· Città del Vaticano ·

A colloquio con la scrittrice Manuela Dviri

Questa è Israele

 Questa è Israele   QUO-009
12 gennaio 2024

Cinque elezioni politiche in tre anni, un’instabilità politica che si traduce in un ulteriore spostamento a destra del Paese, l’influenza sempre maggiore dei movimenti nazionalisti religiosi, e poi l’ondata emozionale scaturita dalla tragedia del 7 ottobre. Al di là della cronaca e dell’analisi contingente, si impone oggi una riflessione più generale sulla società israeliana. Com’è cambiata l’Israele dei pionieri e dei kibbutz? Come vive e a cosa si ispira il cittadino israeliano medio? Cosa è mutato dopo il 7 ottobre? Ne parliamo con Manuela Dviri, giornalista e scrittrice, nata in Italia e naturalizzata israeliana da ormai 55 anni. I suoi libri e le sue corrispondenze giornalistiche godono di apprezzamento tanto in Israele quanto in Italia. Nel 1998 suo figlio Yonathan, militare israeliano, fu ucciso in Libano in un combattimento con Hezbollah. A seguito di questa perdita iniziò con il gruppo detto delle “quattro madri” una campagna per il ritiro dell’esercito israeliano dal Libano, che venne poi realizzato dal primo ministro Ehud Barak.

«Quando arrivai qui nel 1968 — dice —, Israele era un Paese molto più piccolo, e molto più arretrato. Venendo dall’Italia sembrava di tornare indietro di 10 anni. Un’atmosfera generale da grande villaggio. Oggi Israele è un Paese all’avanguardia della modernità, urbanizzato, immerso nelle nuove tecnologie, con un’economia finanziarizzata. È vero che tutto il mondo è radicalmente cambiato, ma la velocità del cambiamento israeliano è stata impressionante. È inevitabile che un cambiamento così repentino e radicale abbia comportato anche dei cambiamenti negli stili di vita».

Questo c’entra per esempio con lo spostamento a destra dell’opinione pubblica?

In qualche modo sì, perché i cambiamenti creano instabilità, e con essa anche il bisogno di certezze, di sicurezze, di identità ritrovate. E questo è particolarmente forte in un Paese dove non si arriva, se non in forza di una spinta ideale o religiosa. Io parlerei piuttosto di polarizzazione. Sulla quale giocano molti fattori: intanto una semplificazione del linguaggio politico che agisce molto specie sulle fasce culturalmente più deboli che si informano solo sui social; aggiungerei la straordinaria capacità manipolatrice di Benjamin Netanyahu; poi ancora il peso crescente dei coloni nella società, e infine la scarsa capacità reattiva delle forze progressiste. Pensi per esempio al partito laburista, che ha di fatto costruito questo Paese, e che oggi addirittura fatica ad entrare alla Knesset. Peraltro, non scordi che per ben 39 settimane abbiamo (dico abbiamo perché ci sono stata sempre anch’io) manifestato ogni sabato contro la deriva autoritaria verso la quale Netanyahu vorrebbe trascinare Israele. In proporzione al numero di abitanti è come se in Italia, ogni sabato, un milione di persone avesse manifestato contro il governo. Anche ora durante la guerra ogni sabato si svolgono tre manifestazioni: quella per la pace e il ricordo delle vittime, quella che chiede le dimissioni di Netanyahu e le elezioni generali, e quella per la liberazione degli ostaggi. Una fiumana di gente che qui a Tel Aviv il sabato sera migra da una piazza all’altra.

Spesso invece in occidente riemerge l’equivoco che Israele sia una sorta di monolite ebraico.

Al contrario, l’immagine che meglio rappresenta Israele è quella del poliedro. Ebrei, musulmani e cristiani, europei dell’est e dell’ovest, asiatici, nord africani. Qui siamo tutti immigrati. Un melting pot straordinario, che vive molte contraddizioni ma anche tanta ricchezza. La ricchezza del confronto quotidiano con l’alterità. Israele è globalizzato, prima che il mondo lo fosse. Gli israeliani sono americani, russi, ma anche iracheni, tunisini, etiopi, europei: non esiste al mondo un altro laboratorio simile di convivenza. E malgrado questo ampio arco di diversità, c’è un alto grado di unità, che non è spiegabile solo in ragione del collante religioso.

Però la basic law, cioè la legge costituzionale approvata nel 2018 che stabilisce l’ebraicità dello Stato israeliano, racconta il contrario.

Quella legge è stata l’inizio del precipizio. E le forze di opposizione e la società civile ne hanno sottovalutato la pericolosa portata involutiva. Una legge che nei fatti stabilisce che in Israele ci sono cittadini di serie A e di serie B. E anche di serie C, D, E… una legge discriminatoria e insostenibile. Le vorrei ricordare, per esempio, che in questo momento a Gaza stanno combattendo nelle file delle Forze di difesa di Tel Aviv (Idf) anche israeliani arabi, e anche israeliani cristiani. Alcuni di loro sono stati uccisi. Nessuno dei padri nobili che hanno costruito questa nazione come focolare e protezione degli ebrei ha mai però pensato di timbrare il nostro Stato come uno Stato ebraico. Sarebbe occorsa già nel 2018 una risposta ferma a queste folli radicalità imposte dai nazionalisti religiosi di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, come poi si è realizzato con l’opposizione alla riforma della giustizia voluta da Netanyahu. Il problema di Israele oggi ha un nome e cognome: Benjamin Netanyahu.

