· Città del Vaticano ·

Hic sunt leones
Auspicabile una visione paritaria, di rottura con il passato e senza posizioni predominanti

Africa-Europa:
un futuro tutto da costruire

 Africa-Europa:  QUO-287
15 dicembre 2023

L’evoluzione dello scenario globale ha attirato una crescente attenzione da parte degli analisti sul posizionamento dei Paesi africani rispetto alle principali questioni internazionali. Molta enfasi è stata posta sul loro orientamento nei forum internazionali, sulle rivendicazioni politiche ed economiche, sulle proteste della società civile, tutti elementi che indicano un deciso cambio di rotta, particolarmente nei confronti delle ex potenze coloniali europee. Viene pertanto spontaneo domandarsi se quella che viene definita come espressione di un crescente sentimento antioccidentale, possa presagire ad una definitiva rottura con i tradizionali partner occidentali. O se invece vi siano ancora i presupposti per trasformare la critica in una comprensione più profonda e reciproca.

In effetti, soprattutto a seguito della crisi russo-ucraina e di quella israelo-palestinese, si sta sempre più configurando, il concetto di «non allineamento» nella versione innovativa del cosiddetto Global South, anche se poi questo principio guida sembra essere anni luce distante dalla retorica della guerra fredda all’interno del quale si palesò. In effetti, le ricerche e le analisi sulle traiettorie politiche, sulle dinamiche geopolitiche e l’evoluzione geoeconomica del continente africano, con particolare riferimento alla macroregione subsahariana, indicano una trasformazione che non è lecito sottovalutare. Il fatto stesso che l’Europa in particolare sia sempre più blindata nei confronti del complesso fenomeno della mobilità umana la dice lunga. Manca, infatti, un’azione concertata tra Stati membri, Commissione e Bce che possa consentire quella osmosi dei flussi di persone e di beni, contrastando gli istinti isolazionisti radicati nel Vecchio Continente. Naturalmente il dibattito sulla maggiore o minore pertinenza della politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere europee in ambito migratorio è sempre aperto, ma inconcludente. Finora tutti i tentativi di riformare il regolamento di Dublino, approvato nel 1990 ed entrato in vigore nel 1997 e che attualmente norma le procedure di accoglienza e gestione delle domande d’asilo, si sono dissolti in bolle di sapone. E dire che oggi è sempre più evidente che quelle regole risultano essere non solo datate e inefficienti, ma anche fondamentalmente ingiuste verso i Paesi di frontiera (come l’Italia), obbligando il primo Paese dell’Unione in cui i migranti e i rifugiati mettono piede a identificarli e trattenerli per tutto il tempo necessario affinché la loro richiesta venga vagliata (due anni in media). Nel frattempo — è la cronaca quotidiana a raccontarlo — si procrastinano nel tempo eventi luttuosi nel vasto “cimitero liquido” del Mediterraneo.

La verità è che se s’intende controllare i confini, è necessario che i decisori politici europei si rendano conto del fatto che essi non si limitano allo spazio Schengen, né al Mare Nostrum, ma inglobano un perimetro di interessi ben più ampio che circoscrive in particolare l’intero continente africano. Basti pensare all’attività estrattiva e al giro d’affari delle materie prime, energetiche in primis. Siamo, infatti, di fronte a uno spazio assai ampio, che coinvolge un numero crescente di persone le cui preoccupazioni quotidiane sono ben lungi da qualsiasi aspirazione a diventare migranti clandestini intenzionati ad andare in Europa. Ecco perché s’impone la necessità di trovare delle soluzioni ragionevoli per contrastare l’ignobile tratta dei migranti, restituendo a tanta umanità dolente la propria dignità.

Pertanto urge oggi più che mai un sistema di accoglienza dei richiedenti e dei rifugiati adeguato alle emergenze con percorsi efficaci di inclusione, come peraltro auspicato in più circostanze dal Santo Padre. Ma perché ciò sia realmente possibile occorre favorire l’immigrazione legale per contrastare quella illegale, attraverso, ad esempio, i corridoi umanitari. Purtroppo finché l’Europa non cambierà atteggiamento in materia migratoria le distanze con l’Africa si acuiranno a dismisura.

