· Città del Vaticano ·

A San Paolo fuori le Mura il Papa ricorda che senza conversione non c’è vero ecumenismo

Il “compito santo”
di pregare per l’unità
e per la fine delle guerre

 Il “compito santo” di pregare per l’unità  e per la fine delle guerre  QUO-021
26 gennaio 2024

L’invito del Papa a «pregare per l’unità» e «per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa», è risuonato ieri pomeriggio nella basilica di San Paolo fuori le Mura durante la celebrazione dei secondi Vespri della conversione dell’apostolo delle genti, a conclusione dell’Ottavario ecumenico che quest’anno ha avuto come tema: «Ama il Signore Dio tuo... e ama il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Lc 10, 27). Di seguito il testo dell’omelia pronunciata dal Pontefice.

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, il dottore della Legge, sebbene si rivolga a Gesù chiamandolo «Maestro», non vuole lasciarsi istruire da lui, ma «metterlo alla prova». Una falsità ancora più grande emerge però dalla sua domanda: «Che devo fare per ereditare la vita eterna?» (Lc 10, 25). Fare per ereditare, fare per avere: ecco una religiosità distorta, basata sul possesso anziché sul dono, dove Dio è il mezzo per ottenere ciò che voglio, non il fine da amare con tutto il cuore. Ma Gesù è paziente e invita quel dottore a trovare la risposta nella Legge di cui era esperto, la quale prescrive: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10, 27).

Allora quell’uomo, «volendo giustificarsi», pone un secondo interrogativo: «E chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29). Se la prima domanda rischiava di ridurre Dio al proprio “io”, questa cerca di dividere: dividere le persone in chi si deve amare e in chi si può ignorare. E dividere non è mai da Dio: è dal diavolo, che è divisore. Gesù, però, non replica facendo teoria, ma con la parabola del buon samaritano, con una storia concreta, che chiama in causa anche noi. Perché, cari fratelli e sorelle, a comportarsi male, con indifferenza, sono il sacerdote e il levita, i quali antepongono ai bisogni di chi soffre la tutela delle loro tradizioni religiose. A dare senso alla parola “prossimo” è invece un eretico, un Samaritano, perché si fa prossimo: prova compassione, si avvicina e teneramente si china sulle ferite di quel fratello; si prende cura di lui, indipendentemente dal suo passato e dalle sue colpe, e lo serve con tutto sé stesso (cfr. Lc 10, 33-35). Ciò permette a Gesù di concludere che la domanda corretta non è “Chi è il mio prossimo?”, ma: “Io mi faccio prossimo?” Solo questo amore che diventa servizio gratuito, solo questo amore che Gesù ha proclamato e vissuto, avvicinerà i cristiani separati gli uni agli altri. Sì, solo questo amore, che non torna sul passato per prendere le distanze o puntare il dito, solo questo amore che in nome di Dio antepone il fratello alla ferrea difesa del proprio sistema religioso, solo questo amore ci unirà. Prima il fratello, dopo il sistema.

Fratelli e sorelle, tra di noi non dovremmo mai porci la domanda “chi è il mio prossimo?”. Perché ogni battezzato appartiene allo stesso Corpo di Cristo; e di più, perché ogni persona nel mondo è mio fratello o, mia sorella, e tutti componiamo la “sinfonia dell’umanità”, di cui Cristo è primogenito e redentore. Come ricorda sant’Ireneo, che ho avuto la gioia di proclamare “Dottore dell’unità”, «chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro [...], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo» (Adv. haer. ii, 25, 2). Non dunque “chi è il mio prossimo?”, ma “io mi faccio prossimo?” Io e poi la mia comunità, la mia Chiesa, la mia spiritualità, si fanno prossime? O restano barricate in difesa dei propri interessi, gelose della loro autonomia, rinchiuse nel calcolo dei propri vantaggi, intavolando rapporti con gli altri solo per ricavarne qualcosa? Se così fosse, non si tratterebbe solo di sbagli strategici, ma di infedeltà al Vangelo.