Sì, ma Netanyahu è stato regolarmente votato dagli israeliani.

Intanto occorre dire che Netanyahu si regge sul determinante appoggio dei nazionalisti religiosi, e degli ortodossi. Cioè, me lo lasci dire, di gente che alla fin fine vive mantenuta dallo Stato. La parte attiva e produttiva del Paese non è con lui. E poi, con altrettanta chiarezza, Netanyahu ha una straordinaria capacità di manipolazione dell’opinione pubblica basata sulla menzogna. Bibi è bravissimo in questo: oggi dice una cosa, domani dice l’opposto e però riesce a rivendicare la continuità e coerenza tra le due affermazioni. Nel mentire è un maestro.

E qual è stato l’oggetto principale della manipolazione?

Sicuramente l’essersi presentato al Paese come ‘Mr. Security’, l’unico in grado, tra tanti ‘rammolliti’ di garantire una vita sicura agli israeliani. La mattina del 7 ottobre questa sua tesi è stata tragicamente sbugiardata. Accanto a questa, c’è stata poi la mistificazione consistente nell’obnubilare il ‘problema palestinese’. Netanyahu non ha avuto parole dure contro l’ipotesi de ‘i due Stati’; semplicemente ed efficacemente ha rimosso il problema dalla testa degli israeliani. Come si potesse poi rimuovere l’esistenza di 5 milioni di persone che ti vivono nella stanza accanto è veramente un funambolismo dialettico. In questo tipo di esercizi dialettici, lo ripeto, Netanyahu è orribilmente bravissimo.

Torniamo ai cambiamenti intervenuti nella società israeliana. Lei scorge anche elementi di continuità?

Sì. L’energia. Questo Paese è dotato di un’energia straordinaria. Anche davanti agli attacchi, alle sconfitte, sa poi risollevarsi rapidamente ed efficacemente. Non c’è spazio per l’autocommiserazione e la depressione. Si vive sulla speranza. C’è sempre una grande forza del ‘fare’ per se stessi e per il Paese. E questo mi introduce ad un secondo elemento di continuità: lo spiccato senso di comunità. Io vengo spesso in Italia e questa è la differenza che più mi colpisce tra i due Paesi. In Italia c’è un individualismo molto più accentuato. Qui invece è forte il sentimento di essere legati ad un destino comune. Qui la gente la sera non si chiude in casa, ma esce, sta in piazza, si conosce, parla. Come accadeva in Italia cinquant’anni fa. E questo, mi creda, fa la differenza.

Questo dipende anche dal fatto che è un paese molto più giovane, si fanno più figli qui. Come sono i giovani israeliani di oggi?

Questo quartiere dove ora ci troviamo è al centro di Tel Aviv. Le posso rispondere dicendo che anche nei giorni più bui dopo il 7 ottobre, le vie e le piazze di questo quartiere alla sera non hanno smesso di popolarsi di giovani, che hanno continuato a incontrarsi, ad ascoltare musica, a bere una birra, cioè in una parola a vivere. A voler vivere. Molti degli uccisi del 7 ottobre avevano la loro stessa età e hanno incontrato la morte ad un concerto. Sicuramente erano molto commossi, ma il messaggio implicito che trasmettevano era ed è: dobbiamo continuare a vivere, e a mostrarci vivi. Vede, io ho un osservatorio privilegiato: ho sette nipoti. Forse non vivono la politica con quel pathos che è proprio della nostra generazione, ma sicuramente sono vivacemente protesi a un futuro che è il loro e della comunità a cui sentono di appartenere.

Posso chiederle come si vive da ‘eretica’ del pensiero politico in Israele?

Sinceramente: molto bene. In questo Paese si parla, si discute, ci si confronta anche molto duramente, ma sempre sotto l’ombrello dell’appartenenza ad un destino comune. Qualche giorno fa un quotidiano come «Haaretz», a proposito della riforma della giustizia, ha titolato “La Corte suprema inferisce un duro colpo a Netanyahu e alla sua banda di ladri”; potrebbe mai immaginare un titolo simile su un giornale europeo? Sì, certo, ricevo diverse critiche per il mio impegno sociale e solidaristico. Un amico di recente mi ha detto ‘Manuela ci sono tanti bambini israeliani orfani o malati, e tu invece ti occupi dei palestinesi’. E io gli ho risposto: ‘Io mi occupo di chiunque soffre. E oggi sento che i bambini palestinesi soffrono più dei nostri, e soprattutto che nessuno si occupa di loro’. La dialettica libera dentro questo Paese mi affascina ed appassiona.

Dopo quasi tre ore di conversazione insieme attraversiamo la piazza Dizengoff. È piena di giovani con la musica nelle cuffie, che sorseggiano birra, e intanto custodiscono con lo sguardo le fotografie appoggiate sulla fontana, delle centinaia di loro coetanei uccisi il 7 ottobre. I sorrisi di quelle foto sono gli stessi dei ragazzi che le guardano. Anche Manuela le guarda e sussurra: «Questa è Israele».

da Tel Aviv
Roberto Cetera