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La Santa Sede e gli Scenari per la Pace»: la conferenza del cardinale Parolin all’Accademia dei Lincei

La guerra, un viaggio
senza meta

 La guerra, un viaggio  senza meta  QUO-009
12 gennaio 2024

Risposte di una diplomazia ancorata alla storia 


Desidero anzitutto porgere il mio riconoscente saluto al presidente di questa prestigiosa istituzione, il professor Roberto Antonelli, che ringrazio non solo per l’invito, ma anche per l’aver voluto dedicare questo momento di incontro a un approfondimento delle vicende dell’oggi. Vicende tra le quali è tornato preponderante quel confronto — certo non nuovo — tra l’imporsi dei conflitti e i desideri di pace. Una dimensione che intimidisce e confonde la realtà internazionale e l’attività diplomatica, mentre perdono ragione gli strumenti giuridici e gli assetti istituzionali di popoli e nazioni. È il dramma della guerra che Papa Francesco nel Messaggio Urbi et Orbi dello scorso Natale, ha definito: «Viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse». Una realtà verso cui la Chiesa si esprime e opera attraverso il Magistero del Successore di Pietro e nella particolare presenza della Santa Sede negli scenari di pace.

Quella odierna vuole essere occasione per offrire alcuni spunti di riflessione che spero possano rientrare nell’interesse proprio dell’Accademia la cui vocazione è di «promuovere, coordinare, integrare e diffondere le conoscenze scientifiche nelle loro più elevate espressioni nel quadro dell’unità e universalità della cultura», come indica il vostro Statuto (art. 1). L’intento è di mostrare come la Santa Sede concorre agli sforzi che si compiono nel mondo per avviare o stabilizzare processi di pace nell’interesse delle persone, delle comunità, dei loro diritti fondamentali e delle loro aspirazioni. E questo sia nella sua funzione di governo centrale di una realtà strutturata e complessa come la Chiesa, che nella sua azione diplomatica posta anche a servizio dei popoli e della grande causa della pace.

Si tratta di un’attenzione che va oltre il solo annuncio del messaggio cristiano, perché finalizzata a salvaguardare anche quei valori fondativi che, parte delle diverse esperienze culturali e religiose, operano nei rapporti tra le nazioni quali principi generali dell’ordine internazionale. Principi chiamati a orientare la condotta dei diversi attori verso l’autorità del diritto internazionale in modo che uguaglianza sovrana, integrità territoriale, non uso della forza, cooperazione allo sviluppo non siano semplici enunciazioni. Infatti, il loro senso e contenuto forniscono alla diplomazia non solo ispirazione, ma regole di condotta, procedure certe e, soprattutto, concrete possibilità di raggiungere i traguardi auspicati. Un’opera certamente complessa, ma che inserisce l’azione della Santa Sede in quella diplomazia operativa che coinvolge gli Stati nei rapporti reciproci, come pure nella partecipazione alle attività delle istituzioni multilaterali.

Se valori e diplomazia sono tra loro interconnessi, una lettura della prassi mostra che tempi e situazioni non sempre sono tra loro interdipendenti. Capita sovente, infatti, di osservare l’azione diplomatica che persegue finalità certamente positive, ma senza interrogarsi su quali valori fondare processi o delineare soluzioni e quindi quali regole ispirare. Confrontando la storia recente con i dati dell’attualità, viene in mente quanta importanza è stata attribuita all’obbligo della soluzione pacifica delle controversie, oggi non solo disatteso, ma quasi ritenuto superato dal ricorso alle armi.

