Qualcuno ha scritto su uno dei muri di Roma (che evidentemente più che in altre città ispirano la vena poetica dell’uomo della strada) la frase “Gesù salva”. Sarà stato un cristiano devoto e anche ortodosso nel contenuto. Qualcun altro ha poi voluto aggiungere un suo contributo scrivendo altre due parole: “con nome”. Non sappiamo se anche questo secondo “poeta murale” sia un devoto oppure abbia voluto solo fare ironia mutuando il linguaggio informatico (è proprio dei computer “salvare” i files attribuendogli un nome), sta di fatto che anche lui si è rivelato ortodosso, corretto nella dottrina: Gesù ci salva così, chiamandoci per nome. Lo abbiamo ascoltato nel Vangelo di domenica scorsa, dove si vede Andrea, il “protochiamato”, la primizia delle vocazioni, che porta da Gesù suo fratello Simone e Gesù la prima cosa che fa è dargli un nome: «Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: “Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa” — che significa Pietro» (Gv 1,42). Essere guardati negli occhi e chiamati per nome, forse oggi più che in passato, è il bisogno più acuto, urgente, che vive l’uomo contemporaneo, soprattutto in Occidente, soprattutto i giovani: vivere la vita come vocazione, chiamata personale a un destino, per non ricadere nel vuoto della solitudine come un numero nella massa anonima. Per inciso, è molto significativo nel brano del Vangelo il fatto che Andrea, chiamato per primo, si è sentito naturalmente spinto a chiamare a sua volta, organizzando l’incontro tra Gesù e il fratello, perché è molto vero quello che afferma il filosofo Gilles Deleuze: «Sceglie davvero, sceglie effettivamente, solo colui che viene scelto». Essere scelti e quindi scegliere. La vocazione è sempre una “elezione” ed eligo in latino ha a che fare con “scegliere” ma anche nel senso di amare, l’eletto è innanzitutto l’amato. L’amore fugge via dall’astrazione e vive solo nella concretezza, ha quindi bisogno sempre di un volto e di un nome. Non esistono statistiche in fatto d’amore.
Nel discorso al Corpo Diplomatico dello scorso 8 gennaio Papa Francesco ha ricordato che le vittime civili «non sono “danni collaterali”. Sono uomini e donne con nomi e cognomi che perdono la vita» e ha aggiunto che «se riuscissimo a guardare ciascuno di loro negli occhi, a chiamarli per nome e ad evocarne la storia personale, guarderemmo alla guerra per quello che è: nient’altro che un’immane tragedia e “un’inutile strage”, che colpisce la dignità di ogni persona su questa terra».
Si tratta di una riflessione che molte altre volte il Papa ha offerto alla mente e ai cuori di chi lo ascolta: ogni uomo non ha ma è un volto, un nome, una storia. Una storia grande, come ha ricordato nel febbraio del 2019 tornando dal viaggio ad Abi Dhabi, perché non esistono storie piccole se si tratta di esseri umani, ciascuna esistenza è dotata di una dignità che è, semplicemente, incommensurabile. Una storia, un volto, un nome, questo e non altro per dire il mistero rappresentato da ogni essere umano.
Tutto questo richiede tempo, pazienza. Spesso però il mondo ha fretta e quindi salta la via lunga e concentra la materia incandescente della vita, inevitabilmente raffreddandola e riducendola attraverso non i nomi ma i numeri. L’alternativa al nome infatti è il numero. Al file che scriviamo sul pc dobbiamo dare un nome se lo vogliamo salvare, si salva infatti solo con il nome, altrimenti il computer lo registra come “senza nome 1”, con il numero. Solo il nome salva, il numero massifica facendo perdere l’identità. Fra qualche giorno il mondo si fermerà per celebrare la Giornata della memoria e una delle lezioni più atroci della Shoah è proprio quella dello slittamento dal nome al numero: la cancellazione del nome e l’apposizione del numero stampato sul braccio dei detenuti nei campi di sterminio. Sono passati ottanta anni ma quel rischio non è scomparso. Un poeta-profeta come Christian Bobin ha lanciato il suo grido quando ha scritto che «i numeri stanno rodendo le travi del mondo. Avanzano, avanzano. Un giorno rimarrà solo la poesia a salvarci […] Un giorno alzeremo il capo verso il cielo e tutto quel che vedremo sarà un cartellone pubblicitario con il prezzo d’ingresso per il paradiso. […] Cos’è l’umano, se non ciò che non sopporta i numeri, la terribile abilità pratica?». Il riferimento alla pubblicità, al calcolo del prezzo del “biglietto”, è ironico quanto inquietante. Anche la pubblicità infatti ci chiama, ma non per nome, la sua è “reclame”, propaganda, rivolta a un numero indistinto non di persone ma di potenziali consumatori. Dire il proprio nome, chiedere di essere chiamati per nome, è un atto di ribellione alla dittatura oggi più potente, quella del consumo e del mercato.
C’è poi un altro tipo ancora di chiamata in molti paesi del mondo, questa avviene subdolamente “per nome”, ma è lo stesso terribilmente disumana: la “chiamata alle armi”. E colpisce che proprio l’8 gennaio scorso, mentre il Papa parlava della guerra come immane e inutile strage, a Mosca, sotto le mura del Cremlino, siano sfilate, come gesto di protesta, alcune donne che hanno depositato garofani rossi davanti alla fiamma del milite ignoto, per chiedere il ritorno dei mariti dal fronte. Una piccola mobilitazione (solo una quindicina di mogli di soldati richiamati per combattere in Ucraina) ma significativa, una protesta silenziosa che si ripeterà tutti i fine settimana. Dal 24 febbraio 2022, da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina, sono infatti circa 250.000, secondo il Cremlino, i riservisti inviati al fronte. Ed ecco di nuovo il numero, con il suo rombante vuoto, «bronzo che risuona o cembalo che tintinna», nella sua straniante, lacerante, astrazione. Urge allora una ribellione all’insegna della concretezza, una rivolta poetica, per salvarci tutti, l’un l’altro, “con nome”.
di Andrea Monda