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Zona franca
A colloquio con il teologo Roberto Maier

La parola giusta

 La parola giusta  QUO-288
16 dicembre 2023

Spunti per un’antropologia dell’epoca


All’interno della serie di riflessioni sul tema delle sfide per la Chiesa nel cambiamento d’epoca, incontriamo don Roberto Maier che a fianco degli studi e degli insegnamenti teologici (fra le altre cose è docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore), vive da anni l’esperienza del centro di cultura per ragazzi “La Piccioletta Barca”, fondato insieme a Beatrice Gatteschi nella periferia di Milano, con lo scopo di propiziare l’accesso ai più alti gradi di studio a ragazzi che vivono in situazioni culturalmente o economicamente complesse. Una teologia incarnata, come si deduce anche dalle risposte date nell’intervista qui pubblicata.

Come possiamo leggere l’epoca in cui viviamo?

Il cristianesimo si propone oggi molto spesso come critica all’epoca: è anche uno dei motivi per i quali è apprezzato anche da chi non è cristiano, da chi, non avendo alcun particolare interesse nei confronti della fede, riconosce la necessità di ripensare il mondo in cui vive. Questa pars destruens ha i suoi successi ma ha anche i suoi rischi: è facilmente impugnabile nelle dispute e poi, una volta usata, la si mette facilmente da parte, insieme alle sue ragioni. Non solo, la critica all’epoca si riduce facilmente ad alcune parole d’ordine che, come oggi spesso accade, diventano facilmente retoriche: secolarizzazione, relativismo, cambiamento, individualismo, narcisismo, patriarcato. Provengono da letture rispettabili, proposte da personalità di altissimo spessore e delle provenienze più disparate, da Benedetto xvi a Papa Francesco, da teologi come Pierangelo Sequeri a pensatori laici come Massimo Recalcati; se a quelle più note aggiungiamo quelle meno convenzionali e più sorprendenti della filosofia o della sociologia, il repertorio da cui scegliere è potenzialmente infinito. Ovviamente esistono letture pertinenti e letture superficiali: tra un’acuta interpretazione e le banalità a cui siamo costantemente esposti - e di cui siamo costantemente protagonisti noi stessi - le differenze sono abissali. Eppure mi sembra che occorra anche riconoscere questo: l’epoca, che tutti vorremmo leggere, è propriamente ciò che è sottratto alla nostra lettura, è ciò che è per noi strutturalmente illeggibile. L’epoca è ciò che ci sforziamo sempre di leggere ma che, facendolo, leggiamo invano, ma è anche ciò di cui sempre parliamo, anche quando la vorremmo dimenticare, anche quando vorremmo uscirne. Gesù, che non è stato certo condiscendente nei confronti del male in tutte le sue forme, mi pare lasci radicalmente aperta la questione; quando dice che a questa generazione sarà «chiesto conto del sangue di tutti i profeti, che è stato sparso fin dalla fondazione del mondo: dal sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il tempio», fa riferimento a un giudizio escatologico che rimanda e non attribuisce a sé.

