· Città del Vaticano ·

A colloquio con la scrittrice statunitense Marilynne Robinson

Quel mistero
chiamato scrittura

 Quel mistero  chiamato scrittura  QUO-287
15 dicembre 2023

Marilynne Robinson, 80 anni lo scorso 26 novembre, è di passaggio a Roma e si lascia volentieri intervistare per parlare di fede, immaginazione e del mondo contemporaneo, segnato dall’aggressività e da quella «terza guerra mondiale a pezzi» di cui parla da oltre dieci anni Papa Francesco.

La prima battuta è sul suo romanzo Gilead, del 2008, dall'autrice definito «un esercizio di contemplazione» che aggiunge «Non avrei voluto scrivere niente che non fosse realmente vero. La scrittura è una forma di pensiero dall’interno».

Durante la conversazione le riferisco la definizione che padre Timothy Radcliffe ha dato del Sinodo che si è svolto a ottobre in Vaticano: una «esperienza immaginativa», cioè un’occasione grazie alla quale tante persone sedute allo stesso tavolo, hanno confrontato la propria immaginazione con quella degli altri e così, inevitabilmente l’hanno anche trasformata.

«Credo che l’immaginazione, nell’esperienza individuale umana, sia molto più attiva e preziosa di quello che crediamo» osserva la romanziera americana, «una mente umana esiste in un campo di esperienza che è molto più vasto di quanto pensiamo e che effettivamente può avere intuizioni che sono rivelazioni del divino, nello stesso modo in cui potrebbe fare un grande poeta o un libro della Bibbia. Qualcosa di vero nel senso di veramente santo. Credo allo stesso tempo che l’immaginazione possa essere abusata, come tutte le cose umane. Penso che nella cultura contemporanea ci sia una tendenza a sottostimare l’essere umano e ne stiamo pagando le conseguenze a diversi livelli. E invece dobbiamo onorare il fatto che le nostre vite sono piene di immaginazione. Essa è come l’angelo dell’essere umano che vede al di sopra di ciò che sembra essere reale e pratico. Semplicemente noi svalutiamo noi stessi e limitiamo i nostri poteri, se non riconosciamo la forza dell’immaginazione».

La conversazione slitta naturalmente sul tema del racconto, un potere dell’uomo anch’esso, come l’immaginazione, ambiguo, che può essere usato in senso positivo ma anche negativo. Ricordo alla scrittrice che Papa Francesco nel messaggio per le Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 2020 ha parlato della necessità di tornare a raccontare storie, storie belle e buone.

«Sono d’accordo con il Papa e penso che storie straordinarie possano fare un bene straordinario. Non saprei dire in termini generali cosa rende buona una storia, posso dire che io, personalmente, amo vedere la riconciliazione nelle storie. Purtroppo non credo che al momento stiamo producendo tante storie degne di nota, perché molto spesso le persone che riconoscono il male, le difficoltà, ne scrivono senza compassione, in un certo senso, come se sapessimo sempre a chi dare la colpa. Credo che questo sia il modo in cui gli esseri umani vanno incontro a problemi e abusi terribili. L’immaginazione invece ci dà la possibilità di un senso più completo delle motivazioni e della percezione dell’esperienza».

Le ricordo del suo testo, pubblicato su queste pagine proprio a partire da quel messaggio del Papa per chiederle se, dopo tre anni fa la sua riflessione sulla necessità della compassione, sia da rivedere dopo tutti gli eventi degli ultimi tre anni. «Trovo che la compassione sia più faticosa oggi di quello che poteva essere tre anni fa. Francamente non capisco cosa stia accadendo, qual è la ragione che muove le persone. In America abbiamo avuto fazioni separate dalla guerra civile in poi e in questi casi una parte del territorio è contro l’altra parte. Tutto questo divide le famiglie. Le persone che dovrebbero sentirsi fortunate, sono addolorate. Le persone che dovrebbero essere capaci di compassione, provano una rabbia terribile. Faccio fatica a comprendere. Quello che amo dell’America è che abbiamo avuto sempre una continua immigrazione, per tanto tempo. Improvvisamente, però, le persone di seconda generazione non sopportano più l’immigrazione. Dicono cose brutali. È molto difficile da capire. Credo che sia anche un fallimento della religione. Molte chiese sono diventate organizzazioni che sostengono e incoraggiano certe cose che possono essere considerate chiaramente non cristiane. Io stessa ho da poco mandato una lettera piena di rabbia ai miei ministri chiedendo dov’è andata a finire la Chiesa liberale. È scioccante vedere la sicurezza con cui alcune persone credono che gli altri siano i peccatori».

