· Città del Vaticano ·

Per una cultura dell’incontro

 Per una cultura dell’incontro  QUO-027
02 febbraio 2024

«Non ritengo tuttavia la mia vita meritevole di nulla, purché conduca a termine la mia corsa e il servizio che mi fu affidato dal Signore Gesù, di rendere testimonianza al messaggio della grazia di Dio» (Atti 20, 24).

Essere cristiani in un Paese non cristiano rappresenta una sfida ed al contempo una benedizione, sebbene sia triste essere considerati una minoranza nonostante siamo il popolo originario di questa terra. Essere sempre meno numerosi a causa delle continue guerre, del terrorismo, dei disordini politici, del settarismo e delle persecuzioni non significa essere una minoranza etnica. In qualità di docente di letteratura presso il dipartimento di inglese del College of arts dell’Università di Baghdad, ho la possibilità di dedicarmi a questa benedizione e di essere strumento di amore nella mia società e per le giovani generazioni irachene, tra le quali raramente si trovano cristiani.

Un’ulteriore benedizione che Dio mi ha concesso è che sono l’unica cristiana nella mia facoltà universitaria, nel cui ambito ho la possibilità di vivere la mia fede in armonia con l’estetica della poesia che insegno ai miei studenti. Insieme, fede e poesia danno vita ad una poetica dell’amore che diffonde la bellezza, sonda la vita umana, abbraccia i misteri dell’ecologia, costruisce prospettive e modifica direzioni. Questo è lo strumento del quale mi avvalgo per fare la differenza in un Paese in cui ho scelto di rimanere a vivere anche quando tutta la mia famiglia ha deciso di partire per costruirsi una vita migliore all’estero. Mi sono sempre sentita profondamente legata alla mia terra, anche quando abbiamo vissuto il calvario degli otto anni di guerra tra Iraq ed Iran e poi la guerra del Golfo; dicevo sempre a mio padre: «Se un solo iracheno resterà nel Paese, io resterò con lui».

Mi sono così resa conto che una vita del genere doveva seguire una strada diversa, meno battuta, meno frequentata. Non c’è da stupirsi se, quando mi sono imbattuta in un opuscolo sulla verginità consacrata grazie ad un’amica che frequenta la mia stessa chiesa, mi sono detta: «Fa davvero per me». Ho capito che la vera fede, come l’oro, deve superare la prova del fuoco, affrontare difficoltà, persino persecuzioni, per dimostrare la sua potenza come strumento di amore, in grado di costruire pace e distruggere barriere. Diventata vergine consacrata nel 2008 in occasione della festa della Madre di Dio, la mia vita ha ricevuto molteplici benedizioni e allo stesso tempo raccolto ulteriori sfide, sia personali sia sociali: una famiglia che non capisce il significato della mia vocazione, una Chiesa orientale che non comprende lo stile di vita dell’Ordo virginum, una società orientale che rifiuta le donne sole, a meno che non siano vedove o zitelle.

Tuttavia, era la sua volontà che io diventassi «Ecclesiae Sponsae Imago», un dono nella Chiesa che santifica il mondo dall’interno, cuore orante della Chiesa in mezzo alla mondanità, esistenza di un’altra Maria nella sua maternità spirituale che abbraccia teneramente il cuore delle persone sole, dei poveri e degli ammalati, in modo nascosto, senza il segno evidente di un abito o di un qualsiasi tratto esteriore, solo nell’essere la sposa di Cristo, la sua Agape, incarnazione del suo amore. Dal 2003, giocare a nascondino con esplosioni, bombe, attacchi terroristici, missili, ecc. non ha impedito a me e alle altre cinque vergini consacrate del mio Paese di cogliere l’opportunità di amare, servire e lavorare ciascuna in base al proprio dono. È stato o è difficile? Sì. È stato o è impossibile? No, perché «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Filippesi 4, 13), ora e sempre.

Ogni qualvolta i cristiani non vengono fatti sentire una minoranza dai rispettivi Paesi, nonostante la loro ridotta presenza in Medio Oriente, ed ogni qualvolta vengono trattati come le vere popolazioni originarie del Paese, non solo proferendo tali parole davanti a loro a guisa di vuota forma di cortesia, è possibile ristabilire quella giustizia sociale in grado di unire cristiani e musulmani nei loro diritti e doveri. Tuttavia, credo che, in virtù del diritto di cittadinanza e della mia fede, ho la responsabilità — in quanto sposa di Cristo che cerca di essere la voce della saggezza per i miei concittadini, sia cristiani sia musulmani — di dare vita ad una cultura dell’incontro, di costruire ponti anziché muri, di promuovere non una cultura di mera tolleranza, ma una cultura di amore ed armonia.

di Anan Alkass Yousif
Consacrata dell’Ordo virginum, docente di letteratura presso il dipartimento di inglese del College of Arts dell’Università di Baghdad