· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Per contrastare il banditismo per mare bisogna soprattutto incrementare la lotta alla povertà

Riflessioni
sulla pirateria africana

 Riflessioni sulla pirateria africana   QUO-021
26 gennaio 2024

La pirateria è un fenomeno che ancora oggi penalizza fortemente i traffici marittimi attorno al vasto continente africano. Ma per poterne comprendere la portata occorre prima riflettere sui numeri riguardanti queste attività criminali a livello mondiale. Nel 2023, l’International Maritime Bureau (Imb) dell’International Chamber of Commerce ha registrato complessivamente, nei mari del nostro pianeta, 120 atti di pirateria rispetto ai 115 nell’anno precedente. Il rapporto annuale dell’Imb precisa poi che lo scorso anno le navi abbordate sono state 105 rispetto alle 107 nel 2022, quelle oggetto di tentato attacco 9 (5 nel 2022), mentre 4 navi sono state sequestrate (2 nel 2022) e 2 sono state bersagliate da colpi d’arma da fuoco (una nel 2022). L’Imb ha anche evidenziato che, nonostante il numero degli atti di violenza nei confronti dei membri degli equipaggi delle navi sia tra i più bassi degli ultimi tre decenni, i rischi per i marittimi rimangono elevati con 73 persone prese in ostaggio, 14 rapite, 10 minacciate, 4 ferite e una aggredita. Particolarmente grave è la situazione nei mari africani, soprattutto nel Golfo di Guinea.

Sempre secondo la stessa fonte, proprio qui nel 2023 gli atti di pirateria sono stati 22 (19 nel 2022). Inoltre 3 dei 4 dirottamenti segnalati a livello globale, oltre a tutti i 14 rapimenti dei membri d’equipaggio registrati nel 2023, sono avvenuti in queste acque.

Circa il 90 per cento dell’import-export dell’Africa Occidentale (prodotti vari e materie prime) transita attraverso il Golfo di Guinea, dove migliaia di cargo navigano ogni anno trasportando merci di tutti i tipi, soprattutto greggio e gas naturale estratti nel Delta del Niger. Da questo hub partono le rotte più importanti al mondo per il trasporto destinato alle raffinerie europee e statunitensi. Occorre comunque precisare che gli obiettivi della pirateria in questo settore geografico dell’Oceano Atlantico hanno subito un’evoluzione nel corso degli anni. Se inizialmente gli attacchi vedevano coinvolte navi e installazioni del settore oil & gas, la cosiddetta petro-piracy, nelle acque antistanti la costa nigeriana, dal 2010 si è progressivamente affermata sia la pratica del rapimento dei marittimi a scopo di estorsione, come anche il furto dei carichi a bordo dei natanti. Inoltre, si è passati dalle azioni banditesche all’arrembaggio delle navi in prossimità delle coste nigeriane ad attacchi ben oltre le 200 miglia nautiche dalla costa, interessando anche sempre più spesso le acque internazionali e dei Paesi limitrofi.

Non v’è dubbio che la recrudescenza della pirateria è dovuta alla mancanza di sorveglianza delle acque prospicienti le coste da parte di taluni Stati costieri che non riescono a mantenere efficacemente l’ordine nel proprio territorio e quindi non impediscono atti di banditismo in mare. Da questo punto di vista, il contrasto alla pirateria marittima rappresenta la funzione più rilevante, ai fini del mantenimento del libero uso del mare, che il diritto internazionale, come riflesso nella Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del mare (Unclos), assegna alle navi da guerra di qualsiasi bandiera. Dopo la messa al bando nel 1856 della cosiddetta “guerra di corsa” — praticata da equipaggi mercantili armati da privati, muniti di un’apposita autorizzazione formale, detta “lettera di corsa” che autorizzava ad assalire e rapinare le navi mercantili delle nazioni nemiche in cambio della cessione allo stesso di parte dei guadagni conseguiti — l’uso della forza in mare in contesti non bellici è diventata una prerogativa demandata esclusivamente agli Stati attraverso le navi da guerra, espressione nell’alto mare della loro sovranità.

D’altronde la pirateria in quanto tale, dal punto di vista economico, è un’attività criminale, in molti casi particolarmente violenta, che pregiudica il normale svolgimento degli scambi di beni e merci, interrompendo la catena produttiva e commerciale internazionale, aggravando i costi e danneggiando conseguentemente l’economia globale.

