, in relazione a una logica di pura sopravvivenza e auto-protezione del proprio paesaggio nervoso. È il tipo cool contemporaneo: molto trendy e fascinoso, e insieme molto algido e distaccato. Cool è una parola inglese che significa appunto “freddo”. I dispositivi delle nuove tecnologie del sé (fisiche, chimiche, chirurgiche, estetiche) contribuiscono a loro volta a sovra-stimolare la cura e a svuotare le difese immunitarie. Alla fine della seconda guerra mondiale, nel tentativo di fare un’analisi delle possibili cause della nostra condizione attuale e della tragedia che ha spezzato l’Europa, il filosofo Theodor Adorno ha riflettuto non in ultimo sul modello educativo del suo tempo. In uno dei suoi ultimi scritti, L’educazione dopo Auschwitz (1969), propone una tesi forte e a mio parere molto attuale. L’educazione emotiva dell’epoca traeva i suoi principi di fondo da un ideale di virilità, di resistenza alla fatica e di freddezza come elementi decisivi di un modello pedagogico “ortopedico”, teso a modellare una corazza psicologica a difesa di ogni possibile paura e angoscia e a rafforzare l’io attraverso la maschera immaginaria di una presunta durezza e insensibilità al dolore. In nome del culto smodato della razionalizzazione e dell’efficienza a ogni costo si impone un’ideologia che perpetua la freddezza e ha così generato l’orrore. Entro una costellazione sociale declinata al maschile, come è ancora la nostra, per entrare a farne parte, anche la donna non sembra poter eludere questo principio della prestazione. Non soltanto deve uniformarsi al modello per fare sentire la propria voce ma, nella quotidianità del lavoro, deve persino radicalizzarlo: a causa dello squilibrio delle condizioni di partenza, deve risultare più prestazionale. Per trovare il proprio posto all’interno di una società fatta dagli uomini, la donna deve fare più di loro. Eppure, grazie a decenni di lotte per l’emancipazione e la trasformazione dei ruoli, proprio entro questo campo intravedo una metamorfosi in corso, almeno in Europa. Lentamente la differenza femminile del pensare e del lavorare sta seguendo il suo corso, e forse avrà la forza di sovvertire l’ordine simbolico cementato da secoli di pensiero dominante. Nel campo dell’esegesi biblica, per fare un esempio minimo, ma a mio parere significativo, sono fioriti studi non soltanto sulle donne nei testi sacri, ma anche sulle emozioni, gli affetti nella Bibbia. Credo sia necessario che il pensiero accetti di ospitare ciò che sembra opporsi alla sua tendenza fondamentale di definire, di governare, di controllare, di misurare con precisione i dati. È tempo di fare i conti con il rimosso che continua tuttavia a inquietare la chiarezza e la freddezza delle sue logiche e dei suoi algoritmi.

Senza voler essere freudiani ma questa ansia di prestazione, a cui corrisponde un deficit prestazionale, non crede che possa dipendere da un’incapacità maschile ad adeguarsi sul piano della sessualità a un protagonismo femminile che le generazioni precedenti non conoscevano e che ora inibiscono il maschio?

Alla trasformazione epocale della donna non è corrisposta una reale trasformazione dell’uomo: questa riguarda gli ambiti elementari e decisivi della vita quotidiana, dalla gestione del tempo, la cura dei bambini e della casa, le professioni in cui le relazioni stanno al centro, che sono in larga maggioranza affidate alle donne. In molti paesi europei la metamorfosi del maschile appare tuttavia già in corso. In Italia non si riescono ancora a vedere grandi trasformazioni. La nuova presenza della donna, il riconoscimento del suo essere soggetto (non parlerei di protagonismo) produce nell’uomo ancora succube di un’ideologia muscolare — che è un uomo del passato, non del futuro — effetti sconvolgenti. La violenza contro le donne è purtroppo un segno drammatico di una mancata presa di coscienza, di una negazione della differenza, dell’intollerabilità della vulnerabilità e del fallimento, della paura dell’altro da sé.

Il piacere sessuale genera una dose di autostima che la donna ha acquisito riversandola anche nel suo ruolo sociale e che l’uomo viceversa sembra aver smarrito.

