· Città del Vaticano ·

Rileggendo
«Elogio della finta» di Oliver Guez

Garrincha
e la libertà nel dolore

 Garrincha  e la libertà nel dolore   QUO-004
05 gennaio 2024

Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha, da questo grande campione di calcio inizia il breve saggio di Oliver Guez Elogio della finta (Neri Pozza), apparso in Francia dieci anni fa, nel 2014. Perché Garrincha, Guez lo cita solo col soprannome (scricciolo), di finte se ne intendeva. «L’angelo dalle gambe storte» come lo aveva definito il poeta della Bossa Nova Vinicius de Moares (e come dimostra la foto in copertina) aveva una capacità di dribblare l’avversario che lo ha reso uno dei più grandi giocatori di calcio di tutti i tempi.

Paradossalmente questo eroe del dribbling imbattibile sulla fascia destra, dove faceva scorribande facendo letteralmente impazzire i suoi avversari, «negli ostacoli della vita Garrincha, calciatore dionisiaco, ha inciampato: le donne, l’alcool e i soldi che butta dalla finestra con totale noncuranza. Con il Maligno il dribblatore ha perso tutti i duelli, non ha mai cercato di resistergli». Ne parla Guez di questi duelli, ma con pietà, non infierisce sulla tragica vicenda di questo smisurato talento, smisurato in tutto, e si sofferma sulla sua arte sopraffina: il dribbling appunto, fatto di finte, giravolte, andirivieni, trucchi che ipnotizzano il marcatore fino allo spiazzamento e all’umiliazione.

Parlare di Garrincha e del suo dribbling significa parlare del Brasile, e così dopo il primo capitolo, dedicato all’ala destra, si passa a parlare di altro, cioè di tutto, perché il Brasile è un luogo in cui «quando si parla di calcio si vede sempre più lontano, più in grande, si esagera, si estrapola, si pensa al mondo e all’uomo in tutti i loro eccessi». Ma Garrincha ritorna sempre in queste pagine serpeggianti, scritte in ossequio al suo stile, per cui anche quando si parla della squadra Brasile di un secolo fa o di oggi (cioè di dieci anni fa, sarebbe curioso leggere una versione aggiornata di questo saggio) si parla di questi «dribblatori brasiliani, quegli uomini elastici che vezzeggiano la palla come se danzassero con la donna più bella del mondo. La covano con lo sguardo e hanno occhi solo per lei, se la perdono cercheranno di riprendersela, di sedurla per andarsene di nuovo insieme e mai, mai più abbandonarla a un altro pretendente».

C’è molto erotismo in questo breve “carotaggio” dello spirito del Brasile, così come si parla molto di danza, di criminalità, di musica e di schiavitù (abolita solo nel 1888) perché «gli sfolgoranti dribblatori sono discendenti di schiavi» e di quelle singolari generazioni che sono gli schiavi liberati che (anche) in Brasile, «vengono abbandonati a se stessi, al loro triste destino».

Come negli Stati Uniti l’agognata libertà portò paradossalmente al passaggio dalla musica frizzante del gospel a quella malinconica del blues, così in Brasile «l’apprendimento della libertà si compie nel dolore, senza camera di decompressione (...) gli schiavi non hanno alcuna possibilità e molti confluiscono nei grandi centri urbani dove, tagliati fuori dal loro ambiente e dalla loro famiglia, molto spesso analfabeti, sono condannati al Lumpenproletariat e alla miseria». Ne scaturisce un Paese diviso in due, a due velocità, con una società “alta”, efficiente e moderna, e l’altra che vive schiacciata da una burocrazia soffocante e arbitraria, «un immenso ingorgo dove è difficile farsi largo (...) Quindi bisogna giocare d’astuzia. All’inizio del xx secolo compare la figura del malandro, personaggio equivoco della scena carioca, nero o mulatto, furbo, edonista e pigro. (...) Fa solo di testa sua. Questo figlio di schiavi non si ribella alle regole, le aggira, obbedisce solo alle proprie, mutevoli, per godere della sua libertà, dei suoi piaceri, infischiandosene dell’ordine costituito. È il re del tiro mancino». È il profilo preciso e perfetto di Garrincha, malandrino del calcio e incarnazione di uno spirito (uno dei tanti) del Brasile, sapendo che «il dribblatore e il malandro possono anche ingannare se stessi, restare prigionieri delle proprie cattive abitudini».

Ripercorrere la drammatica parabola calcistica di Garrincha permette alla penna di Guez, agile, appassionata e competente (gioca a calcio il nostro autore), di raccontare quella storica della società del Brasile dell’ultimo secolo e mezzo, di sollevare questioni, dubbi, interrogativi come un saggista, uno che “saggia”, assapora, quella stoffa di cui è fatta la vita, sa ed è chiamato a fare. Un libro per tutti dunque, perché tutti siamo impegnati nel rischioso dribbling che è la vita, dove spesso una finta di corpo può rivelarsi preziosa.

di Andrea Monda


Un malandrino del calcio brasiliano


Pubblichiamo l’ottavo capitolo del libro «Elogio della finta» (Neri Pozza, 2014) intitolato «Terreni abbandonati».

