· Città del Vaticano ·

A colloquio con l’ex premier israeliano Ehud Barak

Non c’è alternativa
ai due Stati

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16 dicembre 2023

«Nella storia di Israele e dell’ebraismo il 7 ottobre sarà ricordato come il giorno della più grande tragedia del nostro popolo dopo la Shoah: 1.200 israeliani trucidati, donne, bambini, disabili, e anche superstiti della Shoah, e 250 ostaggi nelle mani dei criminali di Hamas», esordisce l’ex premier israeliano Ehud Barak.

Barak è stato primo ministro tra il 1991 e il 2001, dopo una lunga carriera militare che lo ha visto al vertice delle forze armate israeliane come capo di stato maggiore. Come leader del governo partecipò nel 2000 al summit di Camp David promosso dal presidente americano Bill Clinton nel quale offrì a Yasser Arafat un articolato piano di pace attraverso il riconoscimento di uno Stato palestinese, che però non ebbe seguito. Sette anni più tardi, presidente del Labour Party, assunse l’incarico di ministro della difesa nel gabinetto presieduto da Ehud Olmert; in tale veste l’anno successivo guidò l’operazione militare contro Hamas a Gaza conosciuta come “Piombo fuso”.

Insieme ad Olmert è il primo ministro israeliano che più si è avvicinato ad una pace definitiva con i palestinesi. Negli ultimi anni ha fondato una nuova forza politica liberalsocialista, Israele democratico. Lo incontriamo nella sua abitazione al centro di Tel Aviv.

«Il 7 ottobre ha rappresentato sicuramente un collasso per tutto il nostro sistema: intelligence, forze armate, governo. Nelle successive 48 ore siamo riusciti a riprendere il controllo della situazione, ma è inutile negare che il colpo inferto è stato pesantissimo e ci interroga sotto molti aspetti. Principalmente mette in discussione il rapporto tra Stato e cittadini fondato sulla loro sicurezza, un contratto che in questo Paese precede qualsiasi altro tema, che siano i diritti personali, la solidarietà sociale, le uguali opportunità. Il dovere, cioè, dello Stato di garantire la sicurezza di ogni cittadino perché possa andare a dormire tranquillo e svegliarsi senza paure».

Presidente Barak, lei ha anche un prestigioso passato da militare. Secondo lei il 7 ottobre ha registrato un fallimento militare o anche politico?

Entrambi. Tecnicamente lo è soprattutto militare. Perché non sono stati letti appropriatamente i segnali di preparazione dell’attacco, che pure ci sono stati. Se solo nelle ultime due ore si fossero spostate truppe, elicotteri e droni lungo la linea di confine con Gaza, l’iniziativa terroristica di Hamas non avrebbe avuto lo stesso tragico esito. Tecnicamente dunque non ha funzionato il sistema di intelligence preventiva e di reazione immediata. Ma se allarghiamo il campo visivo è evidente che la responsabilità maggiore è quella politica. E riguarda direttamente la strategia perseguita da Netanyahu negli ultimi 4 o 5 anni, di utilizzare Hamas per marginalizzare il ruolo dell’Autorità palestinese di Mahmud Abbas. Pensi ad esempio alle quasi invitanti porte aperte agli ingenti finanziamenti del Qatar ad Hamas, circa 30 milioni di dollari al mese, che in cinque anni fanno la bella cifra di 1,5 miliardi di dollari, metà dei quali, secondo alcune stime, sono andati a finanziare la forza militare di Hamas. Quando Netanyahu veniva criticato per questo assecondamento rispondeva invariabilmente che chiunque avesse in opposizione la realizzazione dei “due Stati” doveva sostenere questo approccio favorevole ad Hamas. Questo gli consentiva di giustificare con la comunità internazionale - fosse il Papa o gli Usa o l’Unione europea - perché fosse impossibile aprire una negoziazione con i palestinesi nella direzione della realizzazione dei due Stati. Si può negoziare la realizzazione di uno Stato con dei terroristi? Chiaramente no. Questa era la sua narrazione, integrata dalla valutazione di una eccessiva debolezza e inaffidabilità della leadership di Mahmud Abbas che non è in grado di controllare Gaza ed Hamas. Il 7 ottobre questa assurda strategia di Netanyahu di “usare” Hamas in chiave anti-Olp per evitare veri negoziati di pace, è miseramente crollata. Ed è crollata anche un’altra tesi, quella per cui era possibile gestire il conflitto senza mai prendere una decisione forte e coraggiosa. Questa idea della rimozione dell’esistenza di un “problema palestinese” ha avuto un discreto seguito nell’opinione pubblica israeliana, che ha finito con lo scordare la permanenza di un latente conflitto. Il 7 ottobre è definitivamente crollata per la medesima opinione pubblica l’immagine di Netanyahu come di un affidabile “mr. Security”.