Sì, penso che l’accresciuto ruolo sociale della donna derivi anche da questa nuova consapevolezza di sé, che passa necessariamente anche attraverso una nuova percezione del proprio corpo. Il corpo della donna è stato il grande tabù non soltanto delle religioni ma anche della società e del pensiero occidentale, perché rappresenta ciò che non può essere del tutto compreso e dunque controllato, e dunque deve essere negato. Il riconoscimento di questo diritto al piacere è una parte insacrificabile del proprio essere soggetti: al contrario, si diventa oggetti del piacere dell’altro. Per secoli invece è prevalso il principio fallico della sessualità, con tutte le sue ricadute socioculturali. Tale principio si può tradurre non soltanto nel dominio reale dell’organo maschile, ma in tutto ciò che esso simbolizza: il principio di autorità, il primato della sostanza metafisica sulla relazione, il logocentrismo del pensiero occidentale, ossia il dominio del logos che si innalza al di sopra del pathos e che decide su tutti gli altri logoi. È il regime di un’idea di una verità che si impone, senza cercare né relazione, né dialogo.

Si riferisce anche alla verità religiosa?

Da una parte si afferma il modello di una teologia “dall’alto”, analitica e formalistica, immunizzata rispetto a ogni tipo di incursione nel pensiero della storia, del tempo e dell’esperienza, ossia dell’ambivalenza, ambiguità e opacità delle vicende umane. Dall’altra si impone la realtà indecifrabile, indefinibile e delocalizzata della sessualità femminile. Non c’è dubbio che la sessualità della donna sia una sessualità “non del tutto fallica”, per usare l’espressione di Jacques Lacan, ossia qualcosa che sfugge alla presa: indica qui che l’Altro in quanto Altro non è interamente dicibile, perché rifugge ogni simbolizzazione. Questo enigma della sessualità femminile che non si identifica in un organo ma che spazia, che non ha confini precisi, è vitale e cruciale, perché può riaprire tutto il discorso contemporaneo a una dimensione eterogenea, altra, che perturba la certezza delle idee chiare e distinte. Questo sovvertimento trasforma naturalmente il discorso teologico perché “isterizza” ogni fissazione dell’assoluto, ogni conoscenza di Dio, ogni rappresentazione oggettivante, sfida la nostra illusione di controllo e quindi la tendenza idolatrica insita nella teologia. “Ciò” che si cerca e si desidera non può infatti essere trovato in un oggetto, in un nome, in un linguaggio, ma solo tradotto in un linguaggio consapevole dei suoi limiti. Anche la riabilitazione contemporanea della mistica riguarda l’idea e l’esperienza di una verità che non si può dire senza scarti, che si deve al contrario dire con molti scarti, perché è una verità legata a un principio non fallico, un principio che considererei un principio evangelico. Il fatto che non ci sia una biografia del fondatore ma quattro versioni della vicenda di Gesù, che è una storia plurale piena di incontri ed enigmi, il fatto che Gesù parli in parabole, il fatto che la questione centrale del Vangelo sia l’annuncio del Regno proclamato in parabole magnifiche ma anche minime: tutto questo è qualcosa che sovverte qualsiasi tipo di logica logofallocentrica. Si tratta di una dinamica profonda in cui non ne va né dell’io né del tu, né del soggetto né dell’oggetto, perché al principio di tutto vi è la relazione: che è qualcosa di profondamente vitale, dinamico, persino oscillante. Romano Guardini parlerebbe di opposizione polare: non è né l’io, né appunto l’altro, ma è proprio una relazionalità, un principio di verità che accade all’interno di relazioni e deve essere sempre pensato all’interno di una dinamica relazionale. E per me è straordinario che, all’interno dei racconti evangelici, questo accada in modo sempre diverso, irriducibile a una formula. Questo è qualcosa che il discorso teologico fondamentalmente non tollera, perché rompe ogni logica di sistema.

Quali sfide lancia questo scenario enigmatico, fluido, contraddittorio, alla Chiesa, che pure è sostantivo femminile, come il Papa ricorda spesso?