Mi pare ci siano almeno due motivi per cui l’epoca è illeggibile. Il primo, piuttosto banale, è che noi ne siamo parte. Al di là di tutto, al di là delle nostre pretese di prendere distanza, noi siamo l’epoca. È evidente, per esempio, che i fenomeni che attraversano la Chiesa sono quelli dell’epoca. Gli ultra-conservatori cattolici non sono uomini e donne dell’Ottocento: sono uomini e donne post-moderne che, del tutto prevedibilmente, ricercano ossessivamente una radice identitaria. Tornando al rifiuto di Gesù di pronunciare un giudizio sull’epoca, mi pare che il motivo sia esattamente il fatto che egli abita la storia. In una delle visioni dell’Apocalisse (5), l’Agnello – ossia il Figlio – è presentato come l’unica chiave possibile per aprire il libro della storia, ma è legato egli stesso al suo dramma: per questo c’è un’attesa, una dolorosa sospensione durante la quale nessuno «né in cielo, né in terra, né sotto terra» può aprire i sigilli dell’epoca, per quanto l’evangelista pianga di un pianto inconsolabile. Dovremmo allora leggere in senso forte l’affermazione di Papa Francesco secondo cui «la grazia suppone la cultura»: la suppone in modo radicale, proprio come suppone la natura, come un limite invalicabile, come le condizioni stesse del gioco. Come la grazia suppone la natura e non può fare di un essere umano un angelo, suppone anche la cultura: non può fare di un credente del nuovo millennio né un padre del deserto, né uno spettatore della fine del mondo. Questa impossibilità è la struttura stessa, l’epistemologia di ogni discorso sull’umano: l’antropologia è quella disciplina in cui il soggetto che conosce è insieme l’oggetto della conoscenza. Forse per questo ad “antropologia” si tende sempre ad aggiungere un aggettivo (teologica, culturale, filosofica, biologica): come se l’aggettivo dovesse salvarci dal sostantivo, come se il sostantivo da solo fosse una postura troppo difficile da reggere. Ma il fallimento di ogni antropologia è proprio quell’errore di parallasse che si compie là dove il soggetto ritiene che si parli di altro da sé, là dove il soggetto non sa vedere se stesso all’opera nella comprensione dell’umano: è la critica che fece un grande gesuita, Michel de Certeau, dall’interno stesso delle scienze umane, di cui aveva una stupefacente conoscenza. Quando si ignora che il soggetto che indaga è parte dell’investigazione, si commettono sempre gli stessi errori: c’è un profilo paradossale, quasi ridicolo, quasi una nemesi, per cui la critica cristiana all’epoca è spesso esattamente uguale, nell’errore di visione, a quella cancel culture che proietta un soggetto assoluto sulla storia, per la quale non si può più citare un autore o un filosofo senza prima aver verificato che non abbia pronunciato parole che oggi a noi appaiono discriminanti per le donne o per le persone di colore.

Ma c’è un secondo senso per il quale la lettura dell’epoca è impossibile: l’epoca è sempre un tutto, non è mai una parte. Nell’epoca si trova l’universale: il bene e il male, la fede e l’irreligiosità. Le nostre grandi riletture storiche sono sempre parziali: il Medioevo fu un’epoca cristiana, il Rinascimento riscoprì la centralità dell’essere umano, la modernità è l’epoca della razionalità; tutte queste epoche sono questo, ma sono molto più di questo, perché in ciascuna di esse c’è il mondo intero, complesso e meravigliosamente irriducibile a una delle sue parti. Chi attribuisce alla nostra epoca la fine della moralità dimentica che nell’Ottocento alcuni padri accompagnavano i figli nelle case chiuse per iniziarli alla vita adulta. Chi rimpiange il passato in cui tutti andavano a messa, dimentica che moltissimi uomini stavano sul sagrato fuori a fumare fino allo scoperchiamento del calice. Così, sull’epoca, hanno ragione tutti e non ha ragione nessuno. Se questo è vero, dovremmo allora provare a rovesciare il punto di vista: la lettura che diamo all’epoca, quella lettura che è di fatto impossibile dare, non dice nulla dell’epoca, ma dice tutto di chi la legge, perché dice ciò che egli ha deciso di leggervi, dice ciò che egli ha nel cuore. Lo dice in tutti i casi. Se non lo fa nella forma del coinvolgimento esplicito nella costruzione dell’epoca, lo farà nella forma del sintomo, della patologia: dopo la psicoanalisi sappiamo benissimo che l’umano dice di sé soprattutto quando non vuole dire nulla di sé. Ecco, dunque, dove siamo giunti: «la vita umana» è la vita che non può leggere l’epoca senza svelare al contempo e primariamente ciò che ha nel cuore.

Possiamo parlare dell’epoca?

