· Città del Vaticano ·

Andare a mani vuote e avvicinarsi chiedendo: «È permesso?»

 Andare a mani vuote e avvicinarsi chiedendo: «È permesso?»  ODS-018
03 febbraio 2024

Al calar della sera Roma diventa un’altra città: il traffico caotico diventa un ricordo, le vetrine del negozio dove fino a poco prima entravano e uscivano numerose persone presentano solo un ammasso di cartoni e coperte, così come le panchine del parchetto vicino casa, che vengono occupate più che di giorno; anche gli ingressi delle chiese, che magari racchiudono tesori d’arte, si popolano di persone che trascinano tutti i “loro averi” in buste e carrelli, accompagnati solo dai fantasmi di travagliati vissuti familiari, di malattie, di perdite di lavoro o di dipendenze.

È proprio a queste persone che il Servizio Itinerante della Caritas si rivolge: andare dai tanti che, di fronte alle difficoltà della vita, per mancanza di una rete di supporto sia familiare che istituzionale non hanno avuto altra alternativa che finire per strada.

La mia esperienza di volontario comincia qualche anno fa quando, dopo anni di servizio nell’ostello di Via Marsala, mi è stato proposto di intraprendere questa nuova avventura: andare nelle strade dove abito, lavoro o semplicemente ho fatto una passeggiata per offrire la mia presenza e la mia disponibilità ad accorgermi di chi è ormai abituato a non “essere visto” ed essere disposto a parlargli: in poche parole dimostrare loro che per me “contano”.

La particolarità di questo servizio è l’andare a “mani vuote”, anche se ogni équipe ha sempre generi di conforto come coperte e sacchi a pelo, offrendo soltanto la disponibilità a costruire una relazione, ritornando più volte e cercando ogni volta di mettere un nuovo tassello per creare un clima di fiducia e di intimità, allo scopo di far riacquisire all’altro la consapevolezza della propria vita. Vi assicuro che non c’è niente di più inclusivo e solidale che dialogare su tutto, dalle esperienze personali al calcio, dalla politica ai viaggi, seduti insieme sul marciapiede magari fumando una sigaretta.

Certo, non voglio far passare il messaggio che instaurare una relazione sia facile, sia per le condizioni oggettive, sia anche per il guscio di diffidenza e sfiducia con cui coloro che vivono in strada si proteggono dalle violenze, dai rifiuti, dalla mancanza dell’essenziale e dal non essere più titolari di diritti: ci vuole un giusto mix di speranza e perseveranza, senza mai essere troppo invadenti perché il rapporto è un cammino lungo e lastricato di difficoltà, con passi avanti e improvvise retromarce, che a volte rendono impensabile qualsiasi possibilità di continuare.

Per esemplificare quanto detto, condivido l’esperienza vissuta con M., un francese senza documenti e in là con gli anni, che si raccontava come operatore sanitario: si era sistemato vicino ad una chiesa in via Gregorio vii , con tutte le sue buste e i suoi cartoni. Una parte del quartiere lo aveva adottato, non facendogli mai mancare sia la “monetina”, che purtroppo lui destinava all’alcol, ma anche cibo — noi stessi siamo stati testimoni di un ragazzo arrivato per portargli una ciotola di zuppa di verdure calda preparata dalla mamma — e cercando di avere con lui un minimo di rapporto. Ogni settimana passavamo per salutarlo, per chiacchierare un po’ offrendogli ogni volta la possibilità di essere accolto in ostello, proposta da lui sempre rifiutata con fermezza: gli piaceva raccontarci del suo passato lavorativo in ospedali africani e anche di sua moglie e delle sue due figlie, senza però mai chiarire le cause della rottura del rapporto.

Una volta, ormai erano almeno tre anni che settimanalmente andavamo, ci mandò via con parole più taglienti di una lama: «Non ho bisogno di niente! Neanche del vostro saluto!». Sembrava essere tutto crollato, con la cocente delusione di un rapporto impossibile da recuperare: invece non ci siamo scoraggiati e già dalla settimana successiva abbiamo ricominciato a visitarlo, riallacciando quel rapporto che poi ci ha permesso di conseguire quello che mi piace considerare un grosso successo: M. quella sera era stato fatto oggetto del lancio di uova che aveva ulteriormente aggravato la sua situazione igienica. Allora decidemmo con il suo accordo di cambiare i cartoni e le coperte che erano la sua “casa”, oltre a gettare le cose ormai inutilizzabili che aveva accumulato: è stato come andare a casa di un amico e mettere le mani nelle sue cose, nei suoi cassetti, come è possibile solo se tra noi c’è un’intimità, una relazione profonda.

Mi piace condividere due frasi di don Luigi Di Liegro che per me sono state lo stimolo per il mio impegno nel volontariato: «I nostri spiriti ottusi hanno fatto dell’aiuto ai poveri una sorta di dovere moralizzante che consiste nel “fare la carità”, nell’essere solidali. Ma la solidarietà, come la carità, sono un’altra cosa. Prima di essere un dovere, sono uno stato di fatto, una constatazione. Significa sentirsi legati a qualcuno, condividere la sua sorte, mettersi nei suoi panni, compatire, cioè “patire con”».

«Ecco: stare attenti significa sporcarsi le mani dentro questa storia. Significa non privilegiare le oasi di pace, ma privilegiare invece i luoghi forti perché provocatori di solidarietà e di interventi radicali da parte nostra».

di Massimo Diociaiuti