Ma quante divisioni, quali effetti dolorosi sui popoli determinano comportamenti frutto solo dell’uso della forza o della deterrenza basata sul timore di armamenti sempre più sofisticati? Non possiamo nasconderci che la fase storica che stiamo vivendo domanda una governance degli assetti internazionali che sia sinonimo di sicurezza e coesistenza pacifica, di rispetto della dignità umana e dei diritti conseguenti, e ancora veicolo di uno sviluppo solidale realmente umano. Una visione diametralmente opposta a quella che si propone di «garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia» ( Francesco, Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki, 24 novembre 2019, in «L’Osservatore Romano», 25-26 novembre 2019) . Lo sforzo per eliminare l’affermazione di potenza o forme di deterrenza permette di cogliere quanto la Santa Sede nell’azione diplomatica si unisca agli intenti che maturano nel contesto internazionale per raggiungere quell’ordine tra le persone, i popoli e le nazioni che è una delle garanzie per la pacifica coesistenza. Un ordine «che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall’amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani» ([San] Giovanni xxiii , enciclica Pacem in terris, 89). Seguendo questo orientamento, la diplomazia pontificia si adopera perché si strutturi un’ordinata convivenza mondiale, quell’auspicata « pax omnium rerum tranquillitas ordinis » (sant’Agostino, De civitate Dei,  xix, 13.1) , cosciente che si tratta di un ordine applicato a una realtà, quella umana, nella quale si manifestano cambiamenti e sviluppi sempre nuovi. Non basta, allora, scongiurare e rifiutare la guerra, ma vanno definite proposte di pace coerenti con il dinamismo della storia, con i fatti e gli avvenimenti che si producono. «Cerca la pace e perseguila» (Ps 33, 15) insegna la Sacra Scrittura, poiché nella pace si fondono il dono di Dio e la responsabilità dell’azione umana, quella di ogni persona chiamata a operare con capacità, interesse e visione. Ecco perché aspirare alla pace non basta, come non è sufficiente l’intenzione di operare per la pace: occorrono comportamenti concreti e coerenti, azioni mirate e, soprattutto, la piena coscienza che ognuno nel suo piccolo o grande mondo quotidiano, nei diversi incarichi e funzioni, è un “costruttore di pace” (Mt 5,6).

L’azione diplomatica della Santa Sede, manifestatasi ininterrottamente nel corso della storia, pur avendo come primo intento compiti ecclesiali (cfr. Paolo vi , Motu Proprio Sollicitudo Omnium Ecclesiarum, in AAS 61 (1969), 473-484) è organizzata secondo le regole della diplomazia permanente strutturatasi a partire dal x-xi secolo attraverso le quali ha preso forma quella rete di relazioni stabili tra le nazioni fatta di rapporti, negoziati, intese che, con tutti i limiti possibili, costituiscono un metodo unico per la gestione dei conflitti e per traguardi di pace. Si tratta, dunque, di un servizio alla famiglia umana, con un atteggiamento dettato dalla piena coscienza di poter concorrere a un futuro di stabilità e sicurezza per i popoli e gli Stati, nella loro storia e identità. Questa appartenenza al mondo della diplomazia, significa per la Santa Sede mantenere relazioni con 184 Paesi di diverse culture e religioni, e con la maggior parte delle Organizzazioni internazionali che costituiscono la rete della governance mondiale. Questo comporta la presenza di Missioni diplomatiche negli Stati, le Nunziature Apostoliche, a cui si aggiungono apposite Missioni permanenti presso istituzioni intergovernative di carattere universale, regionale o di gruppo nelle quali la Santa Sede assume lo status di membro o di osservatore. Lì dove non sono ancora instaurate relazioni diplomatiche, rimane la presenza del Vescovo di Roma presso le Chiese locali, mediante le Delegazioni Apostoliche.

