· Città del Vaticano ·

La sentenza del Tribunale vaticano sulla gestione dei fondi della Segreteria di Stato

Un processo che ha garantito i diritti di tutti

 Un processo  che ha garantito  i diritti di tutti  QUO-289
18 dicembre 2023

È sicuramente improprio definirlo “processo del secolo”, anche se quello che si è appena concluso nella sala polifunzionale dei Musei Vaticani è stato senza dubbio un processo importante. Il primo di tale portata e dimensioni da quando esiste lo Stato della Città del Vaticano, e cioè dal tempo dei Patti Lateranensi del 1929. È stato un processo lungo e oneroso, che è entrato nella “carne viva” della gestione delle finanze della Santa Sede, e che ha reso di pubblico dominio sia le modalità con cui in qualche caso si sono amministrati i fondi, sia il tentativo di alcuni attori esterni di appropriarsi delle risorse della Chiesa. Si è intrapresa la via trasparente e necessaria di un regolare processo di fronte alle denunce presentate e agli elementi emersi nella fase delle indagini e dell’istruttoria.

La gestione delle finanze d’Oltretevere è stata oggetto di inchieste giornalistiche e a volte anche giudiziarie per oltre mezzo secolo. La via della trasparenza è stata iniziata con coraggio già da Benedetto xvi e portata avanti con determinazione dalle riforme di Francesco. Il Papa, di fronte alle irregolarità segnalate all’autorità giudiziaria non dalla magistratura di altri Paesi ma da organismi interni alla Santa Sede, ha lasciato che la giustizia seguisse il suo corso ordinario e istituzionale. Al di là delle caricature rappresentate da taluni, quello sull’investimento del palazzo di Sloane Avenue e sui filoni connessi, è stato un processo equo, che si è interamente giocato nel dibattimento, nel pieno rispetto delle garanzie per gli imputati: lo dimostra non solo il numero di udienze, di documenti e di testimoni esaminati, ma anche il fatto che testimoni apparsi come fondamentali all’inizio sono poi diventati irrilevanti a motivo del confronto in aula e delle prove documentali.

Ma l’esito di questo processo ci dice anche che i magistrati del Tribunale, com’era giusto che accadesse, hanno ragionato con piena indipendenza sulla base delle prove documentali e delle testimonianze ascoltate, non su teorie preconfezionate. E hanno lasciato un ampio spazio al dibattimento. Si è arrivati dunque alla sentenza nel rispetto di tutte le garanzie degli imputati, avendo preso in debita considerazione le istanze dei loro difensori e soprattutto senza mai plasmare le norme alle convenienze dell’accusa. Lo dimostra, ad esempio, la decisione del Tribunale di considerare inutilizzabile le dichiarazioni rese durante l’interrogatorio in Gendarmeria vaticana da Gianluigi Torzi. Dichiarazioni che accusavano altri imputati, ma che non sono state ammesse dato che lo stesso Torzi non si è presentato in aula per ripeterle e avvalorarle.

Ha detto Papa Francesco nel febbraio scorso, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario: «Qui bisogna essere chiari ed evitare il rischio di “confondere il dito con la luna”: il problema non sono i processi, ma i fatti e i comportamenti che li determinano e li rendono dolorosamente necessari». Le norme sulla trasparenza, i controlli stringenti sulla gestione dei fondi, anche da parte di gestori esterni, e la consapevolezza che non esistono zone franche, contribuiranno a far prevalere un’amministrazione dei beni ecclesiastici sempre più simile a quella prudente del buon padre di famiglia. La genesi di questo processo ha mostrato che la Santa Sede e lo Stato della Città del Vaticano possiedono i necessari “anticorpi” per individuare presunti abusi o scorrettezze. Il suo svolgimento dibattimentale attesta che la giustizia viene amministrata senza scorciatoie, seguendo il codice di rito, nel rispetto dei diritti di ogni persona e della presunzione di innocenza.

di Andrea Tornielli


Condanne per 37 anni di carcere agli imputati

Il cardinale Becciu riconosciuto colpevole di  truffa e peculato


Condanna a 37 anni di reclusione complessivi per nove imputati su dieci. Tra loro il cardinale Giovanni Angelo Becciu, ex sostituto della Segreteria di Stato, al quale il Tribunale vaticano ha comminato una pena di 5 anni e 6 mesi di reclusione, più interdizione perpetua dei pubblici uffici e 8 mila di multa, per truffa e peculato. La sentenza pronunciata dal presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, intorno alle 16.05 di sabato 16 dicembre, nell’Aula polifunzionale dei Musei Vaticani, ha definito il primo grado di giudizio del processo per la gestione dei fondi della Santa Sede incentrato sulla compravendita del Palazzo di Londra e altri filoni di indagine. Processo iniziato il 27 luglio 2021 e snodatosi in 86 udienze, per 29 mesi, con una media di oltre 600 ore trascorse in Aula, 69 testimoni ascoltati, circa 150 mila pagine cartacee e informatiche analizzate. 