Per provare a parlare dell’epoca, allora, vorrei proporre un passaggio di un’opera letteraria che mi ha molto colpito quando l’ho letta, recentemente. Ma prima vorrei dire perché scelgo proprio un’opera letteraria. Io credo che ci sia un ruolo fondamentale della letteratura, soprattutto di quella che è stata la grande stagione del romanzo, perché il modo con cui la letteratura legge l’epoca è molto diverso dal modo con cui lo fanno altri sistemi di pensiero. Silvano Petrosino ha lavorato recentemente sul tema. La letteratura è uno strumento, una tecnica, una tecnologia formidabile per leggere l’epoca precisamente perché sostituisce l’analitica con la narrazione, che è un sapere totalmente diverso dalla razionalità oggi vincente. Tra le varie differenze c’è questa: la letteratura non è un sapere accumulabile. Leggere i romanzi non significa mai accumulare conoscenze e modelli esaustivi; di fronte a un nuovo romanzo non si può mai dire «lo so già» e talvolta neppure di fronte a un romanzo già noto, quando ci apprestiamo a una rilettura. Chiunque è stato accanto a un’altra persona nei passaggi fondamentali della sua vita sa bene cosa intendo: nelle confidenze, nelle confessioni, nelle conversazioni l’incontro con la narrazione, con la vita e con l’esperienza dell’altro non si ripete mai allo stesso modo. Ciò vale in particolare nell’esperienza del dolore: non si impara mai veramente ad avere a che fare con il dolore; se hai perso la mamma, non è vero che sai come vivere la perdita del papà. È ciò che intuisce Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici sono uguali, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo». In questo, la narrazione si dimostra lo strumento scientifico dell’esperienza, come sosteneva già Michel de Certeau. Non solo: come ricorda Pierangelo Sequeri in un testo di recente pubblicazione, la narrazione è anche la lingua madre del cristianesimo. Quella a partire dalla quale si imparano le altre lingue, quella che risuonerà sempre nelle corde come il punto di partenza da cui si apprendono le altre lingue.

Tuttavia la narrazione non è ancora la letteratura, come tutti sappiamo, così come i nostri maldestri tentativi di comporre sonetti alle medie non erano poesia. La letteratura ha qualcosa di più. La letteratura condivide con la narrazione una forma non accumulabile di conoscenza, ma offre una conoscenza compiuta della realtà, una conoscenza esatta, perfetta. La letteratura ha la parola giusta, come si dice: la ricerca del grande scrittore è sempre la ricerca della giustizia della parola, di un accesso alla realtà attraverso una parola esatta. È chiaro che il principio di verità della letteratura non è mai il racconto, che, anzi, il più delle volte si esibisce come fiction. La letteratura è vera nella parola che non potrebbe essere diversa, perché dice compiutamente, dice esattamente ciò che intende dire. Ecco, proprio su questo vorrei citare un passaggio di un’opera di Annie Ernaux, un’opera sulla parola, su come si può fare raccontare un evento, come spesso capita nei testi dell’autrice. Proprio nell’opera L’evento, scrive: «Ho appena ritrovato fra le mie carte i fogli su cui avevo già scritto questa scena, parecchi mesi fa. Mi accorgo di aver usato le stesse parole […]. Questa impossibilità di dire le cose con parole diverse, questo definitivo congiungimento tra la realtà del passato e una singola immagine che esclude tutte le altre sono per me la prova che io ho realmente vissuto così l’evento».

La parola giusta è la prova che abbiamo veramente vissuto. Per me questo è il punto: l’epoca non ha bisogno di qualcuno che la giudichi e la misuri, ha bisogno di qualcuno che le dia la prova della sua esistenza, l’umano contemporaneo ha bisogno di qualcuno che gli dischiuda la rilevanza del suo essere al mondo. Provo a entrare nel merito della Chiesa italiana. Oggi siamo di fronte a un impressionante abbandono del cristianesimo; questo è senza dubbio un fatto, come dicono tutti: le chiese sono vuote, non ci sono più fedeli e tanto meno preti. Ma a me sembra ancora più problematico — e su questo non ho mai sentito nessuno dire niente — il fatto che questo abbandono sia un abbandono silenzioso. A differenza di chi sbatte la porta, a differenza di chi un tempo cercava l’alterco, chi abbandona silenziosamente il cristianesimo rimane esposto a questa domanda: «Ma io ho mai veramente creduto?». Una domanda che non trova risposta perché non trova nemmeno il coraggio di porsi mi sembra infinitamente più grave e più drammatica dell’abbandono stesso. Fino a quando noi non ci faremo seriamente carico di questa domanda, l’evangelizzazione sarà sempre solo proselitismo. Ma questa domanda non riguarda solo la fede, oggi. Riguarda questioni come la democrazia, la giustizia, la pace. Tutti quelli che si sono silenziosamente ritirati senza dare alcuna ragione dalla politica, dalla vita civile, dall’impegno culturale, del pacifismo, delle grandi passioni educative, sono attraversati, sono nullificati da questa domanda: «Io ho veramente vissuto la pace, la democrazia, il pacifismo?». La domanda non lascia immune nessuno: in tempi come questi, attraversa anche i discepoli, attraversa dolorosamente anche i presbiteri, per esempio. Qui la domanda diventa: «Ma io ho veramente mai avuto la vocazione a seguire il Signore Gesù?». Guardandomi intorno, vedendo la fatica (talvolta drammatica) di tanti amici preti, mi pare che questa domanda finirà per nullificarci, se non avremo il coraggio di porcela, se non avremo luoghi in cui la domanda possa risuonare senza creare scandalo, se non condividiamo insieme gli strumenti per provare a rispondere. La domanda non può nemmeno trovare risposta gettando – come si dice – la tonaca alle ortiche: chi dovesse semplicemente concludere che non ha mai avuto la vocazione, dovrebbe poi almeno spiegare a se stesso cosa gli è successo dieci, venti, trent’anni prima, quando ha deciso di scommettere la vita su questo. Noi abbiamo la responsabilità di questa domanda: dobbiamo a noi stessi e all’umano dare una prova, un’evidenza del fatto che abbiamo vissuto davvero, o quantomeno indicare dove può trovare gli strumenti per rispondere. Il cristianesimo, prima ancora di chiedersi se potrà continuare a esistere, se potrà sopravvivere all’epoca, deve chiedersi se è mai veramente esistito.