Una rete, dunque, complessa nelle attività e ben strutturata, che al centro ha il riferimento unico nella Segreteria di Stato con le sue tre Sezioni, quella per gli affari generali, quella per i rapporti con gli Stati e le Organizzazioni internazionali e quella per il personale diplomatico. Sul terreno la figura centrale è il Rappresentante Pontificio sul quale ricade la responsabilità di rapporti instaurati con le diverse componenti delle Chiese locali o quelli realizzati con i governi, gli apparati statali, gli organi propri e i membri delle Organizzazioni intergovernative. Al Rappresentante della Santa Sede è dato cosi di collaborare alla missione del Successore di Pietro, mediante un servizio quotidiano, complesso e allo stesso tempo fecondo perché consente di far conoscere agli interlocutori le sensibilità, gli interessi e le diversità che danno la vera immagine della Chiesa. Una missione ben illustrata da san Giovanni xxiii , diplomatico della Santa Sede nelle sedi di Sofia, Istanbul e Parigi. Spettatore in tante vicende e protagonista nelle difficoltà per la stessa presenza della Chiesa, così ispirava i suoi compiti e intenti: «Tutte le persone con le quali io vengo in contatto debbono ammirare nel Rappresentante Pontificio quel senso di rispetto alle nazionalità di ciascuno abbellito da buona grazia e da mitezza di giudizio che concilia rispetto e fiducia universale. Molta prudenza, dunque, silenzio rispettoso e garbo in ogni circostanza» ([San] Giovanni xxiii , Il Giornale dell’Anima, a cura di Alberto Melloni, Bologna, Istituto per le Scienze Religiose, 1987, 380). Questi solidi intenti, anche se in apparenza sembrano solo espressioni di forte spiritualità e di senso ecclesiale, rendono la diplomazia pontificia parte integrante delle tensioni che la vita internazionale teme e affronta, o delle attività che in essa si manifestano e si realizzano. Inoltre, operare secondo tali modalità dà alla Santa Sede la piena coscienza di non esercitare un potere, né di cercare privilegi di sorta. Del resto sarebbe un esercizio assai modesto vista la caratteristica della sua natura e della sua missione, lontani dagli interessi in genere espressi dalla diplomazia.

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Il termine pace nell’uso comune è in apparenza semplice e legato all’assenza di conflitti o alla loro gestione e conclusione. Nel linguaggio della diplomazia risulta, invece, un traguardo complesso, declinato in una molteplicità di aspetti riassunti dal paradigma della pacifica coesistenza tra i membri della Comunità internazionale. In esso si sintetizzano l’esercizio della sovranità, la parità nel trattare, il rispetto degli obblighi assunti, come pure lo sviluppo economico-sociale, la libertà dalla fame, dalle malattie e dall’analfabetismo, la protezione dei diritti fondamentali, la giustizia, la coesione sociale, la protezione ambientale. Un elenco non esaustivo che l’azione diplomatica traduce in elementi molteplici e necessari per una gestione delle relazioni internazionali volta anche a costruire un futuro di stabilità in grado di preservare e sostenere una generale e fattiva collaborazione tra le diverse Nazioni (cfr. in tal senso il preambolo della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961).

La pace, dunque, è allo stesso tempo un metodo per la diplomazia e un traguardo al cui raggiungimento essa collabora, favorendo le modalità di rapporti, il reciproco rispetto e la collaborazione tra i protagonisti della vita internazionale. Ma per la Santa Sede l’azione diplomatica, per sua natura, è chiamata anzitutto a realizzare una solida, amichevole e fattiva relazione tra i membri della Comunità internazionale: «Il nobile e paziente lavoro diplomatico (…) deve non solo cercare di prevenire e risolvere i conflitti, ma anche consolidare la pacifica convivenza e lo sviluppo umano dei popoli, favorendo il rispetto della dignità umana, difendendo i diritti inalienabili di ogni uomo, donna e bambino e promuovendo modelli di sviluppo integrale economico e umano» ( Francesco, Discorso ai diplomatici di Kuwait, Nuova Zelanda, Malawi, Guinea, Svezia, Ciad per la presentazione delle Lettere Credenziali 7 dicembre 2023, testo in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2023/december/documents /20231207—credenziali—ambasciatori.html).

