· Città del Vaticano ·

Il Paese africano vive una grave crisi politica ed economica, ma la nomina a premier dell’ex oppositore Succès Masra Assyongar apre a scenari positivi

La speranza sta tornando
in Ciad

(FILES) Opposition leader Succes Masra is welcomed by supporters of the Chadian opposition party Les ...
09 gennaio 2024

Durante la sua visita nel Sud Sudan, il 3 febbraio 2023, Papa Francesco ha tenuto una conferenza ai leader del Paese, esortandoli a intraprendere finalmente un cammino di pace. Dal 2013, la guerra civile in quel Paese ha causato centinaia di migliaia di morti e la migrazione forzata di quattro milioni di persone. E dallo scoppio del conflitto armato in Sudan, tra le Forze armate sudanesi (Saf) e le Forze di supporto rapido (Rsf), nell’aprile 2023, più di 500.000 persone hanno cercato rifugio sul fianco orientale del Ciad.

Il Ciad sta vivendo una crisi — ecologica, politica, sociale ed economica — per molti versi simile a quella che sta devastando il suo vicino. Di conseguenza, da alcuni anni il Ciad è minacciato dal rischio di “sudanizzazione”, che potrebbe trasformarlo in una nuova zona di guerra civile non meno devastante di quella che Roma sta denunciando con forza in Sudan. La sfida principale che il Ciad deve affrontare oggi, quindi, è quella di prevenire il disastro prima che si verifichi.

Su questo fronte, tuttavia, una buona notizia arriva da N’Djamena: il 1° gennaio 2024, l’ex oppositore del regime ciadiano, Succès Masra Assyongar, è stato nominato primo ministro dal presidente di transizione, Mahamat Idriss Déby Itno. Si apre così un nuovo capitolo per il Paese, in vista delle elezioni presidenziali promesse dall’attuale capo di Stato quando è salito al potere nel maggio 2021, ma ora rinviate alla fine del 2024.

Succès Masra, quarantenne, è il leader del partito dei Trasformatori e, fino alla sua nomina, ha incarnato l’opposizione frontale al regime di Déby. Ha studiato Scienze politiche a Parigi, ha conseguito un dottorato alla Sorbona, poi ha lavorato ad Harvard e al Programma di Giustizia ambientale dell’Università di Georgetown negli Stati Uniti. Prima di entrare in politica ha lavorato come economista ed esperto di energia presso la Banca africana di sviluppo. A suo modo, incarna la rinascita di un’Africa subsahariana giovane, ben istruita, connessa ai social media e pronta a correre dei rischi per rompere con i regimi corrotti che il neocolonialismo occidentale ha continuato a sostenere dopo la decolonizzazione.

Il giovane primo ministro avrà il suo bel da fare se non vuole aggiungersi al suo predecessore, Saleh Kebzabo, nella serie di oppositori al clan Déby che il governo è riuscito a demonetizzare e, soprattutto, se vuole evitare la “sudanizzazione” del suo Paese. Infatti, prima di essere nominato primo ministro, Saleh Kebzabo era stato uno degli oppositori di Idriss Déby Itno, padre dell’attuale capo di Stato, ucciso dai ribelli nell’aprile 2021. Purtroppo, i risultati del suo lavoro non lasciano ben sperare.

Da un lato, il recente afflusso di rifugiati in fuga dalla guerra sudanese si aggiunge al milione di sfollati forzati che il Ciad già ospitava, tra cui 407.000 sudanesi rifugiati dal Darfur. Le condizioni di vita dei contadini ciadiani nell’est del Paese non sono molto diverse da quelle dei rifugiati nei campi gestiti dal Servizio dei gesuiti per i rifugiati sotto l’egida dell’Alto Commissariato per i rifugiati. Di conseguenza, questo movimento di popolazione sta causando una crisi umanitaria in Ciad. Sta anche interrompendo la catena di approvvigionamento del Paese, esacerbando le difficoltà affrontate dalle popolazioni vulnerabili nella parte orientale del territorio. Il prezzo dei prodotti alimentari di base nella regione è più che raddoppiato dall’inizio del conflitto. Questa situazione sta esercitando un’enorme pressione sul governo ciadiano, che dispone di risorse limitate, portando a un aumento dei casi di malattia, malnutrizione e rischio di epidemie.

D’altra parte, le truppe Wagner russe presenti nella Repubblica Centrafricana non esitano più a fare incursioni nel Ciad meridionale, alle quali l’esercito ciadiano non ha finora risposto. Esse rappresentano un potenziale di destabilizzazione che, come dimostrano le recenti esperienze in altri Paesi saheliani, può portare al collasso. Infine, il riscaldamento globale sta accelerando la desertificazione, che è fonte di grave preoccupazione per le risorse agricole del Ciad (l’80% dei terreni agricoli è minacciato) e sta aggravando le antiche tensioni tra nomadi e agricoltori.

Tuttavia, le risorse del Ciad sono reali: una popolazione istruita nel sud, un’esposizione solare eccezionale che renderà redditizio un programma di elettrificazione fotovoltaica del Paese, risorse petrolifere, un esercito forte e forse abbondanti acque sotterranee, l’ultima traccia del mare che copriva l’attuale Sahara poco più di 10.000 anni fa. Il nuovo primo ministro ha le reti e le competenze per mettere a frutto queste risorse e dimostrare che il Sahel non è destinato a diventare un “Africanistan”, per usare l’espressione tristemente suggestiva di Serge Michailof (Africanistan. L’Afrique en crise va-t-elle se retrouver dans nos banlieues?, Fayard, 2015).

Forse l’ostacolo più grande che dovrà superare è all’interno del Paese, nelle profonde linee di frattura create dalle divisioni interne alla società ciadiana. Da diversi decenni, la tribù Zaghawa del clan Déby ha sotto controllo il Paese e non esita a usare la violenza contro i propri connazionali per imporre il proprio giogo. Lo testimoniano i recenti eventi del 20 ottobre 2022, durante i quali sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco tra i 50 e i t300 giovani manifestanti pacifici. Tra questi? Succès Masra, che è miracolosamente scampato ai proiettili prima di andare in esilio per un certo periodo negli Stati Uniti. La sua nomina è un segnale di attenuazione della violenza in uno Stato che, per molti versi, è diventato tribale. Per essere confermata, tuttavia, dovrà essere accompagnata dall’organizzazione trasparente di elezioni democratiche, che Idriss Déby senior non aveva quasi mai incoraggiato durante i suoi trent’anni di potere.

Un’altra sfida è quella di continuare il dialogo inclusivo con le altre componenti della società ciadiana, tra cui la trentina di movimenti politico-militari che hanno firmato l’accordo di Doha dell’8 agosto 2022, in base al quale il governo ha negoziato una tregua, i partiti politici di opposizione che rifiutano di scendere a compromessi con la giunta al potere e alcuni attori della società civile che non hanno firmato l’accordo di Doha.

Infine, il rispetto della democrazia dipenderà anche dall’atteggiamento della Francia, il cui esercito è di stanza a N’Djamena da oltre tre decenni con almeno 800 uomini. Le relazioni tra Parigi e N’Djamena saranno essenziali per la modernizzazione del Paese. Il recente ritiro della Francia da Niger, Mali e Burkina Faso ha aumentato il suo isolamento diplomatico a favore di Stati Uniti e Germania. Non c’è dubbio che la Francia stia giocando l’ultima carta della sua presenza nel Sahel in Ciad.

di Gaël Giraud
Direttore di ricerca del CNRS, LIED