Ma parte dell’opinione pubblica, quella che aveva protestato ogni sabato per 42 settimane a Tel Aviv e Gerusalemme, lo aveva già manifestato.

Sì, ma anche questo ha avuto un concreto e forte impatto sugli avvenimenti del 7 ottobre. La riforma giudiziaria proposta dal governo rappresentava sicuramente un motivo di preoccupazione per la sicurezza nazionale. Questo aveva sostenuto dieci mesi fa il ministro della Difesa, Yoav Gallant, in base alle informazioni pervenute dai servizi, ma Netanyahu rifiutò di discutere la questione in seno al governo. Una cosa mai successa prima. Quando ero primo ministro se il ministro della Difesa avesse informato di una situazione di potenziale pericolo alle due di notte, alle otto del mattino avremmo convocato il governo. Così il ministro si è visto costretto a darne informazione direttamente al pubblico. La risposta di Netanyahu è stata quella di licenziarlo con una telefonata. Dimissioni che poi si sono dovute ritirare per le vivaci proteste della folla. La stessa cosa è avvenuta nel luglio scorso quando di nuovo i capi dell’intelligence segnalarono le possibili implicazioni dell’approvazione della riforma giudiziaria sulla sicurezza nazionale. E di nuovo furono ignorate. E’ un qualcosa che non ha precedenti nella storia del nostro Paese. Ma neanche in quella di altri: può immaginare che il presidente degli Usa, cioè lo Stato più presidenzialista d’occidente, ignori gli avvertimenti che gli giungano dalle forze armate?”.

Questa involuzione del regime democratico che lei denuncia dipende dalla presenza nel governo di ministri appartenenti al nazionalismo religioso?

Guardi, io credo che ci sia un gioco delle parti, loro pensano di manipolare Netanyahu, e Netanyahu pensa di manipolare loro. Vorrei che fosse chiaro che la mia non è un atteggiamento di ostilità politica e rivalità con l’attuale primo ministro, ma è l’espressione di una viva preoccupazione per il futuro della democrazia in Israele, che è in serio pericolo. Comprenderà che se Netanyahu avesse puntualmente informato il governo e la Knesset delle pericolose possibili conseguenze dell’approvazione della legge costituzionale di riforma della giustizia, questa molto difficilmente sarebbe stata votata. Perché, dunque, questa legge è così importante per Netanyahu da porre addirittura in secondo piano la sicurezza del Paese? Per il semplice motivo che la soppressione della indipendenza della magistratura, della sua titolarità a costringere alle dimissioni anche il primo ministro in caso di acclarati crimini commessi, è funzionale alla tutela e preservazione dei suoi interessi personali. Niente a che vedere con la sicurezza nazionale, una mera questione di interessi personali.

Prima di questa riforma della giustizia, nel 2018 è stata approvata un’altra legge costituzionale, la ‘basic law’ che definisce il carattere ebraico dello Stato d’Israele. Qual è il suo parere su quella legge?

Credo che quella legge sia stato un pessimo segnale di ciò che poi si è verificato in seguito. Perché si è trattato di un maldestro tentativo di inserire nel codice legislativo israeliano alcune parti della nostra Dichiarazione di Indipendenza. Come certamente saprà in Israele non abbiamo una Costituzione, e la Dichiarazione d’Indipendenza esprime i valori su cui si sarebbe dovuta redigere la Costituzione. Ma questo inserimento è avvenuto su pressione dell’ultradestra religiosa, distorcendo il senso di alcuni di questi valori: anzitutto quello dell’uguaglianza di ogni cittadino davanti alla legge, indipendentemente dall’etnia o dalla religione di appartenenza. Questo implica una potenziale discriminazione nei confronti di chiunque non sia ebreo.

L’opposizione a questo governo sembra tuttavia molto divisa. Lei, presidente Barak, fece scalpore anni addietro quando accettò di sostenere un governo di Netanyahu. Non pensa che se alle ultime elezioni le forze centriste di Yair Lapid e Benny Gantz avessero accettato di sostenere, pur con i loro distinguo, Netanyahu, lo avrebbero preservato dall’abbraccio con i nazionalisti religiosi?