Una impostazione che consente di pensare, e forse ripensare in ragione dei conflitti attualmente in atto, al vero significato da attribuire alla relazione e al suo significato nella politica internazionale. Per la Santa Sede, le soluzioni individuate o percorse, accanto al dato tecnico, debbono essere necessariamente comprendere autentici e precisi limiti che non possono giustificare posizioni di forza, né violare il principio di leale cooperazione. Tali limiti costituiscono fattori determinanti perché le soluzioni adottate si possano realizzare e avere continuità, pure a fronte di mutamenti o di nuovi rischi che subentrano nella quotidianità delle relazioni internazionali. L’assenza di limiti, invece, costituisce un punto di forte criticità nella conduzione di un conflitto in cui si violano le norme del diritto internazionale umanitario, come pure nelle forme di autodifesa previste dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Difatti, la violazione di norme internazionali cogenti, da un lato ha come conseguenza la responsabilità penale per crimini di guerra o contro l’umanità; dall’altro ostacola la cessazione dei combattimenti e l’adozione di coerenti soluzioni pacifiche, poiché pone seri dubbi sulla lealtà degli attori, sulla ragionevolezza degli interventi e sulla loro proporzionalità. Le conseguenze più evidenti sono l’estensione territoriale dei conflitti e l’attuazione di processi di isolamento e di cancellazione delle identità di popoli e di comunità.

Il riferimento ai limiti è un richiamo ai principi internazionalistici disattesi dalla volontà di potenza e alla loro “crisi di vigenza”, anzitutto nel significato e negli effetti che emergono dai cambiamenti della nostra epoca. Quella dei cambiamenti è una realtà complessa e di certo rilievo che la Santa Sede coglie e sottolinea nelle agende di incontri bilaterali o di Conferenze intergovernative tutte incentrate su aspetti pragmatici che sfuggono ai cosiddetti “presupposti fondamentali” e al loro significato.

Pensando ai conflitti, sono non solo un esempio, ma una precisa linea politico-diplomatica la mancata adesione di diversi attori agli impegni internazionali per il non uso di armi con effetti di distruzione di massa o per la messa al bando della loro produzione. Ma ancora di più preoccupa la denuncia degli impegni già sottoscritti. In quei casi è chiara la percezione di come siano mutate — o addirittura si siano perse — visioni eticamente ispirate, principi morali e concezioni anche religiose che fondano le regole giuridiche.

Nonostante i nuovi bisogni o le urgenze che chiedono alla diplomazia di esplorare adeguate soluzioni si continua nelle modalità solite, usando spesso un linguaggio che solo in apparenza risponde alle necessità dell’oggi. Un esempio è nel recente Messaggio in occasione della 57a Giornata Mondiale della Pace che è stata celebrata lo scorso 1° gennaio, (testo in https://www.vatican.va/content/francesco/it/messages/peace/documents/20231208—messaggio—57giornatamondiale—pace2024.html), nel quale Papa Francesco ha voluto sottolineare la relazione tra l’intelligenza artificiale e la pace. Una realtà che interroga la diplomazia relativamente all’uso di tecnologie sofisticate nei conflitti. La questione non tocca solo la tipologia degli armamenti e il loro effetto, ma il fatto che il loro impiego evidenzia un trasferimento di responsabilità per gli atti di guerra e per i loro “effetti collaterali”: responsabili non sono più le persone, ma le macchine, i software e i diversi applicativi. Se si è coscienti della necessità di una vera pace, a fronte a queste situazioni attendere ipotetiche iniziative non è più praticabile e anche un generico riferimento all’esistente o un richiamo al passato restano soluzioni illusorie.

Alla diplomazia, quale espressione dell’agire politico, è richiesto di dare risposte o suggerire azioni, ma ben ancorate all’oggi del mondo e della storia. La crisi dei valori tradizionalmente condivisi, domanda di operare delle scelte con coscienza e conoscenza da parte del diplomatico chiamato a prospettare soluzioni, a fornire idee ma in piena sintonia con i dati reali. Il metodo è quello di «cogliere, comprendere e dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento» (Francesco, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 232).

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Dell’azione internazionale della Santa Sede, un dato credo risalti agli occhi di ogni osservatore: l’ampiezza della prospettiva da coprire — la cattolicità della Chiesa è questa — e la necessaria cura nell’analisi delle situazioni che riguardano Paesi e territori. Non si tratta solo di raccogliere informazioni o delle modalità di raccolta che vedono concorrere nella “rete diplomatica pontificia” le strutture che segnano la presenza della Chiesa cattolica nei territori: dalla Stazione Missionaria alle Diocesi, agli Istituti di vita consacrata. Quest’azione, che volutamente sfugge alla notorietà e al fare notizia, segue il criterio di collegare la cura a un’azione pedagogica verso le parti che si combattono o contrappongono. La pedagogia è volta a instaurare un vero dialogo, quello che presuppone la presenza e l’apporto anche di chi è scomodo o di chi, secondo una visione tradizionale, non sembra avere la legittimità di attore in un negoziato. Per la diplomazia pontificia il dovere di non escludere, ma di includere è garanzia per ricucire i più tenui segni di buona volontà delle parti in conflitto così da avviare una pacificazione.

