· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Al contrario di quanto si pensi comunemente l’Africa è ricca di storie positive

A proposito di buone notizie

 A proposito di buone notizie   QUO-009
12 gennaio 2024

La convinzione che le buone notizie non facciano notizia è ancora molto diffusa nelle redazioni giornalistiche. In effetti, si tratta di un errore colossale che ha deviato il circuito informativo mainstream, quello delle grandi testate, dal proprio obiettivo originario, ossia aiutare l’opinione pubblica non solo nella conoscenza, ma anche nel discernimento su quanto sta avvenendo oggi sul palcoscenico della storia contemporanea.

Il continente africano, da questo punto di vista, viene spesso penalizzato, non foss’altro perché l’attualità è quasi sempre legata a tematiche estremamente negative — guerre, terrorismo, mobilità umana, catastrofi ambientali, inedia e malattie — capaci di condizionare il giudizio dell’opinione pubblica internazionale, innescando il pregiudizio. Quando, ad esempio, si parla di povertà, nell’immaginario nostrano o nel sentimento comune che dir si voglia, sovviene il solito stereotipo di qualche villaggio disperso nel cuore dell’Africa subsahariana.

Al di là di questa rappresentazione iconografica, suggerita in gran parte dalla televisione e dalla rete internettiana, ma anche dalle testate cartacee, risulta assai arduo immaginare una realtà fatta di persone, di relazioni sociali, di quotidianità. Eppure è stato ampiamente dimostrato che le buone notizie possono fare anche loro notizia. A questo proposito è davvero illuminante il contributo offerto dalla ricercatrice e giornalista danese Cathrine Gyldensted la quale nel 2007 ha coniato la definizione di “giornalismo costruttivo”. Di cosa si tratta?

L’idea alla base è quella di contestualizzare maggiormente le storie per consentire ai destinatari di notizie d’essere maggiormente informati. Esso infatti può fornire un valido aiuto alla comprensione di universi multiformi, dei quali si tende spesso a ignorare la complessità. Si tratta di un approccio innovativo per fare finalmente buon giornalismo, raccontando cioè la realtà dei fatti in modo più accurato, cogliendo sfumature, rendendo intelligibile ciò che si cela dietro le notizie, il cosiddetto background, per alimentare la curiosità sui possibili retroscena. Tutto questo per poi evidenziare la singolarità di quanto viene riportato, ma anche ciò che sta andando bene, in modo che l’opinione pubblica possa essere in grado di disporre di una visione più realistica del mondo. La posta in gioco è alta se si considera l’aspetto deontologico. Infatti, i pionieri del giornalismo costruttivo di cui sopra sono convinti — in effetti come dar loro torto — che qualsivoglia inviato, corrispondente o redattore, con quanto scrive o comunica verbalmente ha comunque un grande impatto sul modo di pensare della gente.

Gli operatori dell’informazione, evidentemente, devono essere più consapevoli di questa responsabilità, prestando maggiore attenzione al modo in cui costruiscono le loro storie. Non solo. Proprio perché occorre andare al di là della notizia, invece di limitarsi a descrivere l’accaduto e a segnalare i problemi, i fautori del giornalismo costruttivo si concentrano anche sul contributo che il lettore può offrire nel momento in cui viene messo al corrente di determinate informazioni. È questo il motivo per cui è sorto, una decina d’anni, fa il Solutions Journalism Network (Sjn). Si tratta di un approccio all’informazione simile al giornalismo d’inchiesta che sceglie l’approfondimento piuttosto che la velocità di narrazione. Il primo passo è stato compiuto nel 2010 con la nascita della rubrica Fixes curata per il «New York Times» da due celebri firme: Tina Rosenberg e David Bornstein. Nel 2013 ai due giornalisti si è aggiunta la collega Courtney Martin. Il Sjn oggi può contare su 47.000 giornalisti che utilizzano i suoi strumenti: un database con un menù scelto di storie propositive provenienti da 1.900 testate giornalistiche; 100 scuole affiliate di giornalismo; 8 partner formativi istituzionali in Nord America, Europa, Africa e America Latina; oltre a numerosi formatori certificati Sjn in 40 Paesi.

