· Città del Vaticano ·

La figura del ladrone Tito nell’album «La buona Novella»

Quell’amore più forte
del dolore

 Quell’amore più forte del dolore  QUO-010
13 gennaio 2024

Nel 1970 Fabrizio De Andrè pubblica il suo quarto album intitolato La Buona Novella ispirato, come il titolo tradisce, al Vangelo, anzi ai vangeli apocrifi. Tra le dieci tracce spicca la lunga ballata Il testamento di Tito, dedicata al buon ladrone di nome Tito secondo il vangelo arabo dell’infanzia. Pochi accordi e la voce inconfondibile del cantautore genovese sviluppano la canzone attraverso un climax musicale che culmina nell’ultima delle dieci strofe. Dieci come i dieci comandamenti che costituiscono l’ossatura di un testo che rappresenta il testamento cioè la ricapitolazione della vita di questo ladro che da buon ebreo rivede la sua vicenda biografica alla luce della Torah, della Legge. Per rendersi conto che la legge non basta. Da questo punto di vista è una canzone “paolina” nel senso della Lettera ai Romani: la legge uccide, lo spirito vivifica. Per dirla con Dylan (per la musica De Andrè si ispirò a Blowin’ in the wind) «se vuoi vivere fuorilegge devi essere onesto»: è questo il dramma del fuorilegge Tito che si sente vittima di un mondo violento e ingiusto, dove il diritto è scritto dai “padroni”, dai “vincitori” ed è funzionale ai bisogni delle classe alta e usato contro i poveri e gli sfruttati.

Lungo le prime nove strofe Tito ripercorre la sua vita dall’infanzia (durissima a causa di un padre violento) fino a questo ultimo giorno in cui si trova appeso a una croce, condannato a morte, a dispetto di una legge che vieta l’omicidio: «Il settimo dice non devi ammazzare se del cielo vuoi essere degno./ Guardatela oggi, questa legge di Dio, tre volte inchiodata nel legno / Guardate la fine di quel nazareno, e un ladro non muore di meno».

Tutto il suo ultimo canto è un grido contro le ipocrisie e le contraddizioni di un sistema fatto di persone, in primis la casta del potere, quella sacerdotale, che predica bene, «lo sanno a memoria il diritto divino», e razzola male: «E scordano sempre il perdono». Tito cerca questo, misericordia, ma non l’ha trovata lungo le strade della storia che ha percorso come vagabondo rubando non solo soldi e oggetti ma anche e soprattutto l’amore, vissuto furtivamente, in modo selvaggio e non generativo: «Io forse ho confuso il piacere e l’amore: ma non ho creato dolore». Il dolore — la parola più ripetuta in tutta la ballata — è lo sfondo, il tema centrale di questa canzone che mette in scena il dramma di un uomo colto nel momento dell’ultima agonia. La vita è dolore, dice Tito, e quindi meglio “rubarla”, vivendo “mordi e fuggi”, senza padroni ma anche senza relazioni, strappando un po’ di piacere ma senza creare una famiglia, visto che lo schema imposto dalla società del tempo (noi diremmo, con De Andrè, una società “borghese”) è violento quanto ipocrita.

Se la vita è dolore allora tante vale indurirsi e resistere, ribellandosi alla sofferenza mostrandosi più duro del dolore stesso, diventato indifferente, cinico, inaridendo il cuore e alla fine pietrificandolo. Questo è Tito per tutta la sua vita fino all’ultimo giorno, per tutte le prime nove strofe fino all’ultima.

Poi accade qualcosa. Il climax musicale arriva al culmine e si ferma: tace la chitarra, tutto sembra cadere per un attimo. Poi riprende solo la voce di De Andrè che dice: «Io, nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. / Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore». Due versi in cui c’è tutto. Ci sono i due comandamenti dell’amore che racchiudono tutti gli altri. C’è Tito che ammette quello che fino a un attimo prima aveva negato: sta provando dolore. Perchè è accaduto qualcosa all’ultima curva della sua vita, qualcosa che ha vinto la dura corazza che si era costruita negli anni e lo ha trafitto, “sciogliendolo”. Da homo curvatus, chiuso nel dolore e schiacciato dal peso della vita, Tito finalmente alza lo sguardo fuori di sé, e vede che proprio lì, a fianco a lui, c’è un altro e quest’altro uomo sta esattamente come lui: morendo; ma con tutto un altro “stile”. E questa visione cambia tutto. Tito si rende conto che non sta morendo da solo come sempre è vissuto, ma insieme a un altro che nella sua mitezza scompiglia tutti i piani, gli schemi, i sentimenti e i risentimenti. E rovescia la logica del mondo a cui il ladro ribelle di fatto si era piegato. Finalmente Tito ha trovato quello che cercava da tutta la vita: la misericordia. Non come concetto, come articolo di una Legge da ripetere a memoria, ma come vita vissuta, praticata concretamente. Vede che Gesù, condannato innocente, perdona i suoi aguzzini rivelandosi molto più “duro”, più forte di lui, di una forza che Tito non sa nemmeno da dove possa provenire. Davanti a questa forza si arrende e apprende quello che prima aveva “confuso”: l’amore. E lo ammette non solo a se stesso ma anche alla madre e il dettaglio struggente che questa parola sia citata due volte fa immaginare che le madri sotto quelle croci siano due: Maria e la madre di Tito, entrambi forti di quell’amore più forte e resistente anche della morte.

di Andrea Monda