Il fatto è che, di fronte allo smarrimento per ciò che è accaduto in questi ultimi anni (il covid, le guerre, le crisi economiche, la crisi climatica), così come di fronte alla crisi delle parrocchie, non possiamo aspettare che accada qualcosa che possa rassicurarci, né immaginare che una strategia o un evento possano cambiare lo scenario: non sarà mai un fatto di cronaca a convincerci della nostra consistenza, ma solo una parola giusta. Né basterà un’opera di critica, una nuova sociologia: ci vorrà forse anche questo, ma non solo questo; il sapere della critica e della sociologia vivono ancora nella pretesa di stare fuori dall’epoca, di essere immuni all’epoca, sono saperi dell’immunità. Invece il sapere della letteratura resiste come sapere della comunità, per usare un gioco linguistico caro al filosofo Roberto Esposito. Quello della letteratura è un sapere della comunità perché è il sapere che, nell’epoca, genera il senso comune e, allo stesso tempo, è generato dal senso comune, quanto questo lo accoglie: è così che i grandi romanzi diventano classici. La letteratura trova la sua verifica nell’universale dell’umano, nell’essere-in-comune dell’umano.

Guardando alla Chiesa, mi pare ci siano una notizia cattiva e una buona. La cattiva notizia è che a questa attenzione alla parola giusta, per mille ragioni (ragioni storiche, che sono anch’esse difficili da giudicare), noi negli ultimi decenni sembriamo averne sostituite altre. Invece della parola giusta cerchiamo, per esempio, la parola efficace e seducente, oppure la parola dottrinalmente corretta. In queste distrazioni sembrano essersi concentrati gli sforzi di tutti, da destra a sinistra, dai sollevatori di dubia ai sollecitatori di like. Con il rischio che a molti sembra sia questo genere di verità (l’efficacia o l’ortodossia) ciò di cui la Chiesa si occupa, ma è una ricerca che delude tutti, sia noi, sia chi vorrebbe da noi una parola vera. La cattiva notizia è che quando noi ci concentriamo su questo (e quanto spesso lo abbiamo fatto, quanto spesso ci siamo distratti, con i nostri logoranti discorsi sul «parlare ai giovani» da una parte e sulla «verità incontrovertibile» dall’altra) la gente ci guarda come se li avessimo traditi, senza nemmeno sapere bene il perché. Forse non è nemmeno una cattiva notizia, perché dice implicitamente che si aspettavano da noi la cosa giusta.