Innanzitutto, secondo me, che la Chiesa sia un sostantivo femminile collide semplicemente con la realtà. Se si guardano i luoghi decisionali, vedo quasi soltanto uomini. La Chiesa come sostantivo femminile resta una svista grammaticale. Vedo però un tentativo di cattolicità, uno slancio di vera apertura, soprattutto di apertura sinodale in questo momento, o meglio un desiderio di tutto questo. Ho letto un bel libro che mi ha fatto molto pensare, di Danièle Hervieu-Léger, la più importante sociologa della religione francese, sulla crisi del cattolicesimo europeo: Vers l’implosion? Entretiens sur le présent et l’avenir du catholicisme. Come ha dichiarato anche Papa Francesco molte volte, occorre resistere alla tendenza all’autoreferenzialità, estendendo il principio della sinodalità, del cercare insieme, alle nostre relazioni con persone di altre religioni e con persone senza convinzioni religiose. Per il cristianesimo, questa autotrascendenza non è una perdita di identità ma la realizzazione del suo mistero centrale, ossia la trasformazione pasquale. Tuttavia questa coscienza anti-settaria, che a mio avviso è l’elemento più importante contro ogni ghettizzazione del cristianesimo, richiede un cambiamento sostanziale della mentalità cattolica, il ribaltamento di una sorta di perversione cattolica del religioso, che negli ultimi anni è emersa purtroppo anche nei suoi effetti più drammatici. Si tratta della necessità urgente e non più rinviabile di abolire il clericalismo. Hervieu-Léger parla dell’urgenza dell’abbattimento della “barriera clericale”. Perché è una barriera che impedisce sistemicamente la questione della democrazia, ossia dell’entrata dell’altro all’interno dell’istituzione. La Chiesa come sostantivo femminile è quella che accoglie le donne veramente e le rende soggetti attivi reali. La difficoltà del cattolicesimo contemporaneo a confrontarsi seriamente con la sfera pubblica, plurale e secolare, dipende da un sistema difensivo e clericale che tende a chiudersi in se stesso, per evitare di confrontarsi con l’altro. La “barriera clericale” che si nutre dell’autoreferenzialità e della sacralità di una lingua da iniziati, che cita esclusivamente la propria tradizione nei suoi documenti, impedisce il riconoscimento della vera alterità. Per oltrepassare questo muro è necessario sviluppare a mio parere uno stile cattolico che coltiva il gusto per le differenze e trasforma questo riconoscimento in un’alleanza culturale contro la violenza dell’intolleranza e del razzismo, che negano il diritto dell’altro a esistere nella sua alterità. La fraternità è anche — e forse essenzialmente — l’esperienza di una condivisione forzata, uno stato in cui si comprende di non essere tutto. I fratelli devono condividere l’affetto e le cure dei genitori, il tempo e lo spazio della casa, le risorse e le esperienze possibili in famiglia. L’esperienza della fratellanza presuppone quindi la consapevolezza dell’impossibilità di una totalizzazione. La presenza reale dell’altro è un segno della necessità della nostra auto-relativizzazione. Per stare insieme dobbiamo condividere una perdita di padronanza. Ciò significa che nessuno — nessuna Chiesa, nessun popolo, nessun padrone — può pretendere di avere l’ultima parola sulla verità e imporre la propria verità all’altro, escluderlo o addirittura perseguitarlo in nome della verità. Senza questo lavoro del lutto, ossia senza l’accettazione della perdita di qualcosa (della propria egemonia culturale o valoriale, a esempio), non si entra in un vero regime fraterno. In Fratelli tutti Papa Francesco lo esprime con molta nettezza: «Questo patto richiede anche di accettare la possibilità di cedere qualcosa per il bene comune. Nessuno potrà possedere tutta la verità, né soddisfare la totalità dei propri desideri, perché questa pretesa porterebbe a voler distruggere l’altro negando i suoi diritti» (221). Ciò significa, soprattutto, che la cattolicità come superamento dei confini rappresenta un’istanza assolutamente critica che combatte quella che chiamerei la riluttanza pluralistica della Chiesa, cioè la sua convinzione di possedere la chiave ultima ed esclusiva non solo della salvezza nell’aldilà ma anche del modello di una vita piena. Tale riconoscimento della pluralità permetterebbe di comunicare vicinanza e riconoscimento a coloro che sono ancora dentro questo grande mondo che è la Chiesa, ma che rifiutano ogni ideologia clericale della separazione. Cioè i tanti credenti non veramente praticanti che in realtà sentono ancora un legame con la comunità cristiana e il Vangelo, che però non riescono più a identificarsi con le insegne regali del cristianesimo. Qui vedo il rischio di perdere la potenza eucaristica dell’identità ma anche la possibilità di recuperare nuove forme di comunità, all’interno di una costellazione “poliedrica” di accoglienza ecclesiale.

All’opposto ci disse padre Elmar Salmann: «Io mi sono fatto monaco per seguire una regola di vita non per entrare in una comunità. Se devo stare in comunità, ci sono persone più simpatiche dei monaci, vado al bar o in trattoria».

