· Città del Vaticano ·

Le figure minori ne «I promessi sposi»

Non macchiette
ma modelli di umanità

 Non macchiette  QUO-283
11 dicembre 2023

C’è un fondo popolano che informa e innerva la struttura de I promessi sposi. Intorno a Renzo e a Lucia vibra un mondo in sé concluso, il mondo degli umili. Mentre si dispiega la vicenda che anima il romanzo, si assiste a un brulicare di contadini, artigiani, barcaioli, barrocciai. «Povera gente — osservava Natalino Sapegno — tormentata dall’ingiustizia degli uomini e dalla crudeltà della sorte, ma non distorta e soffocata, tuttavia umana e solidale, sempre pronta al bene nei pensieri e nelle opere». A dispetto di quanto sosteneva Antonio Gramsci, secondo cui in Manzoni «l’atteggiamento verso il popolo non è popolare nazionale ma aristocratico» e i suoi personaggi umili «non hanno vita interiore» essendo presentati come «macchiette», lo scrittore lombardo mostra sempre verso i rappresentanti dei ceti meno abbienti un’attenzione che non svapora nel paternalismo, ma che si alimentata di un autentico spirito cristiano, sensibile ai bisogni di chi è ai margini della società e rischia di non essere ascoltato.

Quelle che di primo acchito possono sembrare banali «macchiette», assurgono invece, nella loro fulminea e pregnante caratterizzazione, a modello di un’umanità spicciola e vera, in cui ciascuno, a prescindere dalla sua condizione sociale, può riconoscersi. Anche in ogni personaggio minore, grazie al cattolicesimo ecumenico di Manzoni, risiede una esaustività di sentimenti e di pulsioni che contribuisce a conferire al romanzo una dimensione polifonica, alla maniera delle opere di Dostoevskji, in cui spicca il felice e fertile intreccio tra protagonisti e figure comprimarie.

Donna Prassede è ossessionata dal desiderio di fare del bene al prossimo. Tuttavia non conosce moderazione e finisce per essere di intralcio. Eppure in questo suo molesto interferire brilla il genuino slancio, di chi sa che nella società non ha voce, volto ad aiutare (nel caso specifico Lucia) coloro che si trovano in difficoltà. Tonio è un contadino che abita vicino alla casa di Lucia. È indebitato con don Abbondio e ha sulle spalle una numerosa famiglia da sfamare. Di ragioni per essere triste, dunque, ne avrebbe: al contrario, si mostra sempre allegro, ama il buon vino e cerca di avere una buona parola per tutti. Si specchia in lui il simbolo di un piacere sano di vivere nonostante obiettive e pesanti difficoltà. Più scaltro di lui è l’oste, che è il padrone della locanda dove Renzo si reca con il poliziotto travestito, dopo i tumulti del giorno di san Martino a Milano. Ha una faccia «pienotta» e «due occhietti chiari e fissi». Subito, nonostante il travestimento, riconosce il poliziotto ed è incerto se Renzo sia «cane o lepre», ovvero un poliziotto anche lui o una sua preda. Comprende che Renzo è nei guai, o che rischia di finirci sul serio e, sebbene non dimentichi per un attimo gli interessi della locanda, si agita in lui il sincero proposito di dargli una mano, nel segno di una generosità spontanea, che nasce dal cuore.

La dimensione positiva ed edificante che caratterizza il mondo degli umili, nonostante i loro limiti e le loro grettezze, acquista un rilievo ancor più robusto perché viene opposta da Manzoni alla dimensione complementare e negativa, quella dei “non umili”, capofila dei quali sono don Rodrigo e il conte Attilio. In queste due figure si assommano e condensano prepotenza, arroganza, falsità, viltà, opportunismo: nelle figure minori del capolavoro manzoniano non c’è traccia di questi contro-valori.

Il fondo popolano pervade di sé anche il quadro storico in cui è inserito il romanzo. La vicenda non investe, se non di passaggio, gli eventi politici, diplomatici, bellici che generalmente costituiscono la sostanza di un’opera di letteratura. E quando un avvenimento di vasta portata — il malgoverno spagnolo, la carestia, la peste — penetra nello svolgimento del racconto, esso non è concepito e trattato nell’ottica astratta e teorica propria dello storico di professione, ma in quanto strettamente legato alla vita degli umili, agitandoli, facendoli anche soffrire, fino a scuotere il placido candore e i delicati equilibri della loro coscienza.

In questa prospettiva si consuma un intrigante ribaltamento: i personaggi principali, in alcuni passaggi del romanzo, vengono trattati come “ombre” per dare maggiore risalto ai personaggi minori che, invece, si configurano come “luci”. Questo calcolo manzoniano non è studiato per sortire effetti ameni o spiazzanti. Affonda, in realtà, nelle radici di una religiosità, vissuta nell’intimo, che riconosce nel debole l’immagine esemplare di un’umanità che, pur peccaminosa, anela sempre con risoluta determinazione al riscatto e alla redenzione, nel segno del sacro timore di quel Dio che — come recita Il cinque maggio — «atterra e suscita», «affanna e consola».

di Gabriele Nicolò