Ma c’è anche una buona notizia: la Chiesa, nella sua lunga storia, non è mai stata tanto preoccupata di avere una parola seducente e, in fondo, non è stata neppure così radicalmente attaccata alla parola dottrinalmente corretta. Il cristianesimo è pieno di parole inefficaci e pure di parole scorrette, basti pensare alla lingua di Francesco d’Assisi o di tanti mistici o di quei “santi folli” che hanno costellato tutta la storia del cristianesimo. La Chiesa, però, è sempre stata convinta della necessità di pronunciare una parola giusta, persino contro l’efficacia comunicativa e la correttezza dogmatica. La parola del Vangelo, non a caso, è anzitutto una parola che verifica l’esistenza, che autorizza la libertà. Ritirarsi nello sconforto, ammettere che non abbiamo più le parole giuste per l’epoca, è una posizione ingenua. In realtà noi cristiani ogni domenica facciamo qualcosa di incredibile: leggiamo la stessa parola, ritenendola giusta e ci lasciamo leggere da essa, chiedendo che essa dia consistenza alla nostra vita. Un cristiano adulto lo fa da anni, la Chiesa lo fa da secoli: prendiamo una parola, una pagina di Vangelo, una lettera di Paolo, un oracolo profetico e partiamo dalla certezza, dall’assoluta certezza che quella sia la parola giusta per noi e che si tratti di scoprirne il modo, di decifrarla, di attendere che essa confermi il vissuto. È il compito che Gesù affida a Pietro: «conferma i tuoi fratelli». Questo è l’Evangelo che il cristianesimo porta nel mondo e che non ha mai smesso di portare. Solamente, come talvolta capita, ci siamo distratti, abbiamo pensato che valesse di più il contorno, mentre è quest’opera in cui dovremmo fortemente credere. Credere che il Vangelo non è una parola che spiega come vivere, ma piuttosto una parola che ci dimostra che stiamo davvero vivendo. Il compito della Chiesa non è mai stato parlare dell’epoca ma parlare all’epoca. È una delle tante lezioni contenute nel libro di Giobbe: la differenza tra Giobbe e i suoi amici non sta nel contenuto dei discorsi ma nel fatto che questi ultimi parlano di Dio mentre Giobbe vuole parlare a Dio. Forse il compito della teologia è parlare di Dio (su questo potremmo discutere) ma di certo il compito della fede è parlare a Dio.

Come possiamo parlare all’epoca?

A questo punto mi sembra più semplice rispondere all’ultima domanda: come parlare all’epoca, come parlare all’umano contemporaneo. Sembrerà un paradosso, ma questa domanda è più semplice rispetto alla prima, rispetto alla lettura su com’è l’umano di oggi. Mentre l’altra aveva una risposta impossibile, questa ha una risposta possibile, perché l’umano di oggi — come quello di ieri e come quello di domani — cerca qualcuno che gli restituisca la certezza di aver vissuto, di contare qualcosa, di avere vita e parola. Mi sembra che la Chiesa abbia azzeccato il tema decisivo, quello del sensus fidei fidelium, tema che sta al centro del sinodo ma che, forse, non abbiamo del tutto colto nella sua portata teologica e antropologica. Al fondamento dell’antropologia cristiana sta un dato: che l’umano è capax Dei. Che l’umano non si sbaglia a proposito di Dio, che abbiamo un sentire — non un contenuto e nemmeno un pensiero — ma un sensorio che è capace di Dio, della vita, della verità. Non è affatto una teoria nuova, non è una scoperta della modernità, né di Papa Francesco, che ha, caso mai, il merito di averla posta nuovamente con forza. La Chiesa non ha mai smesso, in qualche modo, di ritenere che l’umano sia convocato da Dio in quanto capace di lui, degno di essere suo interlocutore. Persino nell’alterco di Giobbe, persino nella lotta di Giacobbe, in cui non si distingue più l’abbraccio dalla morsa.