Quando la Santa Sede è chiamata a dare il suo contributo rispetto a questioni internazionalmente rilevanti, le stesse sono analizzate con un approccio “realistico” che consente di vivere le tensioni del negoziato con sano realismo, rifiutando logiche di chiusura — del tipo “o questo o niente” — ma mantenendo aperta la strada del “possibile”. È un metodo che a volte confonde quegli interlocutori intenti solo a circoscrivere le soluzioni nel perimetro di interessi particolari. È questo sano realismo a produrre una volontà determinata, strutturata su valori fondamentali — ed ecco rispuntare i valori — per orientate scelte e decisioni verso le reali esigenze di quanti sono coinvolti nei conflitti o in complessi processi di pacificazione. Il realismo, dunque — e non il pragmatismo — è tra i motivi che spingono persone e autorità di diversa fede religiosa, come pure quanti non credono, a guardare alla Santa Sede sorretti dalla volontà di un maggiore dialogo, di una più fluida comprensione tra posizioni contrapposte a tutto vantaggio del bene comune della famiglia umana e delle sue diverse componenti. Lo si sperimenta nei contesti internazionali quando la pace passa attraverso la difesa di diritti fondamentali, e in particolare quello alla libertà di religione, e le posizioni della Santa Sede sono espresse non in funzione dei cattolici o dei cristiani, ma di ogni credente.

Del resto per comprendere veramente quanto sia importante e urgente garantire la pace, e con essa la sicurezza, accanto alla sistematicità di analisi capace di andare oltre la semplice informazione, va posta attenzione verso tutti i potenziali protagonisti: «I processi effettivi di una pace duratura sono anzitutto trasformazioni artigianali operate dai popoli, in cui ogni persona può essere un fermento efficace con il suo stile di vita quotidiana» (Francesco, enciclica Fratelli tutti, 231). Torna qui un metodo che nel privilegiare la relazione favorisce il dialogo tra persone appartenenti a diverse etnie, culture, lingue e visioni religiose o etiche, nella convinzione che in questa diversità trova concretezza il futuro di popoli, la stabilità istituzionale degli Stati, e in particolare una concreta condotta di pace.

Gli atti e i fatti internazionali indicano nella cooperazione internazionale lo strumento di base attraverso cui si realizza la pace. Una dimensione di cui la Santa Sede sostiene la necessità sia nel quadro delle attività tra i singoli Paesi, come pure in quelle ben più complesse elaborate dalle Istituzioni multilaterali. Discutere e strutturare strategie e programmi, però, se ha fornito tanti risultati positivi, oggi non è più sufficiente in termini di spinta ideale e di risorse impegnate. Non si tratta di visioni terzomondiste o di semplice costatazione dell’ampiezza dei bisogni e l’accumulazione della ricchezza, quanto piuttosto dell’assenza di valori in grado di motivare un serio impegno di redistribuzione. L’obiettivo della crescita, poi sostituito dallo sviluppo e quindi da una sostenibilità sempre più concentrata sull’umanitario forse domanda di integrare la cooperazione con un elemento solo in apparenza estraneo alla funzione diplomatica: «È troppo pensare di introdurre nel linguaggio della cooperazione internazionale la categoria dell’amore, declinata come gratuità, parità nel trattare, solidarietà, cultura del dono, fraternità, misericordia? In effetti, queste parole esprimono il contenuto pratico del termine “umanitario”, tanto in uso nell’attività internazionale» (Francesco, Discorso alla sede della Fao, 16 ottobre 2017, 3).

