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DONNE CHIESA MONDO

Storie
Reina Zelaya Díaz tra i poveri del Salvador

Nel solco di Romero

 Nel solco  di Romero  DCM-002
03 febbraio 2024

La sera del 29 novembre 1994, suor Reina Angélica Zelaya Díaz aveva terminato di cucire l’abito che, il giorno dopo, avrebbe indossato per uscire dalla congregazione in cui aveva trascorso gli ultimi undici anni: Poor sisters of Saint Joseph. L’aveva confezionato con i vestiti raccolti per i poveri, al collo la croce donata ai pellegrini che avevano partecipato alla Giornata mondiale della gioventù di Denver. Ormai era decisa: avrebbe lasciato gli Stati Uniti per tornare nel suo Paese, il Salvador, dove sentiva di essere chiamata a una nuova missione. D’un tratto, però, le sue certezze sembrarono sgretolarsi. L’arcivescovo di San Salvador, Arturo Rivera Damas, che aveva accettato di accoglierla e di aiutarla a dare vita al nuovo istituto, era morto d’improvviso. Quando una giovane consorella le diede la notizia, a suor Reina si mozzò il fiato. A chi si sarebbe rivolta ora? Su chi avrebbe potuto contare per orientarsi in una nazione che aveva lasciato a 18 anni nel pieno della guerra civile e in cui non aveva più né famiglia né amici? In quel momento, l’occasione di tornare indietro le arrivò per bocca della madre superiora. «Reina, e se fosse un segno? Se Dio volesse dirti che ti stai sbagliando?». Quante altre volte Reina si sarebbe posta la stessa domanda negli anni successivi. In quante occasioni avrebbe dovuto «frugarsi dentro» per capire se davvero era giusto assecondare la spinta ad andare avanti, che le agitava le viscere. Per vincere la voglia di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Per riconoscere se il desiderio che sentiva con forza era davvero un’ispirazione dello Spirito. «Signore, che cosa vuoi da me?». In quante circostanze se lo sarebbe chiesto.

«E ancora me lo domando. Sento di dove scoprire ancora molto della sua volontà nei miei confronti», racconta la fondatrice delle Serve della misericordia di Dio, congregazione salvadoregna diffusa anche in Argentina e Honduras, di cui fanno parte 46 religione di meno di cinquant’anni. Reina non l’avrebbe mai immaginato quella sera quando decise di seguire comunque la voce che da tempo le sussurrava: «Ho una missione speciale per te».

«A lungo ho cercato di metterla a tacere. Di non farci caso. Ricordo un sogno. Ero a Sesori, vicino a San Miguel, nel Salvador dove sono cresciuta. D’un tratto vedevo la facciata della chiesa. E una voce mi diceva: Reina, ripara la mia chiesa», dice.

Il suo significato, aggiunge questa donna di grande fede, le si sarebbe chiarito molto dopo. Quando, il 2 dicembre 1992, nel convento delle Poor sisters of Saint Joseph di Bethlehem in Pennsylvania, dopo aver scoperto casualmente un libretto sulla Divina Misericordia, mentre recitava la preghiera della Coroncina, si era - sottolinea - arresa: «Signore, ho capito che vuoi qualcosa di diverso da me. Cercherò di comprendere cosa». «Quel giorno parlai con la madre e d’accordo con lei, iniziai un processo di discernimento. Ci misi due anni per trovare il coraggio. Non volevo lasciare le consorelle. Mi sembrava un tradimento». Le fu di ispirazione la forza di monsignor Óscar Romero, arcivescovo di San Salvador ucciso da un sicario nel 1980 mentre celebrava la messa, suo concittadino e amico dei suoi genitori, oggi santo proclamato da Papa Francesco. «Continua ad esserlo. Poco a poco mi si chiarì quanto Dio mi stava chiedendo: creare una congregazione che fosse strumento della sua misericordia fra i più poveri, camminando al loro fianco, andandoli a cercare là dove si trovavano».

Il 30 novembre 1994, Reina arrivò a San Salvador con un abito autoprodotto e un assegno che non riusciva a cambiare. «Fu duro. Molto duro. Non ero più una sorella di San Giuseppe né avevo creato una nuova congregazione. Non avevo soldi, né casa, né appoggi. Per fortuna, le francescane e le carmelitane mi diedero ospitalità i primi tempi. Ma dovevo trovare una sistemazione. Parlai con il nuovo arcivescovo, monsignor José Luis Escobar Alas, per chiedergli consiglio e una lettera per vivere all’interno di una comunità religiosa. Ma lui mi incitò a fare quello per cui ero venuta: camminare fra i poveri e, così, cominciai. Il 29 giugno mi trasferii in un pollaio prestatomi da una famiglia di Planes de renderos, una delle zone più umili di San Salvador. Di giorno andavo a visitare i malati negli ospedali, stavo con loro, facevo loro compagnia. E mi recavo nei mercati, il luogo più popolare, perché, come insegna Santa Teresa d’Ávila, “Dio sta fra le pentole”. Dopo i primi mesi di solitudine arrivarono le prime ragazze: così nacquero le Serve della Divina misericordia di Dio anche se avremmo dovuto attendere ancora prima di fondare la comunità. Intanto, mangiavamo il dollaro di pane che ci regalava una rivendita e camminavamo tanto perché non potevamo permetterci di pagare il trasporto. Nel pollaio, ovviamente, non c’era il bagno così ci lavavamo alla fontana prima che sorgesse il sole per non essere viste. L’acqua era gelida ma ricordo quanto era bello ritrovarci insieme sotto un manto di stelle. Alla loro luce si scioglievano i miei dubbi: era quello il mio posto».

di Lucia Capuzzi
Giornalista «Avvenire»

#sistersproject