Il tema del sinodo dovrebbe proprio essere quello di un’autorità che autorizzi l’altro a essere autore di se stesso, e il Papa ne è consapevole, quando dice che la Chiesa è per sua natura sinodale. Ho qualche dubbio che il sinodo in sé possa essere all’altezza della sfida, perché fino a ora sembra avere assunto solamente due tratti della questione: uno, nelle attese di alcuni, è la messa in discussione dell’esercizio del potere; l’altro, forse nelle intenzioni dell’istituzione stessa, è quella figura della conversazione spirituale che sembrerebbe escludere un cambiamento reale, storico. Tuttavia, in questo, la Chiesa è profetica, perché la questione che noi chiamiamo sensus fidei è il tema di fondo di questa fine della modernità, di questa post-modernità (o della sperata neo-modernità). L’umano sembra chiedere che qualcuno gli permetta di prendere sul serio la sua libertà, che qualcuno lo aiuti a trovare la prova di aver vissuto e di non aver vissuto invano. Dal mio piccolo punto di vista mi sono occupato proprio della relazione tra la scienza e la democrazia: i conflitti a cui assistiamo, il proliferare di quelle che normalmente chiamiamo posizioni anti-scientifiche, mi sembrano spesso una reazione a quella disabilitazione del cittadino e del suo sapere che gli ultimi decenni hanno generato. Questo tema merita di essere messo al centro, altrimenti perdiamo il bene che l’epoca produce. Persino la questione ecologica, che potrebbe diventare un luogo in cui l’individuo contemporaneo raccoglie una sfida e prova a fare la differenza, rischia di consumarsi (e di consumarci) se lasciamo il campo solo alle contrapposizioni o a visioni distopiche di futuri catastrofici. Per noi cristiani rispondere è piuttosto complesso perché abbiamo sprecato le nostre energie migliori nella critica all’individualismo, immaginando che sia una cifra malvagia dell’epoca. Il fatto è che, al di là degli eccessi, io non rinuncerei mai all’individuo, al soggetto, alla sua storia, alla sua libertà. L’individualismo ha i suoi difetti, ma non rimpiango né i disastri di una retorica del popolo tipici dei totalitarismi, né il lobbismo dei collettivi, né l’ambiguità del mito della comunità perfetta tipico di alcune retoriche dei movimenti cattolici. Ritengo che la questione del soggetto rimanga la chiave decisiva grazie alla quale possiamo sciogliere i nodi della modernità.

Vorrei terminare allora con due indicazioni che penso possano dare un piccolo contributo, quasi due consigli che vorrei dare al cristianesimo dell’epoca. Il primo riguarda soprattutto l’ambito educativo. Penso che oggi le nostre comunità debbano investire le loro energie migliori sulla parola, ossia, in qualche modo, sulla cultura. Non penso solo alla cultura cristiana ma alla cultura umanistica in sé, alla letteratura, alle grandi opere dello spirito umano che si propongono come principio critico della realtà. Penso alla cultura come possibilità di dare parola al soggetto, alla cultura come possibilità di consegnare all’altro la parola giusta o almeno l’idea che si debba cercare una parola giusta, una parola che autorizza a vivere. L’intuizione educativa di Lorenzo Milani, purificata dai garbugli politici dell’epoca, mi sembra ancora da raccogliere; forse dopo aver speso centinaia di migliaia di euro in campi da calcio e infinite risorse nell’animazione, dovremmo incominciare a investire in cultura. Ai nostri ragazzi – pochi o tanti che siano – possiamo dare qualcosa che ormai solo in pochi danno: l’amore per la parola, per la sua efficacia, per la sua potenza esistenziale. Se la grazia suppone la cultura, se il percorso della fede è un tutt’uno con l’umanizzazione dell’umano, possiamo forse oggi ricominciare a pensare all’educazione cristiana come a un luogo in cui si consegnano ai piccoli gli strumenti necessari per il pensiero.

Il secondo è invece un ambito per me ancor più epocale. Lo dico nel modo più semplice (e banale, forse): una delle questioni oggi realmente decisive è che le persone buone si incontrino. Ci guardiamo intorno sgomenti, come se non ci fossero più uomini e donne di buona volontà: non è vero, ci sono ancora. Ma è difficile che si incontrino, che si riconoscano, che si parlino. A me sembra evidente che le comunità cristiane possano e debbano diventare luoghi ospitali per chi ha cura dell’umano. Anche semplicemente per dare senso agli spazi a nostra disposizione, oggi troppo grandi per noi. Tutti parlano di “fare rete”, è diventata quasi una necessità in moltissimi ambiti; io non amo molto questa espressione, ma credo fermamente nella coltivazione di un’amicizia nel bene con chiunque lo voglia generare, con chiunque voglia abitare l’epoca in modo non retorico. La chiamata all’azione tipica delle encicliche sociali di Papa Francesco mi sembra un buon esempio di amicizia nel bene. Se le nostre comunità fossero aperte a chiunque voglia condividere una riflessione sull’umano comune in modo reale, autentico, da qualunque ambito provenga, avremmo regalato all’epoca qualcosa che nessuno è in grado di darle. Un’amicizia nella cultura mi sembra oggi la perla preziosa da cercare insieme.

di Andrea Monda
e Roberto Cetera