La cooperazione per essere funzionale alla pace deve arricchirsi di componenti sempre nuove e cioè rispondenti ai tempi, comprese quelle che a motivo della loro complessità richiedono analisi approfondite. Del resto la cooperazione è anzitutto condivisione su un piano di parità, non limitata a legittimare l’aiuto e l’assistenza, anche perché sarebbe un esercizio assai modesto vista la frustrazione che producono atteggiamenti unilaterali o espressioni di pura potenza di fronte al sottosviluppo e alla povertà. Un paradosso che domanda alla diplomazia di sviluppare idee originali e strategie innovative, frutto di una creatività che sappia osare e infrangere modelli precostituiti. Il riferimento va all’ineguale relazione tra sviluppo e povertà, anche in ragione di situazioni che pur essendo globali nei fatti determinano frammentazione di intenti, specie davanti a tanti drammi e disastri.

Penso non solo ai conflitti armati, ma alla crisi climatica e ambientale, alla mobilità umana, agli indici di sviluppo e sottosviluppo e alla violazione dei diritti umani, per citare gli ambiti più evidenti che nella nostra èra mettono a serio rischio non solo la pace, ma la continuità della vita umana sul pianeta. Un aspetto quest’ultimo che l’azione della diplomazia pontificia riporta nel negoziato attraverso l’analisi sistematica iniziata dall’enciclica Laudato Si’ nel 2015 e proseguita con la Laudate Deum che nel 2023 ha evidenziato quanto siano «necessari spazi di conversazione, consultazione, arbitrato, risoluzione dei conflitti, supervisione e, in sintesi, una sorta di maggiore “democratizzazione” nella sfera globale, per esprimere e includere le diverse situazioni. Non sarà più utile sostenere istituzioni che preservino i diritti dei più forti senza occuparsi dei diritti di tutti» (Francesco, esortazione apostolica Laudate Deum, 43).

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Di fronte all’immagine dei numerosi conflitti in atto, alle aggressioni e all’uso indiscriminato delle armi, al ricorso alla violenza terroristica all’interno degli Stati o tra gli Stati, il percorso verso la pace è faticoso e incerto nei risultati, soprattutto in un momento in cui anche la politica internazionale e i suoi leader sembrano restii a lanciare soluzioni. La giustificazione è nella contingenza che viviamo, un’era in cui la dimensione razionale e analitica lascia volentieri il posto all’immagine che spesso è l’unica funzione cognitiva attivata. Allo stesso tempo quelli che sono ormai fattori strutturali della nostra epoca — spostamenti di popolazione, cambiamenti climatici, tendenze demografiche, divario economico e tecnologico — sono considerati come fattori di crisi contingenti.

Tutto questo ha delle ricadute in termini di operativi, che si concretizzano sempre più in azioni à la carte ovvero espresse a motivo di urgenze ed emergenze. La Santa Sede, invece, è tra coloro che spingono perché l’azione internazionale esca dalla logica emergenziale. Le pur necessarie soluzioni d’urgenza vanno coniugate con l’idea di sostenibilità attraverso una necessaria programmazione capace di fronteggiare in modo continuativo i problemi e garantire così le esigenze della prevenzione. Si potrà certamente sostenere che un tale traguardo è ambizioso, ma non negare che è quanto la realtà internazionale oggi richiede.

Nell’obiettivo della pace, dunque, l’attività diplomatica è chiamata a perseguire un impegno poliedrico che non ha alternative: mobilizzare risorse, umane, economiche, tecnologiche, culturali e religiose. Per la Santa Sede è un dovere continuamente ribadito che impone di condividere a vantaggio della famiglia umana non solo beni e strumenti, ma le esperienze sul campo, gli indicatori messi a disposizione dalla politica e altresì le regole poste dal diritto internazionale. Se ci riflettiamo si tratta di una prospettiva privilegiata, ragionata e tangibile, basata sulla consapevolezza che la causa prima e la finalità ultima di ogni azione deve essere il bene della persona nella sua realtà materiale e spirituale, nella sua dimensione individuale e collettiva.