Che devo fare per ereditare la vita eterna?”: così era cominciato il dialogo tra il dottore della Legge e Gesù. Ma oggi anche questa prima domanda viene ribaltata grazie all’Apostolo Paolo, di cui celebriamo, nella Basilica a lui dedicata, la conversione. Ebbene, proprio quando Saulo di Tarso, persecutore dei cristiani, incontra Gesù nella visione di luce che lo avvolge e gli cambia la vita, gli chiede: «Che devo fare, Signore?» (At 22, 10). Non “che devo fare per ereditare?”, ma “che devo fare, Signore?”: il Signore è il fine della richiesta, la vera eredità, il sommo bene. Paolo non cambia vita sulla base dei suoi obiettivi, non diventa migliore perché realizza i suoi progetti. La sua conversione nasce da un capovolgimento esistenziale, dove il primato non appartiene più alla sua bravura di fronte alla Legge, ma alla docilità nei riguardi di Dio, in una totale apertura a ciò che Lui vuole. Non alla sua bravura ma alla sua docilità: dalla bravura alla docilità. Se Lui è il tesoro, il nostro programma ecclesiale non può che consistere nel fare la sua volontà, nell’andare incontro ai suoi desideri. E Lui, la notte prima di dare la vita per noi, ha ardentemente pregato il Padre per tutti noi, «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17, 21). Ecco la sua volontà.

Tutti gli sforzi verso la piena unità sono chiamati a seguire lo stesso percorso di Paolo, a mettere da parte la centralità delle nostre idee per cercare la voce del Signore e lasciare iniziativa e spazio a Lui. L’aveva ben compreso un altro Paolo, grande pioniere del movimento ecumenico, l’Abbé Paul Couturier, il quale pregando era solito implorare l’unità dei credenti “come Cristo la vuole”, “con i mezzi che Lui vuole”. Abbiamo bisogno di questa conversione di prospettiva e anzitutto di cuore, perché, come affermò sessant’anni fa il Concilio Vaticano ii: «Non esiste un vero ecumenismo senza interiore conversione» (Unitatis redintegratio, 7). Mentre preghiamo insieme riconosciamo, ciascuno a partire da sé stesso, che abbiamo bisogno di convertirci, di permettere al Signore di cambiarci il cuore. Questa è la via: camminare insieme e servire insieme, mettendo la preghiera al primo posto. Infatti, quando i cristiani maturano nel servizio di Dio e del prossimo, crescono anche nella comprensione reciproca, come dichiara ancora il Concilio: «Quanto infatti più stretta sarà la loro comunione col Padre, col Verbo e con lo Spirito Santo, tanto più intima e facile potranno rendere la fraternità reciproca» (ibid.).

Per questo siamo qui stasera da diversi Paesi, da diverse culture e tradizioni. Sono riconoscente a Sua Grazia Justin Welby¸ Arcivescovo di Canterbury, al Metropolita Policarpo, in rappresentanza del Patriarcato Ecumenico, e a tutti voi, che rendete presenti molte comunità cristiane. Rivolgo un saluto speciale ai membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, che celebrano il xx anniversario del loro cammino, e ai Vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’Unità e la Missione. È bello che oggi con il mio fratello, l’Arcivescovo Justin, possiamo conferire a queste coppie di Vescovi il mandato di continuare a testimoniare l’unità voluta da Dio per la sua Chiesa nelle rispettive regioni, andando avanti insieme «a diffondere la misericordia e la pace di Dio in un mondo bisognoso» (Appello dei vescovi iarccum , Roma 2016). Saluto anche gli studenti borsisti del Comitato per la Collaborazione Culturale con le Chiese ortodosse del Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani e i partecipanti alle visite di studio organizzate per giovani sacerdoti e monaci delle Chiese ortodosse orientali, e per gli studenti dell’Istituto Ecumenico di Bossey del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Insieme, come fratelli e sorelle in Cristo, preghiamo con Paolo dicendo: “Che cosa dobbiamo fare, Signore?”. E nel porre la domanda c’è già una risposta, perché la prima risposta è la preghiera. Pregare per l’unità è il primo compito del nostro cammino. Ed è un compito santo, perché è stare in comunione con il Signore, che per l’unità ha anzitutto pregato il Padre. E continuiamo a pregare pure per la fine delle guerre, specialmente in Ucraina e in Terra Santa. Un pensiero accorato va anche all’amato popolo del Burkina Faso, in particolare alle comunità che lì hanno preparato il materiale per la Settimana di Preghiera per l’Unità: possa l’amore al prossimo prendere il posto della violenza che affligge il loro Paese.

