· Città del Vaticano ·

Lo Stato indiano lacerato da tempo da violenze interetniche

Le ferite profonde
del Manipur

 Le ferite profonde  del Manipur   QUO-021
26 gennaio 2024

La riconciliazione è molto più di una pacificazione apparente o di un periodo di tregua. Con questa consapevolezza il governo e le Chiese cristiane nel tormentato Stato di Manipur, nell’India nordorientale, si stanno impegnando per riportare un clima di serena convivenza nella società lacerata dalla violenza interetnica, divampata all'inizio di maggio dello scorso anno, e apportatrice di ferite profonde.

Il primo ministro del Manipur, Nongthombam Biren Singh, ha presieduto nei giorni scorsi un incontro con i rappresentanti di dieci partiti politici per affrontare la situazione: «Abbiamo avviato discussioni costruttive, che riflettono un impegno comune a lavorare per il benessere del nostro Stato», ha affermato Singh, ribadendo l’obiettivo di «proteggere la vita e le proprietà delle persone» e di voler provvedere, anche con l’aiuto del governo federale, ai circa 60.000 sfollati, mentre i momenti di tensione non sono del tutto sedati nel territorio e tra i gruppi in conflitto sono state create delle “zone cuscinetto” presidiate dai militari, per separare i contendenti.

Se il governo statale ha iniziato a pensare e predisporre i primi informali colloqui di pace, non manca il contributo “dal basso” delle comunità cristiane. Il medesimo impegno per la riconciliazione, infatti, anima le Chiese in uno Stato dove i fedeli sono circa il 40 per cento della popolazione. Dopo aver trascorso il Natale dedicandosi all’aiuto agli sfollati e alle famiglie delle vittime (oltre 180 in oltre tre mesi di scontri interetnici), ora i cristiani sono riusciti a dare degna sepoltura a 87 membri delle comunità etniche Kuki e Zo.

Nello Stato del Manipur, area di valli fertili e colline rigogliose al confine con il Myanmar, con circa tre milioni di abitanti, la normale vita economica e sociale è stata e resta sconvolta come da una tempesta. E, se negli ultimi mesi gli scontri sembrano essersi placati, la militarizzazione del territorio resta in atto e, soprattutto, restano irrisolti i nodi alla radice del conflitto.

La violenza è scoppiata il 3 maggio dopo la “Marcia di solidarietà tribale” organizzata per protestare contro la richiesta della comunità Meitei di ottenere lo status di “Scheduled Tribe”, ovvero “Tribù riconosciuta”, il che consente loro di avere le prerogative riservate ai gruppi indigeni. I Meitei costituiscono circa il 53 per cento della popolazione del Manipur e sono insediati principalmente nella valle di Imphal, la capitale; gli altri gruppi tribali, inclusi i più numerosi, i Naga e i Kuki, costituiscono il 40 per cento della popolazione e risiedono nei distretti collinari, caratterizzati da boschi e terreni agricoli. La questione di fondo tocca il rapporto tra i Meitei — popolazione di religione induista — e i Kuki, minoranza etnica di fede cristiana, come la maggior parte dei gruppi tribali. Con il riconoscimento dello status di “comunità tribale”, sancito dall’Alta Corte del Manipur, i Meitei hanno accesso a tutele costituzionali pensate per proteggere la terra, la cultura, la lingua e l'identità di quelle comunità storicamente più svantaggiate dell'India.

Da qui la protesta dei Kuki e degli altri gruppi tribali (che temono di vedersi sottrarre o occupare territori), da qui i primi episodi di violenza, ben presto degenerata in scontro aperto. Nelle reciproche recriminazioni, i Kuki accusano i gruppi di Meitei di aver colpito le famiglie della loro comunità residenti a Imphal e nelle aree circostanti. Mentre secondo i Meitei, i partecipanti alla marcia dei Kuki hanno iniziato a compiere atti vandalici e aggressioni.

A nove da mesi da quegli scontri, i due gruppi sono completamente segregati, con il divieto di entrare gli uni nelle aree abitate dagli altri. La distanza garantisce, per ora, l'assenza di conflitto. Ma non basta, osserva il Forum interreligioso creato da monsignor Thomas Menamparampil, arcivescovo emerito di Guwahati, nel confinante Stato di Assam. Ora, sedata la tempesta, «urge avviare colloqui di pace a livello locale, collaborando in ogni modo possibile e aprendo spiragli di dialogo», afferma, auspicando che, in primo luogo, si facciano arrivare nella regione soccorsi e aiuti umanitari per gli sfollati. Per favorire il percorso verso veri e propri colloqui di pace, è necessario il sostegno delle varie componenti della società civile: il Forum attende e incoraggia sforzi simili da parte di gruppi di donne, intellettuali, capi religiosi e altre persone di buona volontà di entrambe le parti.

di Paolo Affatato