In effetti, un rapido sguardo ai conflitti in atto, dall’Ucraina alla Palestina, al Medio Oriente, al Myanmar, all’Etiopia, al Sudan, allo Yemen mostra un aumento delle vittime della guerra. Con loro cresce l’abitudine a considerare il ricorso alle armi come parte del normale andamento dei rapporti internazionali. L’effetto è l’abitudine che sfocia fino all’indifferenza, dimenticando che la guerra è stata espunta dai mezzi rientrano nella disponibilità degli Stati per risolvere eventuali controversie o per imporre disegni egemoni. È proprio di fronte a un tale quadro che la diplomazia può manifestare tutto il suo peso e la sua capacità di porsi come efficace strumento di servizio alla causa della pace. Non si tratta, però, di trarre benefici da automatismi o lezioni del passato. Il servizio alla pace, infatti, comporta uno sforzo quotidiano per conoscere le situazioni, interpretarle e far comprendere che la guerra non è più uno strumento lecito dell’azione internazionale.

Non è raro vedere i diplomatici assistere impotenti a combattimenti, violenze o attentati, sperimentando quanto sia difficile prevenirli e fermarli. Tutto questo mentre si moltiplicano le sofferenze di quanti perdono gli affetti o sono costretti a lasciare le loro case, la terra, il lavoro per iniziare un percorso verso un futuro ignoto. Un quadro inquietante o che lascia inermi, di fronte al quale la diplomazia deve riscoprire il suo ruolo di forza preventiva, capace cioè di governare le minacce alla pace e alla sicurezza; di strumento per dare stabilità e futuro al post-conflitto, iniziando dal fare della solidarietà tra persone e popoli l’alternativa alle armi, alla violenza, al terrore. La diplomazia, lungi da essere solo una modalità di incontro, è uno strumento privilegiato per unire idee divergenti, posizioni politiche contrapposte, visioni religiose e finanche ideologie differenti.

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Quelli che ho appena esposto sono alcuni degli indicatori che negli scenari di pace sorreggono la metodologia seguita dalla Santa Sede e dalla sua diplomazia. Elementi che, sulla scia delle prospettive aperte dal Magistero dei Papi, sono imprescindibili per un’azione attiva e propositiva rispetto ai processi che si manifestano nella Comunità internazionale. Parimenti si tratta di posizioni consapevoli che per una efficace concreta azione di pace non basta proclamare l’impegno o limitarsi a incoraggiare sforzi ed azioni. Piuttosto è necessario capire quali necessità richiede l’azione preventiva o le situazioni presenti nei singoli Paesi che possono compromettere la pacifica convivenza di popoli e nazioni.

Lo svolgersi dei rapporti internazionali domanda sempre più una rinnovata visione del bene comune che non consente a Paesi e istituzioni di rifugiarsi in piccole nicchie di interessi, nei nazionalismi più o meno mascherati o nel proclamare forme di isolamento. Questo nonostante nello scenario di un mondo post-globale è diventato istintivo proteggersi da quanto può mettere in discussione certezze e posizioni ormai consolidate. Pertanto, anche la diplomazia rischia di perseguire un’idea di pace limitata a realizzare formali legami tra le Nazioni e non a porsi come strumento capace di superare i silenzi, le contrapposizioni determinate dalla diversità, di prevenire gli antagonismi e le divisioni che si oppongono a soluzioni condivise e perciò pacifiche. 

La pace, quella vera, non può confondersi con il tacere delle armi, ma passa attraverso l’agire di quanti con umiltà e competenza si pongono come genuini operatori di pace. Avviare i processi di pace richiede non solo processi negoziali, ma anche di non tralasciare nessuno di quanti sono o possono essere interlocutori. In altri termini, la diplomazia non può essere uno strumento per produrre quella “cultura dello scarto” che esclude, discrimina, dimentica. A dare supporto a questa linea inclusiva dell’azione diplomatica si collocano, in un modo che oserei definire privilegiato, l’attenzione verso i più deboli, la loro accoglienza e protezione.