Quando decisi di entrare nel governo di Netanyahu nel 2009 fu un’altra storia. Ero stato ministro della Difesa nei due anni precedenti nel governo di Olmert, ed ero particolarmente coinvolto nel duro confronto sulla questione del programma nucleare iraniano. Una questione molto delicata e importante che richiedeva una continuità d’impegno. Ora la situazione è invece completamente differente. Ci sono state ben cinque elezioni generali in tre anni, un record mondiale, che non hanno prodotto una maggioranza stabile e duratura. Alla domanda che lei mi rivolge dovrebbe piuttosto rispondere Netanyahu, perché sono convinto che non abbia mai, neppur lontanamente, considerato l’ipotesi di un governo unitario con le forze centriste. Lui aveva bisogno di formare questo governo, perché solo questo governo poteva garantirgli uno scudo dalle accuse di corruzione e frode che i giudici penali gli rivolgono. Il problema è tutto qui: abbiamo questo governo e siamo in questa grave situazione solo perché un uomo, il nostro primo ministro, cerca di sottrarsi alla giustizia.

Tra le possibili alternative a questo governo al termine della guerra, non sembra che alcuno tra i possibili leader - penso a Lapid o Gantz - citi espressamente l’opzione dei due Stati come la strada da perseguire.

Io credo che entrambi siano favorevoli ai ‘due popoli in due Stati’, ma comprenderà che con il clima emozionale di rabbia e dolore di queste settimane, non è sicuramente un tema da agitare ora. Ma penso che noi politici abbiamo un dovere innanzitutto: quello di dire la verità ai cittadini. E la verità è che non possiamo più rimuovere dalla nostra agenda l’esistenza di un ‘problema palestinese’. Certamente l’atmosfera che si è creata, sia tra di noi che tra gli arabi, dopo il 7 ottobre non aiuta. È vero che in passato le negoziazioni si sono sempre sviluppate dopo momenti di crisi. Ma c’erano ben altri leader allora. Leader capaci di negoziare il necessario compromesso, ma anche di rassicurare l’opinione pubblica soprattutto sul piano della sicurezza. Capaci di persuadere che la sicurezza futura degli israeliani è tutelata più dagli accordi che dalle armi. Ora sicuramente prevale nel popolo un sentimento di rabbia, una voglia di vendetta, che rende quasi assurdo parlare di negoziati, di accordi, di pace. Ma sono anche convinto che trascorso questo tempo, terminata la guerra, liberati gli ostaggi, sarà inevitabile porsi seriamente - e una volta per sempre - il problema palestinese. E l’unica via percorribile rimane quella dei due popoli in due Stati. Penso che quando si tornerà a ragionare, comprendendo ciò che è veramente successo, anche l’opinione pubblica israeliana si convincerà di questo. Ma necessiteremo, perché ciò possa effettivamente realizzarsi, di una nuova leadership dotata di visione.

La guerra a Gaza durerà ancora a lungo?

Israele si trova dentro una forbice ora. Da un lato c’è la necessità di concludere le operazioni di distruzione della forza militare di Hamas; operazioni che, a detta dei militari, potrebbero richiedere anche alcuni mesi. Dall’altro lato c’è la pressione della comunità internazionale per un cessate il fuoco, che nel giro di un paio di settimane diventerà insistente, e che se non ascoltata porterebbe Israele in un grave stato d’isolamento. I tempi dunque non coincidono. Credo che per uscire da questa forbice l’unica soluzione praticabile sia quella dell’intervento di una forza d’interposizione multinazionale che comprenda i paesi arabi più vicini, Giordania, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, e in un diverso modo anche il Qatar. Una forza che presidii anche il Sinai a protezione di Israele. Un intervento limitato ad alcuni mesi soltanto, per poi restituire Gaza ad una rinnovata Autorità palestinese.

Il problema però è che Netanyahu sembra avere già escluso questa possibilità.

Può anche escluderla, ma non vedo francamente altre strade praticabili, che non prevedano un coinvolgimento dei paesi arabi moderati e la ripresa della prospettiva dei due Stati. Una prospettiva radicalmente diversa da quella perseguita oggi dal governo. Sono confidente del fatto che il popolo israeliano non si lascerà sprofondare nel baratro a cui lo sospingono i razzisti del nazionalismo religioso. Ci sono al momento quattro questioni che ritengo prioritarie nell’agenda israeliana: la liberazione di tutti gli ostaggi, il confronto al nord con Hezbollah, che va trattato con la prudenza necessaria per evitare una regionalizzazione del conflitto, poi il recupero di una credibilità e legittimazione di Israele nella comunità internazionale. E, infine, una visione chiara sulla risoluzione del problema palestinese che non può prescindere dall’accettazione della prospettiva dei due Stati.

da Tel Aviv
Roberto Cetera