Non è un mistero che quando si tratta d’importare commodity africane, idrocarburi in primis, le cancellerie del Vecchio Continente non manifestino preclusioni di sorta. Motivo per cui alcune di esse sono state accusate d’ingerire nelle vicende di non pochi Paesi africani (soprattutto sul versante occidentale del continente) per salvaguardare i propri interessi geostrategici. Il fenomeno dei Flussi finanziari illeciti (Iff), di cui abbiamo ampiamente scritto la settimana scorsa, rientrano in questo ragionamento e sono sintomatici dell’impoverimento di un intero continente. A tutto ciò si aggiungono gli effetti devastanti della crisi russo ucraina. L’impennata dei tassi d’interesse rende sempre più difficile la ricerca di fonti di finanziamento alternative per i Paesi svantaggiati, soprattutto quelli africani.

Qui le responsabilità, come abbiamo scritto già tante volte, ricadono soprattutto sulle istituzioni finanziarie internazionali, le quali pretendono che le concessioni per lo sfruttamento delle materie prime, unitamente alle privatizzazioni, vengano attuate «senza se e senza ma», per arginare il debito. Sta di fatto che le prospettive, guardando al futuro, sono tutt’altro che rosee. La Banca mondiale (Bm), nelle previsioni contenute nel rapporto Africa’s Pulse segnala che nel 2023 il prodotto interno lordo (pil) dell’Africa subsahariana è aumentato del 2,5 per cento, in calo rispetto all’aumento del 3,6 per cento registrato l’anno scorso. È previsto un rimbalzo nel 2024 e poi nel 2025, con incrementi rispettivamente del 3,7 e del 4,1 per cento. A trainare la tendenza al ribasso sono le maggiori economie del continente. In Sud Africa la crescita prevista è dello 0,5 contro il +1,9 per cento del 2022. Mentre in Nigeria e Angola, principali produttori africani di petrolio, si prevede un calo rispettivamente dal 3,3 al 2,9 per cento e dal 3 all’1,9 per cento. In questo contesto giocano a sfavore anche gli altalenanti ritmi dei processi di cooperazione africana con il resto del mondo.

Le difficoltà che sta incontrando il Continental Free Trade Area (AfCFTA), l’area di libero scambio africana, lo confermano. La decrescita africana — è bene sottolinearlo per comprendere il fenomeno dei cosiddetti “migranti economici” — si traduce in mancata capacità di creare posti di lavoro e di contrastare la povertà. Stando a quanto rileva la Banca mondiale, in Africa ogni anno si generano 3 milioni di nuovi posti di lavoro nonostante i giovani che vorrebbero accedere al mercato siano oltre 10 milioni. Non è dunque una fatalità se il pil pro capite del Lussemburgo — uno dei Paesi più piccoli dell’Ue con una popolazione di 634.000 abitanti — è di 130.000 dollari, quasi 415 volte quello del Paese più povero del mondo, il Burundi. Quest’ultimo, con una popolazione di quasi 13 milioni di persone è infatti l’ultimo della classe con il pil pro capite più basso al mondo che ammonta a 308 dollari. Da rilevare che anche il secondo e il terzo nella classifica dei redditi sono due Paesi africani, rispettivamente la Sierra Leone e il Malawi, entrambi con quasi 200 dollari di pil pro capite in più rispetto al Burundi. Queste diseguaglianze vanno evidentemente contrastate anche perché le pressioni demografiche che portano zone dell’Africa ai limiti della sostenibilità (attualmente l’Africa ha una popolazione superiore al miliardo e 400 milioni e un’età media di vent’anni), unitamente allo sfruttamento indebito delle terre (land grabbing), nonché i processi di urbanizzazione disordinata, a cui si aggiungono le aree di conflittualità (dalla fascia saheliana al Corno d’Africa), per non parlare delle sfide connesse al cambiamento climatico, inclusa la desertificazione e il moltiplicarsi di fenomeni climatici estremi, sono tutti fattori altamente destabilizzanti.

Di fronte a questo panorama, è illuminante il suggerimento del professor Romano Prodi, ex presidente del Consiglio italiano ed ex presidente della Commissione europea, nonché ex presidente del Gruppo di lavoro Onu-Unione Africana sulle missioni di peacekeeping in Africa e presidente della Fondazione per la collaborazione tra i popoli. In un interessante articolo apparso sul quotidiano «Il Messaggero» del 29 luglio scorso, auspica, anche in considerazione dei molteplici golpe che hanno interessato recentemente alcuni Paesi dell’Africa occidentale, «un summit “Africa-Europa” preparato da un intenso lavoro volto a garantire che si tratti di un’iniziativa veramente concreta e paritaria, nella quale sia chiara la rottura col passato e sia altrettanto chiaro che nessun Paese pretende di avere un ruolo dominante».

di Giulio Albanese