Per operare verso questi obiettivi, al diplomatico è richiesta la necessaria competenza per far fronte a problemi la cui origine e le cui soluzioni in concreto richiedono una visione che sia più ampia possibile, anzitutto per non tralasciare le radici anche lontane delle cause di conflitti o quegli elementi e situazioni che consentono di leggere l’attualità e individuare le proposte da avanzare.

Di fronte a una realtà mondiale che rischia ogni giorno di distruggere una ordinata e solidale convivenza tra i popoli, la Santa Sede sa che le sfide e le opposizioni alla pace certamente non mancano e non mancheranno. Ma questa deve essere la spinta che deve sostenere l’azione di tutti, nei diversi ruoli e responsabilità, nella convinzione che solo un’azione concertata, motivata dalla volontà di servire gli ultimi, consente di guardare all’avvenire con la necessaria fiducia.

di Pietro Parolin


Le parole del cardinale a margine dell’incontro

Ripartire dal rispetto delle regole del diritto umanitario


«Gutta cavat lapidem», la goccia scava la pietra. Cita la nota locuzione latina, il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, per esprimere la speranza che i continui appelli del Papa a un cessate il fuoco a Gaza come in Ucraina, teatri di «carneficine», possano essere ascoltati. Questa mattina, a margine di una conferenza all’Accademia dei Lincei a Roma sul tema La Santa Sede e gli scenari di pace, il porporato condivide preoccupazioni e speranze per i conflitti che lacerano il mondo. Anzitutto concentra lo sguardo sulla Terra Santa e a un conflitto che sembra allargarsi, assicurando che Santa Sede prosegue la sua «attività di tipo dichiaratamente diplomatico, in maniera abbastanza discreta, per raggiungere obiettivi». Gli stessi che, dice Parolin, ha ribadito il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, nel suo viaggio in Medio Oriente: «Liberazione degli ostaggi, cessate il fuoco, aiuto umanitario e una soluzione permanente e definitiva della problematica dei palestinesi».

A una domanda sulle accuse di genocidio a Israele dalla Corte internazionale dell’Aja, il cardinale ribadisce quella che, afferma, è sempre stata la posizione della Santa Sede: «Riconoscere il diritto alla legittima difesa di Israele ma secondo il criterio della proporzionalità che vuol dire tenere conto dei civili… È una guerra — sottolinea il porporato — che non rispetta più le regole basilari del diritto umanitario, i civili diventano target. Bisogna avere la capacità di ritrovare il diritto umanitario internazionale». 

Non manca un pensiero per l’Ucraina: «Noi — spiega Parolin — ci siamo sempre dichiarati disponibili, non trovando disponibilità dall’altra parte». Al momento «non c’è una attività direttamente intesa a far cessare la guerra, ma si vorrebbe creare condizioni di reciproca comprensione per arrivare a un negoziato». Intanto è forte il dolore per i ripetuti attacchi dall’esercito russo: «Continua la carneficina… Un’inutile strage». 

Il cardinale risponde poi alle domande sul documento dottrinale Fiducia Supplicans che ha generato grandi fermenti nella Chiesa: «È sempre un bene», osserva, «l’importante è che si proceda secondo il “progresso nella continuità”. Nella Chiesa c’è sempre stato il cambiamento: la Chiesa di oggi non è quella di 2000 anni fa. La Chiesa è aperta ai segni dei tempi, ma dev’essere anche fedele al Vangelo, alla tradizione, al suo patrimonio. Allora se questi fermenti servono a camminare seguendo il Vangelo per dare risposte, siano benvenuti». Invece sulla posizione dei vescovi africani che ribadiscono la piena comunione al Papa ma si dicono non disponibili a benedire coppie omosessuali, dichiara: «Si è toccato un punto molto delicato e sensibile che avrà bisogno di grandi approfondimenti». 

Infine Parolin esprime apprensione per la vicenda dell’ex Ilva di Taranto dove è nuovamente in bilico la sorte dei lavoratori: «Siamo tornati in un momento di grande crisi, speriamo davvero che con la collaborazione di tutti si risolva un problema che dura da troppo tempo».

di Salvatore Cernuzio