Essendo la nostra una rubrica incentrata sul continente africano, proviamo a portare alcuni esempi molto concreti di buone notizie, facendo tesoro di questi suggerimenti. In Tanzania — stando a quanto riferisce il giornale online «East African» — sarà completato e messo in funzione entro la metà di febbraio il Julius Nyerere Hydroelectric Power Project (Jnhpp). La notizia è stata quasi del tutto ignorata dalla grande stampa internazionale sebbene sia rilevante nel contesto generale del continente africano. In costruzione dal 2019, il progetto mira a produrre 5.920 GWh di elettricità all’anno, oltre a migliorare la gestione idrica complessiva. Ancora più impressionante è il fatto che esso, completato al 94 per cento, è davvero un progetto tutto africano. Finanziato dal governo tanzaniano, i suoi principali appaltatori sono due aziende egiziane, la El-Sewedy Electric, privata, e la Arab Contractors Company, statale. Costruita sul fiume Rufiji al costo di 2,9 miliardi di dollari, la diga costituisce la sezione più importante del complesso e sarà, quanto a dimensioni, la quarta diga più grande dell’Africa e la nona al mondo. Lunga 1.025 metri, ha una capacità di stoccaggio di circa 34 miliardi di metri cubi d’acqua.

Oltre a produrre energia, il Jnhpp fornisce anche una miriade di opportunità che vanno dall’agricoltura irrigua nel delta del Rufiji alla pesca. Da rilevare che il bacino di contenimento della diga ha la capacità di immagazzinare acqua sufficiente per generare energia anche durante la stagione secca, dunque servirà anche a controllare il bacino idrogeologico garantendo un’irrigazione sicura. Sebbene il progetto fosse in programma da decenni, le istituzioni finanziarie internazionali come la Banca mondiale si sono rifiutate di stanziare i fondi necessari, sostenendo che in Tanzania non vi fosse una grande richiesta di elettricità. Questo, nonostante solo il 40 per cento dei 63 milioni di abitanti abbia attualmente accesso all’energia elettrica. Vi sono state alcune contestazioni da parte di organizzazioni ambientaliste preoccupate in quanto il bacino del fiume Rufiji fa parte della Selous Game Reserve, patrimonio mondiale dell’Unesco. Ma, in effetti, riflettendo sul rapporto svantaggi-benefici, è evidente che questi ultimi sono significativi soprattutto in riferimento alla crescita economica del Paese.

E cosa dire delle buone notizie, riportate dal settimanale «Internazionale» il 22 dicembre scorso, in riferimento proprio all’Africa? In un interessante articolo a firma di Francesca Sibani vengono presentate una decina di notizie. Tra queste figurano, ad esempio, quella riguardante il Ghana, riportata dal sito web statunitense Semafor. In un’intervista al direttore del servizio sanitario del Ghana, Patrick Kuma-Aboagye, è emerso che il Paese dell’Africa occidentale quest’anno passerà dalla fase di contenimento a quella dell’eliminazione della malaria. Da quando, quattro anni or sono le autorità di Accra hanno avviato un programma pilota di vaccinazioni con il farmaco “Rts,S”, il Ghana ha visto una significativa riduzione dei casi di malaria e la mortalità è diminuita notevolmente.

Sempre nello stesso articolo si parla degli abitanti di Timbuctù, nel nord del Mali, i quali sono riusciti a organizzare una rassegna musicale patrocinata dal governo, Vivre ensemble, nonostante che la città da agosto sia assediata dai jihadisti del gruppo affiliato ad al-Qaeda, Jama’at Nusrat al-Islam wal-Muslimin (Jnim), che hanno ripetutamente impedito i rifornimenti di cibo e carburante. «La prima edizione del festival — scrive Sibani — si era tenuta otto anni fa, con il sostegno della Minusma, la missione delle Nazioni Unite, che nel frattempo si è ritirata dal Paese. Grazie alla mediazione di alcuni leader della comunità locale, i jihadisti hanno accettato di sospendere temporaneamente l’assedio e di lasciar passare alcuni camion carichi di provviste, garantendo a Timbuctù e ai suoi abitanti circa due settimane di sollievo e normalità».

Interessante è anche la storia di Francis Kazoba, un piccolo allevatore del villaggio di Rwagitima, nel distretto ruandese di Gatisibo che aveva acquistato otto mucche per produrre latte. A riportarla con dovizia di particolari è stato il giornale locale «Dispatch». Sfortunatamente, Kazoba si rese conto ben presto che i bovini erano affetti da una febbre emorragica virale acuta denominata Rift Valley Fever (Rvf).Grazie ad un sistema basato sulla telefonia mobile, Kazoba è riuscito a segnalare tempestivamente i sintomi rilevati ad un servizio di assistenza veterinaria operativo 24 ore su 24, ricevendo così un rapido aiuto per salvare le sue mucche.

Nel complesso, questi brevemente accennati, sono racconti dal volto umano che esprimono, con declinazioni diverse, la voglia di riscatto di un continente ancora tutto da scoprire.

di Giulio Albanese