A questo proposito è illuminante l’articolo 101 della suddetta Convenzione Onu sul Diritto del mare che definisce la pirateria come atto di violenza, sequestro o rapina commesso dall’equipaggio o dai passeggeri di una nave contro un’altra nave in alto mare per «fini privati». Essa può includere il contrabbando di merci illecite, di droghe e armi; la pesca illegale, il furto di carburante, il traffico di esseri umani e altro ancora. È comunque evidente che il bacino sociale a cui attinge la pirateria presente nel Golfo di Guinea è quello delle regioni costiere della sponda occidentale del continente pesantemente segnate dalla miseria. Sintomatico è il fatto che molti di questi predoni dei mari provengano dal Delta del Niger, un’area geografica ricca di idrocarburi, ma dove le trivellazioni operate dalle compagnie petrolifere hanno contaminato la terra e le riserve di acqua potabile, distrutto la fauna ittica, inquinato l’ecosistema e contribuito all’emarginazione socio-economica di vasti settori della popolazione.

Com’è noto, il fenomeno di cui stiamo parlando ha interessato anche l’altro versante del continente africano, le acque antistanti la Somalia, quelle dell’Oceano Indiano. Un business che secondo le stime della Banca mondiale fruttò ai bucanieri somali, a cavallo tra il 2005 e il 2012, oltre 400 milioni di dollari. Ben più grave fu il danno causato all’economia mondiale costato circa 18 miliardi di dollari all’anno. Basti pensare che nel solo 2011 la pirateria operò 212 attacchi in un quadrilatero geografico che comprende la costa somala, il mare aperto dell’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Golfo di Aden. Le missioni navali antipirateria intraprese dalle flotte internazionali dispiegate in quello scacchiere (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina, Italia ...) e le misure di auto-protezione adottate dagli armatori faticarono non poco a contrastare le incursioni dei pirati perpetrate a bordo di pescherecci, motoscafi o lance a motore e altre imbarcazioni. Con il tempo però queste missioni portarono i loro frutti. Il fenomeno banditesco, infatti, si è poi gradualmente ridotto con il risultato che il numero di attacchi è sceso a 10 nel 2012 e solo due navi hanno subito il dirottamento tra il 2013 e il 2023.

L’ultimo episodio in ordine cronologico risale al 26 novembre scorso quando una nave cisterna chimica Central Park, carica di acido solforico, battente bandiera liberiana e appartenente al gruppo Zodiac Maritime di proprietà dell’israeliano Eyal Ofer, è stata sequestrata al largo delle coste dello Yemen. Il segnale di soccorso lanciato dal comandante della nave è stato raccolto dal cacciatorpediniere Uss Mason che si è avvicinato intimando agli aggressori di rilasciare la petroliera. Poco dopo, cinque persone armate sono sbarcate dalla nave e hanno tentato di fuggire con la loro piccola imbarcazione, ma sono poi state inseguite e indotte ad arrendersi. Successivamente, il portavoce del Pentagono, Pat Ryder, durante un briefing con i giornalisti ha riferito che il sequestro della nave cisterna Central Park è stato commesso da 5 cittadini somali.

Al di là di questo episodio recentissimo, comunque la situazione nel Corno d’Africa è decisamente migliorata. Secondo Peter Viggo Jakobsen, professore associato del Royal Denmark Defense College, è stato «l’elevato grado di condivisione degli interessi tra i numerosi attori coinvolti a rendere la campagna antipirateria della Somalia così efficace». Sempre secondo lo studioso danese, «il caso della Somalia è importante perché è una delle poche storie di successo degli ultimi anni in cui l’uso limitato della forza ha contribuito a un risultato sostenibile. Inoltre, i pirati somali sono stati fermati anche se le condizioni a terra in Somalia non sono migliorate in alcun modo».

Nel confronto tra le due aree fino a ora analizzate, vanno certamente evidenziate le diverse dinamiche sul piano delle iniziative messe in atto dalle organizzazioni internazionali e regionali interessate. Nell’Oceano Indiano, negli anni, si sono realizzate iniziative coese e coordinate; in primo luogo, come all’ inizio ricordato, sono intervenute le Nazioni Unite con specifiche risoluzioni, cui sono seguite numerose iniziative, soprattutto a livello Nato e Ue, con operazioni e missioni civili-militari che hanno contribuito positivamente al contrasto alla pirateria. Per il Golfo di Guinea, invece, seppure vi siano state iniziative di vario genere, esse non hanno ancora dato i risultati sperati. L’Unione europea, ad esempio, nel 2021 ha lanciato il Coordinated Maritime Presences Concept per il Golfo di Guinea e al contempo varie marinerie, come quella italiana, hanno svolto operazioni di sorveglianza. Ma occorre fare molto di più, occorre soprattutto incrementare e agevolare al massimo i rapporti di collaborazione e di cooperazione tra le flotte internazionali e le forze di sicurezza locali. Ma soprattutto incrementare gli sforzi nella lotta contro la povertà che attanaglia la macroregione dell’Africa Occidentale e alimenta il banditismo per mare e per terra.

di Giulio Albanese