A Gaza

«Tutto chiede salvezza. Davanti alla tragedia che ho visto nei feriti e nei malati di Gaza continuava a venirmi in mente questo titolo del libro di Daniele Mencarelli». Inizia così la testimonianza a «L’Osservatore Romano» di Alberto Reggiori, chirurgo d’urgenza originario di Varese, che per 17 giorni è stato sulla nave ospedale della Marina militare italiana “Vulcano”, ormeggiata al largo delle coste di Rafah, il valico che divide la Striscia dall’Egitto. L’unico punto da cui riescono a uscire le persone in cerca di assistenza medica.
«Adesso sono rientrato, ma in quei giorni ho visto di tutto — dice —: pazienti con ferite “vecchie” anche di due settimane, come un ragazzo di 15 anni, rimasto senza mamma e fratelli, con la gamba sinistra amputata chissà in quale ospedale, il cui moncone non era stato chiuso, e noi vi abbiamo dovuto provvedere, aiutandolo anche nei momenti in cui veniva colto da terribili attacchi di panico; altri con ustioni gravi o lacerazioni ancora aperte che si stavano infettando; madri con figli piccoli e malnutriti che cercavano aiuto in attesa di poter essere evacuate in Qatar, lasciando indietro mariti che nel frattempo avevano perso gran parte dei propri parenti sotto i bombardamenti».
Storie tragiche che finiscono per assomigliarsi. «Sì, per questo, lì con gli altri medici e infermieri non abbiamo solo svolto operazioni chirurgiche, come mi sarei aspettato, ma anche supporto psicologico. Soprattutto grazie al contributo dei mediatori dell’esercito italiano e del personale di Doha, presente sulla nave, abbiamo potuto conoscere i drammi e le vite di chi è riuscito a fuggire e ora spera di costruirsi una nuova vita in un altro Paese (la quasi totalità in particolare in Qatar, altri negli Emirati Arabi Uniti). Ho, e abbiamo, toccato con mano il dolore e compreso da vicino fino a dove può portare l’abisso del cuore dell’uomo».
Ne rimane colpito anche chi ha una lunga esperienza sul campo. «Ho passato dieci anni in Uganda con la mia famiglia, e quasi ogni anno ho poi svolto missioni in diversi contesti di crisi, come Haiti, Rwanda, Bosnia, collaborando con la ong Avsi», racconta Reggiori. «Eppure, alla guerra non ci si abitua mai. Si può solo sperimentare la propria impotenza. Restare di fronte al male, comprendendo che da soli non possiamo farcela. Il che non significa rimanere inermi, al contrario. Vuol dire scoprirsi consapevoli che l’unica soluzione è affidarsi, e impegnarsi, ciascuno mettendo la propria goccia nel mare: io posso dare uno, chi può dare mille, dia mille. In questo senso “tutto chiede salvezza”: se non credessimo nella salvezza, che per chi ha fede viene solo da Dio, tutto sarebbe un inutile e grande disastro».
La “Vulcano”, varata come nave ospedale nel 2021, è salpata da Al-Arish, in Egitto, il 31 gennaio alla volta dell’Italia con a bordo 20 bambini feriti più i rispettivi accompagnatori. Arriverà nel porto di La Spezia domenica 4 febbraio, i piccoli saranno poi destinati in diversi centri pediatrici (tra cui il Meyer di Firenze e il Gaslini di Genova), come parte dell’accordo raggiunto qualche giorno fa tra Roma e le autorità egiziane, israeliane e palestinesi, che ha già portato in territorio italiano i primi 11 minori nella notte di lunedì attraverso un volo speciale. «La nave è però rimasta ormeggiata nel Mediterraneo per diverse settimane. La Fondazione Rava di Milano ha gestito il personale medico, facendo turnare gruppi di cinque specialisti ogni due settimane».
Un’attività resasi necessaria per il collasso del sistema sanitario di Gaza, dove solo 15 dei 36 ospedali risultano ancora parzialmente funzionanti. «L’imbarcazione è una struttura militare: lo stare insieme è regolato da modi e tempi precisi (i pasti sempre alla stessa ora, il briefing mattutino per la distribuzione degli incarichi), ma si tratta comunque di un ospedale quasi a tutti gli effetti. I posti letto a bordo sono 24, più altri spazi utili che possono essere messi a disposizione al bisogno, la sala operatoria è moderna e attrezzata con tutti i macchinari e le strumentazioni adatte anche per la chirurgia d’urgenza», spiega ancora Reggiori.
Inutile persino chiedersi in queste situazioni di guerra atroce dove stia la ragione e dove il torto. «Essere dalla parte della vita vuol dire intervenire sempre e comunque. Risponde alla nostra umanità, non c’è altro da dire».
di Roberto Paglialonga