Tutto è cominciato su una spiaggia e per strada, su campetti improvvisati, di terra battuta, erba secca, poi di asfalto, in città, nelle favelas, in campagna. Ovunque, ai quattro angoli del gigante tropicale, da Manaus l’amazzonica a Rio, la “naiade nera” di Neruda, la stessa scena, ogni giorno, da oltre un secolo.

 A piedi nudi o in ciabatte, di rado con scarpe di tela, mai di cuoio, arrivano dei ragazzini, formano due squadre, in ognuna un grande e un piccolo, i grossi in porta o in difesa, pietre, borse o pezzi di legno delimitano le porte, si comincia. Giocano, senza riscaldamento né giri di campo — quale campo? — niente stretching, giocano, e se non hanno il pallone calciano una vecchia palla da tennis, un’arancia, una noce di cocco, un barattolo, un involto di calzini, di carta o di vecchi collant, qualunque cosa. 

Ben presto la addomesticano, la controllano, la smorzano e la accarezzano, più dolcemente della seta, ci cresceranno insieme, come con un prolungamento di se stessi, uniti nell’avversità, compagna nella buona e nella cattiva sorte, Margarita, Leonor, Maricota.

Così nascono i dribblatori dei terreni abbandonati, i campos de vàrzea, futuri fuoriclasse del futebol brasiliano. Il loro primo riflesso: eliminare l’avversario, farsi beffe del fratello maggiore, esasperare il vicino, ansimante, comico. Dribblare, in una nube di polvere, tutto ciò che capita a tiro, in piccoli spazi. Evitare gli ostacoli, gli interventi e gli sgambetti dei terzini, com’è normale, ma anche le pietre, le buche, i bidoni della spazzatura, i marciapiedi; fare lo slalom tra i cani, gli alberi, le auto e i lampioni, tutto l’arredo urbano. I bambini devono improvvisare. Per forza di cose, per il peso del destino, i piccoli brasiliani sono più tecnici, più perfidi e meno disciplinati degli apprendisti calciatori europei, formati in club fin dalla più tenera età. Inventano, tutto è possibile, come i loro fratelli maggiori ballano il samba, fanno ondeggiare il corpo, agitano i piedi, le braccia, e ancheggiano, il samba, libero, gioioso e anarchico, così diverso dalle figure obbligate del tango e della salsa.

L’ancheggiare del dribblatore di strada è simile a quello del lottatore/danzatore di capoeira, l’ambigua arte marziale degli schiavi, trasformata in gioco — la roda, il cerchio — quando si avvicinavano i padroni, che la vietavano.

 Agilità e furbizia, tradizione della finta e della schivata, cultura della danza, musica e canti, scioltezza del bacino, il dribblatore e il capoeirista hanno in comune lo stesso linguaggio corporeo, il gioco di gambe, il gusto del divertimento e delle acrobazie (i floreios in stile capoeira), il nocciolo afrobrasiliano. 

Quelle farfalle con il vitino di vespa, mescolanza di grazia e astuzia, sono fratelli siamesi.

Sulla spiaggia, nella favela o in un vicolo cieco, il boss dei terreni abbandonati è il dribblatore. I ragazzi invidiano l’artista ma lo rispettano; le ragazze ammirano il battitore libero, inventore di gesti folli, veroni­ che e uncini assurdi, l’uomo in sospensione che non ha mai paura di perdere la palla, di mancarla, di ricominciare, intrepido. 

Ogni volta che mi trovo a Rio, nel dolce crepuscolo, mormorii di oceano color rosso di Persia, ammiro, a volte per ore e ore, i mini acrobati e i loro fratelli maggiori, i ragazzi senza mani del footvolley.

Ci saranno sempre la spiaggia, i tornei di giovani, il sabato, a Copacabana, ma da tempo si dribbla meno per strada, a causa delle auto, della violenza, della mancanza di spazio, del prezzo al metro quadro a Rio e a San Paolo, nelle grandi città del Brasile, terra del futuro, l’aveva pronosticato Stefan Zweig, prima di suicidarsi: duecento milioni di brasiliani, appena novantatré nel 1970, l’anno della suprema consacrazione a Città del Messico. Frattanto il futebol de salilo o futsal è diventato lo sport più praticato in Brasile, il vivaio dove si perpetua la tradizione del dribbling e crescono i migliori calciatori tecnici: Rivelino, Zico, Ronaldo, Ronaldinho, Neymar, tutti quanti, da bambini, hanno fatto il loro apprendistato con il futsal. 

Ci si affronta in cinque contro cinque su un campo coperto grande come un playground da basket, dove la palla «circola a mo’ di disco sul ghiaccio» scrive il giornalista britannico Alex Bellos. 

Le caviglie ruotano, le articolazioni piroettano, solo quelle scimmiette eccellono in spazi così ridotti. Vivacità, elasticità, destrezza, nel futsal, più che sull’erba e sulla spiaggia, finte e astuzie devono essere impeccabili. Inventiva: in Giappone, dove Zico ha allenato a lungo, si racconta che andava su tutte le furie perché i giocatori non si discostavano mai e poi mai dalle sue direttive, incapaci di improvvisare, di sorprenderlo. Bushido e malandrade. Il samurai non è un discolo.