«“Che devo fare, Signore?”. E il Signore — racconta Paolo — mi disse: “Àlzati e prosegui”» (At 22, 10). Alzati, dice Gesù a ciascuno di noi e alla nostra ricerca di unità. Alziamoci allora, nel nome di Cristo, dalle nostre stanchezze e dalle nostre abitudini, e proseguiamo, andiamo avanti, perché Lui lo vuole, e lo vuole «perché il mondo creda» (Gv 17, 21). Preghiamo, dunque, e andiamo avanti, perché questo Dio desidera da noi. È questo che desidera da noi.


Dialogo nella carità


«L'amore è particolarmente importante in tutti gli sforzi ecumenici». Così il cardinale Kurt Koch, prefetto del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, si è rivolto al Papa al termine della celebrazione dei secondi Vespri della Conversione di san Paolo. Il rito è stato presieduto da Francesco nella basilica di San Paolo fuori le Mura, giovedì pomeriggio, 25 gennaio, a conclusione della 57ª Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. 

Nel suo intervento il porporato ha citato l’importante ecumenista riformato Oscar Cullmann il quale definiva la preghiera come «uno dei grandi doni d’amore di Dio per l’essere umano». Se si può parlare a Dio nella preghiera, ha sottolineato Koch, «lo dobbiamo al fatto che Dio stesso non è muto, ma è il primo che ci ha rivolto la parola e ci ha mostrato così il suo amore. Da parte nostra la prima risposta al suo amore non può essere che altro amore, amore per lui e quindi amore per il prossimo, perché chi ama Dio amerà anche le sue creature». Del resto, solo quando si amano «i nostri simili come Dio li ama, dimostriamo di essere a immagine di Dio». Questo mistero fondamentale della fede cristiana, ha ricordato il cardinale, è richiamato dal tema dell’Ottavario ecumenico di quest’anno: «Ama il Signore Dio tuo... e ama il prossimo tuo come te stesso».

Questa frase della Bibbia, ha osservato Koch, mette in evidenza che la carità è fondamentale nell’ecumenismo: un impegno  nutrito «di dialogo e fraternità e di amicizia», che «giustamente porta il nome di ecumenismo della carità». Esso è il «presupposto indispensabile e lo spazio vitale di ogni dialogo teologico della verità». L’ecumenismo della carità ha permesso infatti «di riscoprire la fraternità che tra noi cristiani esiste a ragione del battesimo comune a tutti, offrendoci una rete efficace di relazioni amichevoli». Il cardinale ha evidenziato che la carità «non cancella le legittime differenze tra noi, ma le concilia in unità ancora più bella e più ricca».

In precedenza, al termine dell’omelia pronunciata da Papa Francesco, l’arcivescovo di Canterbury, Sua Grazia Justin Welby, primate della Comunione anglicana, aveva offerto ai presenti una riflessione in inglese, affidando a Dio e a Maria il cammino verso l’unità e, in particolare, chiedendo loro il dono della libertà «dalle catene dell’odio» e il dono dell’«amore», frutto stesso della libertà.

All’inizio del rito, il Papa —  accompagnato dal cardinale Koch e dal segretario del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, il vescovo Brian Farrell — ha sostato in preghiera davanti alla tomba dell’apostolo Paolo insieme con i rappresentanti di altre Chiese e comunità ecclesiali: l’arcivescovo Welby, Sua Eminenza Polykarpos Stavropoulos, metropolita ortodosso d’Italia e Malta, del Patriarcato ecumenico, e Sua Grazia Ian Ernest Direttore Centro Anglicano di Roma, rappresentante personale dell’arcivescovo di Canterbury a Roma 

 Alla celebrazione erano presenti diciotto cardinali, tra i quali Pietro Parolin, segretario di Stato, Giovanni Battista Re, decano del collegio cardinalizio, Angelo De Donatis, vicario generale per la diocesi di Roma, e James Michael Harvey, arciprete della basilica Ostiense; e sedici presuli, tra i quali gli arcivescovi Paul Richard Gallagher, segretario per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali, e Luciano Russo, segretario della Sezione per il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede, e il vescovo Farrell. Presenti anche monsignor Roberto Campisi, assessore per gli affari generali della Segreteria di Stato; e il benedettino dom Donato Ogliari, abate di San Paolo fuori le Mura.

Tra i partecipanti, i membri della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, e i vescovi cattolici e anglicani che partecipano all’incontro della Commissione internazionale per l’unità e la missione, in corso a Roma.