Eh sì, ma questa forma di comunità amichevole, che si genera attorno a un tavolo, è il mondo di ieri. In molte ricerche sociologiche intersezionali, la vera questione del tempo presente, almeno in Europa, è la solitudine del cittadino globale. Oggi non è il bar o la trattoria ma la dimensione onlife, come direbbe Luciano Floridi (perché non siamo ormai più offline), a rispondere a questa “voglia di comunità” (per citare un secondo libro di Zygmunt Bauman) e al desiderio di relazione. I pochi che entrano oggi in un monastero è perché respirano la possibilità della comunità oggi. Padre Salmann è una persona, “una presenza di spirito” per citare un suo libro, che ha una vita solitaria, ma in compagnia di Dante. Il suo essere monachos è pieno di vita, è pieno di vite e di amici.

Il suo accenno alle “insegne regali” fa venire in mente la frase di Papa Francesco quando all’inizio del suo pontificato disse: «Voglio una Chiesa povera per i poveri». Proviamo a leggerla non solo come dato socio-economico ma come una Chiesa non regale, trionfalistica, aperta a tutti quei “poveri” credenti che magari non sono più praticanti e stanno un po’ in mezzo al guado. Potrebbero rientrare anche loro nel sogno profetico di Francesco?

Ci sono naturalmente diversi metodi teologici, molti modi per fare teologia oggi del tutto legittimi, che si compensano reciprocamente. Una delle sfide a mio parere più decisive è la responsabilità “umanistica” della teologia, ma anche della filosofia, oggi. Ossia quella di dare un contributo a quella che Bernard Stiegler ha definito la “miseria simbolica” del presente. Non è una questione di insegne ma di una sete più o meno espressa di orizzonti di comprensione, linguaggi non esoterici, di parole piene che facciano breccia.

Questo apre il discorso sulla teologia sacramentale. È in crisi anch’essa come l’antropologia teologica?

Certamente, su questo sono molto d’accordo con Sequeri. Perché ha a che fare con quella povertà che dicevamo prima. Penso all’ossimoro del sacramento nella sua dimensione minimale, e insieme massimamente simbolica. Acqua, olio, pane e vino sono realtà della vita quotidiana, che diventano segno della presenza efficace del divino. Il minimalismo di questi segni rinvia all’evento dell’assoluto, come ci insegna la predicazione con le sue immagini del Regno. La liturgia è ciò che sa trasformare realtà minimali in eventi (anche esteticamente) straordinari, precisamente grazie al suo minimalismo. I segni sacramentali diventano elementi di una soglia tra il quotidiano e il non quotidiano, mostrando che il “non quotidiano” può accadere soltanto così, ossia attraverso il pane, la voce, le mani, l’acqua, il libro. Occorre togliere le insegne regali anche alla liturgia, renderla di nuovo il luogo minimale in cui il sacro di nuovo trova casa.

L’esortazione apostolica Evangelii gaudium ha compiuto dieci anni e siamo nel mezzo di un processo sinodale avviato da Papa Francesco con slancio tenace: sono questi segni sufficienti di speranza, di apertura? Il Concilio Vaticano ii di fatto cambiò la Chiesa ma poi anche il mondo.

Sono segni di grande speranza, che devono tuttavia farsi ancora storia. Io lavoro nel mondo tedesco e conosco bene le tensioni emerse nel cammino sinodale in Germania. L’esperienza religiosa e anche teologica qui ha una storia propria, che non si può paragonare facilmente con molte altre tradizioni cattoliche: un dialogo secolare e quotidiano non soltanto con la teologia protestante ma anche con l’islam, la società secolare e l’eredità della Germania dell’Est. Credo che l’idea — o la profezia — di una Chiesa poliedrica significhi anche dare cittadinanza alle differenze, soprattutto quando sono elementi necessari per quella che Francesco chiama la “costruzione artigianale” di un popolo. Oltre un ideale identitario asfittico, un «cristianesimo monoculturale e monocorde» (117) e una «rigidità autodifensiva» (45), spesso «rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (49), Evangelii gaudium ci invita a «superare il sospetto, la sfiducia permanente, la paura di essere invasi, gli atteggiamenti difensivi che il mondo attuale ci impone» (88). È un invito a superare la barriera clericale e forse anche a incontrare la donna con un nuovo spirito di amicizia.

di Andrea Monda
e Roberto Cetera