In una lettera indirizzata a suo figlio nel 1944, lo scrittore J.R.R.Tolkien scrive che «l’uomo può essere redento da una storia commovente». E ne ha scritta una.

«Sì, la scrittura però resta sempre qualcosa di misterioso e sorprendente. A volte scrivi di fede, di riconciliazione, della conoscenza del mistero dell’altro nonostante molti non credevano che fosse più possibile farlo. Invece lo è. L’unica cosa da fare è elaborare il testo per poi scoprire che le persone hanno ancora voglia di visioni di bontà umana. Molti scrivono di violenza e corruzione, come se stessero facendo qualcosa per scoraggiarle, ma non è quello che poi producono».

Nei suoi romanzi c’è sempre una forma di speranza. È d’accordo sulla famosa definizione di Flannery O’Connor che affermava che il lavoro dello scrittore è descrivere «l’opera della grazia in un territorio occupato dal diavolo»?

«Assolutamente sì. La grazia è molto importante, sostiene ogni cosa ed è una speranza per tutto. Ed è l’esperienza umana primaria. Una delle cose che mi dà più fastidio è che solo se sei in grado di notarlo, vedi continuamente persone che fanno cose generose».

È d’accordo con quelli che dicono che nell’attuale società delle immagini il bombardamento quotidiano di immagini rischiano di desertificare la nostra immaginazione?

«Ho visitato da poco la Cappella Sistina. Credo che la ricchezza delle immagini possa in realtà alimentare l’immaginazione in maniera straordinaria. Credo dunque che sia questione di capire quali immagini e in che spirito vengano proposte».

Quali sono i suoi autori preferiti?

«La mia formazione è shakespeariana e torno sempre a quella. Amo anche gli autori americani del diciannovesimo secolo, come Henry James, o coloro che hanno scritto sulla presenza percepita di Dio nella natura, un’altra cosa bellissima che deve essere recuperata perché si è ridotto questa dimensione come fosse sentimentalismo, come se l’antichissima idea che Dio adornasse il mondo di bellezza sia priva di senso».

Quando le parlo della responsabilità degli artisti e degli scrittori in particolare, la Robinson sembra spostare la discussione altrove, più in alto. «L’esperienza della persona di fede è che viene costantemente richiesto più di quanto si possa dare, e questo, che è molto bello, dovrebbe far ripartire il nostro obbligo verso le altre persone. Le persone inclini a riflettere hanno creduto fin dall’inizio che c’è di più nella realtà, intendo qualcosa di molto più profondo di quello che sperimentiamo. Per apprezzare adeguatamente l’esperienza della vita dobbiamo renderci conto che esistiamo in un “sistema dell'essere” molto più grande e molto più ricco di quello tradizionalmente riconoscibile».

Parliamo di Papa Francesco, dell’incontro con gli artisti in Vaticano («non ci sono potuto andare, avevo il covid») e del recente appello a far risplendere il volto di Cristo con un nuovo linguaggio.

«Credo sia straordinario — continua Robinson —. L’assunzione storica della Chiesa con la creatività è così profonda. C’è infatti una grande connessione. Ogni arte che crea un senso di grazia riguarda Gesù. Gesù per me è importante come presenza nel mondo e non come un uomo che ha vissuto nella storia: Gesù si vede nei gesti dei credenti».

Chiedo quindi informazioni sul nuovo saggio Reading Genesis, che uscirà il 12 marzo 2024. «Quello che ho scritto è una rilettura della Genesi, che è giustificata dalla forza del testo stesso. Sono stata interessata alla Genesi da quando avevo vent’anni. Quando l’ho letta, mi è sembrata profonda letteratura. Mi è sembrato molto importante per me perché nella Genesi si stabilisce la natura di Dio e vengono dette inoltre alcune cose fondamentali riguardanti l’umanità. Non deve essere rigettato come un documento primitivo, con storie belle ma non vere, come ad esempio quella sul peccato originale. Personalmente credo nel peccato originale, penso che descriva qualcosa che è vero. Non credo che cogliere una mela sia la causa del nostro dolore, ma credo che anche nelle migliori circostanze, anche con le migliori intenzioni, è abbastanza impossibile fare la cosa giusta. Il peccato originale può essere compreso come la nostra incapacità di fare il bene. Se si analizza l’intenzione dietro tutte le Sacre scritture, è davvero profonda».

Qual è il suo personaggio preferito della Genesi?

«Mi piace Giacobbe, ma tutta la Genesi è un libro bellissimo».