L’affaire Londra, causa della perdita di almeno 139 milioni di euro per la Santa Sede, è stato il filone principale del procedimento giudiziario. Insieme ad esso, le cosiddette «vicenda Sardegna» e «vicenda Marogna», rispettivamente il versamento di 125 mila euro della Segreteria di Stato a una cooperativa gestita dal fratello del cardinale Becciu nella sua diocesi di origine Ozieri, e di 575 mila euro alla manager sarda Cecilia Marogna per svolgere attività di intelligence tese alla liberazione di una suora colombiana rapita in Mali. Somme che la donna ha impiegato in «spese voluttuarie», come viaggi e oggetti di lusso. «Truffa aggravata» è il reato per cui è stata condannata a 3 anni e 9 mesi in concorso con Becciu riconosciuto colpevole anche di peculato per la compravendita di Londra e i versamenti in Sardegna. In quest’ultimo caso, secondo il Collegio, pur avendo uno scopo «lecito», l’erogazione di fondi della Segreteria di Stato ha costituito «un uso illecito degli stessi, integrante il delitto di peculato».

Molti dei reati sono stati riqualificati dal Collegio giudicante, il quale, tuttavia, ha salvato buona parte dell’impianto accusatorio del Promotore di Giustizia. Lo riflette la sentenza che ha assolto — unico caso — monsignor Mauro Carlino, segretario di due sostituti. 

Oltre al cardinale e a Marogna, sono stati condannati Fabrizio Tirabassi, ex minutante dell’Ufficio amministrativo della Segreteria di Stato, a 7 anni e 6 mesi, ed Enrico Crasso, per anni consulente finanziario della Segreteria di Stato, a 7 anni. Condannato pure a 5 anni e 6 mesi il finanziere Raffaele Mincione, titolare dell’hedge fund con cui il Vaticano ha investito nel palazzo londinese. Al broker Gianluigi Torzi comminata una pena di 6 anni e 6 mila euro di multa, più interdizione dai pubblici uffici e la sottoposizione a vigilanza speciale per un anno. Per l’avvocato Nicola Squillace, che ha avuto parte attiva nelle trattative per l’immobile di Sloane Avenue, con le attenuanti generiche, un anno e 10 mesi di reclusione: la pena è sospesa per 5 anni.

Sanzioni pecuniarie, invece, per i vertici dell’allora AIF (l’Authority d’Informazione finanziaria ora ASIF), l’ex presidente René Brühlart e l’ex direttore generale Tommaso Di Ruzza, che dovranno pagare una multa di 1.750 euro «per omessa denuncia e mancata segnalazione al Promotore di giustizia di un’operazione sospetta». Infine è stata ordinata la confisca per equivalente delle somme costituenti corpo dei reati contestati per oltre 166 milioni di euro complessivi. Gli imputati sono stati condannati, in solido tra loro, al risarcimento danni in favore delle parti civili, liquidati complessivamente in oltre 200 milioni di euro.

In un comunicato, diramato dopo il dispositivo della sentenza, il Tribunale vaticano spiega nel dettaglio di aver ritenuto «comprovato» il reato di peculato per l’uso «illecito» di 200 milioni e 500 mila dollari Usa, «pari a circa un terzo delle disponibilità all’epoca della Segreteria di Stato, perché in violazione delle disposizioni sull’amministrazione dei beni ecclesiastici». Somma versata tra il 2013 e il 2014, su disposizione dell’allora sostituto Becciu, per la sottoscrizione di quote di Athena Capital Commodities di Mincione «con caratteristiche altamente speculative e che comportavano per l’investitore un forte rischio sul capitale senza possibilità alcuna di controllo della gestione». Il Tribunale ha quindi ritenuto colpevoli di peculato Becciu e Mincione, «in relazione diretta con la Segreteria di Stato per ottenere il versamento del denaro anche senza che si fossero verificate le condizioni previste». In concorso con loro, Tirabassi e Crasso.

Quanto all’utilizzo successivo della somma, servita tra l’altro per l’acquisto della società proprietaria del palazzo e altri investimenti mobiliari, il Tribunale ha ritenuto Mincione colpevole di autoriciclaggio. Dichiarata poi la colpevolezza di Crasso sempre per autoriciclaggio in relazione all’utilizzo di oltre un milione di euro, quale «profitto del reato di corruzione tra privati» in concorso con Mincione. Per il riacquisto da parte della Segreteria di Stato, nel 2018-2019, delle società cui faceva capo la proprietà dell’immobile londinese, il Tribunale ha ritenuto colpevoli Torzi e Squillace di truffa aggravata e Torzi di estorsione in concorso con Tirabassi, «nonché per il reato di autoriciclaggio». Tirabassi giudicato colpevole pure di autoriciclaggio per la detenzione della somma di oltre un milione e 500 mila dollari Usa, corrispostagli dalla banca UBS.  

Molti legali della difesa hanno annunciato che faranno appello.

di Salvatore Cernuzio