Rimaniamo coinvolti sul tema del peccato originale e quindi del Male. Del fatto che esiste un’epica nella vita quotidiana, che la vita sulla terra sia sempre una battaglia e la scrittrice è d’accordo, suo malgrado: «Sì, esiste questa epica, ma sarei felice lo stesso se non fosse così. Siamo un grande problema per noi stessi, la nostra umanità crea conflitti insostenibili. E allora abbiamo bisogno di crearci un senso di sicurezza e finiamo per identificare alcune persone con il Male. Questo è un meccanismo spaventoso. Secondo me è meglio pensare al peccato originale. Se le persone potessero semplicemente non uccidere, non rubare, la vita del mondo sarebbe semplice, ma invece c'è questo impulso di creare un meccanismo di sicurezza, riconoscendosi nel lato giusto e per farlo dobbiamo trovare un lato sbagliato (e popolarlo di persone)».

di Andrea Monda


«Gilead»: un esercizio di contemplazione


«È stupendo osservare la gente mentre ride, il modo in cui si lascia quasi prendere completamente. A volte cerca di resistere con tutte le forze. Lo vedo succedere spesso in chiesa. Perciò mi chiedo quale sia la natura del riso e la sua origine, e mi chiedo che cosa espella dal nostro organismo, costringendoci, come fa, a continuare fino alla fine, un po’ come il pianto...».

 «(…) È un pianeta interessante, il nostro. Merita tutta l’attenzione che gli puoi dedicare».

«Al sole, i capelli di un bambino sono pieni di riflessi (…) Tutto questo va benissimo, ma io ti amo soprattutto perché esisti. Secondo me l’esistenza è la cosa più straordinaria si possa immaginare. Presto mi vestirò di immortalità. In un batter d’occhio, in un baleno. Un baleno, un batter d’occhio. Che meravigliosa associazione. Di quando in quando mi è capitato di pensare che sia la cosa più bella della vita, quel luccichio, quella piccola incandescenza che scorgi nella gente quando rimane colpita dal fascino di una cosa, o dal suo aspetto comico. “Uno sguardo luminoso allieta il cuore”. Questo è un dato di fatto». 

«Ultimamente ho riflettuto sull’esistenza. Di fatto, sono stato talmente ricolmo di ammirazione per l’esistenza che quasi non riuscivo ad assaporarla in modo adeguato. Questa mattina, mentre ero diretto su alla chiesa, sono passato davanti a quel filare di grandi querce che costeggia il monumento ai caduti (…) Era una notte, o una mattina, assai limpida, assai silenziosa, e in quello che avveniva tra gli alberi c’era un’energia grandissima, come in una tempesta, o in un parto. Indugiai lì, un po’ fuori tiro, e pensai: è ancora tutto nuovo per me. Ho vissuto tutta la vita nella prateria e un filare di querce riesce ancora a stupirmi (...). Dicono che un bambino piccolo non ci vede, però lei aprì gli occhi, e mi guardò. Era una creaturina piccolissima. Mentre la tenevo in braccio aprì gli occhi. Lo so che in realtà non mi scrutò in viso. La memoria può far apparire una cosa molto più densa di significato di quanto non fosse in realtà. Ma so che la bambina mi guardò dritto negli occhi. È una cosa bellissima. E sono contento di averlo capito allora, perché adesso, nella mia attuale condizione, adesso che sono in procinto di lasciare questo mondo, mi rendo conto che non c’è nulla di più straordinario di un viso umano (...) Ha a che fare con l’incarnazione. Quando hai visto un bambino e lo hai tenuto in braccio ti senti obbligato nei suoi confronti. Ogni volto umano esige qualcosa da te, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine. E questo è ancora più vero nel caso del viso di un neonato. Considero quest’esperienza una sorta di visione, altrettanto mistica di tante altre».   

«Così è la vita: mandiamo i nostri figli nel deserto. Alcuni, a quanto pare, nel giorno stesso in cui nascono, nonostante l’aiuto che possiamo dar loro. Alcuni sembrano una sorta di deserto in sé. Ma anche là ci sono sicuramente angeli, e sorgenti d’acqua. Perfino quel deserto, la dimora degli sciacalli, è del Signore. Devo tenerlo a mente».   

«Questa è una cosa importante, che ho detto a molte persone, e che mio padre disse a me, come il suo a lui. Quando incontri un’altra persona, quando hai a che fare con una persona qualsiasi, è come se ti venisse posta una domanda. Allora devi pensare: Che cosa mi chiede il Signore in questo momento, in questa situazione? (…)  Quest’ultima [l’altra persona] probabilmente riderebbe all’idea che il Signore te l’abbia mandata per il tuo (e il suo) beneficio, ma proprio in questo consiste la perfezione del travestimento: il fatto che l’altro ne sia all’oscuro».