· Città del Vaticano ·

Manzoni e Tolkien

L’epica del “popolo minuto”

 L’epica  del “popolo minuto”  QUO-283
11 dicembre 2023

A 50 anni dalla morte di J.R.R. Tolkien e a 150 anni da quella di Manzoni pubblichiamo il saggio uscito nel libro «Tolkien e i classici» (Eterea edizioni, 2015), uscito nell’ambito di un progetto dedicato a indagare il dialogo tra Tolkien e i grandi classici della letteratura mondiale.

Alessandro Manzoni muore a Milano il 22 maggio 1873, un secolo prima della morte di J.R.R. Tolkien che era nato in Sudafrica quasi venti anni dopo, il 3 gennaio 1892.

I due non si sono potuti incontrare anche se è molto probabile che Tolkien abbia conosciuto il nome e l’opera di Alessandro Manzoni la cui fama aveva ben superato la Manica (vedi il saggio di Alice Crosta sull’argomento, Alessandro Manzoni nei Paesi anglosassonihttps://www.peterlang.com/document/1053104).

Non sappiamo però se lo scrittore inglese abbia potuto leggere il capolavoro del romanziere milanese, ma siamo pronti a scommettere che se l’avesse fatto l’avrebbe senz’altro apprezzato: tra Il Signore degli Anelli e I Promessi Sposi esistono infatti diversi punti di contatto e di somiglianza. Proviamo ad evidenziarne qualcuno.

La Storia e la Fantasia


All’inizio e al termine del suo capolavoro Tolkien inserisce un Prologo e delle Appendici che servono ad inquadrare il romanzo visto non come un capriccioso esercizio della sua fantasia, ma come descrizione di una vicenda storica ben incardinata in un mondo precisamente compaginato e meticolosamente affrescato con cura in ogni suo anche minimo dettaglio, dalla flora alla fauna, dalle genealogie alle geografie, dai costumi sociali al sistema socio-economico della Contea come del resto della Terra di Mezzo. Il lettore si muove non all’interno di un mondo arbitrario, misterioso e instabile, ma di un universo di cui conosce le principali coordinate che lo scrittore offre sin dall’inizio in modo preciso e dovizioso.

Questo lungo e meticoloso Prologo, che può aver disorientato più di un lettore, comprende una fitta serie di informazioni sulla Terra di Mezzo, sugli hobbit, sull’uso del tabacco (o erba-pipa)… come se si trattasse di una guida turistica scritta per un Paese esotico e sconosciuto ma quanto mai reale. Per capire perché Tolkien faccia così può essere utile leggere quanto si era già accennato, una lettera (poi mai spedita) del 1956 indirizzata al poeta ed ex-alunno Wystan Hugh Auden in cui Tolkien afferma: «Io ho la mentalità dello storico. La Terra di Mezzo non è un mondo immaginario… Il teatro della mia storia è su questa terra, quella su cui noi ora viviamo, solo il periodo storico è immaginario» (Lettere n. 183).

La vicenda di Bilbo, Frodo e compagni, è ambientata, è messa in scena nel teatro della storia degli uomini, proprio come la vicenda di Renzo e Lucia, in ossequio alle regole del romanzo storico che Manzoni intende rinverdire e osservare.

Da quella lontana epoca della Terra di Mezzo, come si deduce dal Prologo, è giunta fino a noi, anzi fino alle mani del professore Tolkien, una traccia, un documento, un testo: Il Libro Rosso dei Confini Occidentali. Opera degli hobbit Bilbo e Frodo Baggins tale libro è stato custodito fino ai nostri giorni dai discendenti di Samwise Gamgee, giardiniere sia di Bilbo che di Frodo nonché ultimo portatore dell’Anello e rappresenta la fonte de Il Signore degli Anelli, anzi coincide con il romanzo che il lettore ha tra le mani.

L’espediente non è nuovo in letteratura.

L’argentino Borges, innamorato anch’egli delle leggende germaniche, più volte nei suoi racconti finge di non essere lui l’autore del testo ma di averlo solo “trovato”. E così fa il nostro Manzoni con il suo capolavoro.

Tolkien, proprio come Manzoni, fa finta che l’autore del romanzo non sia lui ma un altro: nella sua mente non esiste Il Signore degli Anelli ma solo Il Libro Rosso dei confini occidentali, il libro cioè che Sam apre e legge alla sua famiglia alla fine dell’avventura, come prevedeva la prima stesura del romanzo.

La fantasia c’è, e si sviluppa a 360 gradi con colori e tinte variegate, ma sempre all’interno dei limiti di una Storia che è già data, fissata, che mette ordine e imprime direzione alla vicenda liberamente inventata dallo scrittore.

Il Seicento della Lombardia e la fine della terza era della Terra di Mezzo sono la cornice che i due scrittori scelgono per dipingere il loro grande quadro, memori che la cosa più interessante di un quadro è proprio la cornice (secondo la lezione di Chesterton), segno di quell’auto-limitazione che è proprio dell’arte.

La Storia e le storie


Anche Manzoni ha scritto non un Prologo ma una Introduzione al suo romanzo che, a ben vedere, mostra altri punti di contatto tra i due narratori.

La prima parola dell’Introduzione de I Promessi Sposi è, come è noto, “L’Historia” che, secondo Manzoni (meglio: secondo il testo che Manzoni dice di aver trovato) «si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo...» Se il tempo, Krònos, divora e polverizza ogni cosa nel suo incessabile procedere, ecco che l’uomo, anzi lo storico, si contrappone a questo processo mettendosi controcorrente a compiere un lavoro di ricordo, ripescaggio, riesumazione, resurrezione.

Il problema che Manzoni intende evidenziare è racchiuso in quell’aggettivo “illustre”, cioè il fatto che la storia, come scienza storica, si è sempre impegnata a raccontare le vicende degli uomini illustri, dei grandi imperi, delle grandi gesta dei “grandi uomini”, perdendo così di vista una fetta enorme della vita degli uomini, finendo quasi per distorcere la visione corretta della storia umana che è fatta per lo più di piccoli uomini con le loro piccole storie e le loro grandi fragilità.

A questo errore di prospettiva Manzoni vuole provvedere con il suo romanzo che tiene insieme entrambi i livelli, l’Historia e le storie: in Manzoni e anche in Tolkien ritroviamo il doppio livello della piccola storia che si interseca con la grande Storia. Protagonisti del romanzo di Manzoni sono Renzo e Lucia, due semplici giovani del popolo che con le loro vicissitudini e peripezie finiranno per incrociare la grande storia del Seicento uscendone feriti, provati, rafforzati.

Un po’ come gli Hobbit di Tolkien, Bilbo e Frodo che entrano a buon diritto nella Storia e, per giunta, la “risolvono”.

Bilbo alla fine sarà coinvolto nella Battaglia dei Cinque Eserciti e Frodo addirittura sarà protagonista della sconfitta di Sauron, l’Oscuro Signore della Terra di Mezzo.

L’aspetto interessante è che Tolkien, seguendo l’insegnamento di Manzoni, non racconta questa storia “dall’alto” ma “dal basso”, non dà voce alla Historia, ma alle piccole cronache della Contea: la vicenda è tratta sì dalla History—of—the—Middle—Earth ma comincia con il racconto del compleanno del tranquillo (anche se “bizzarro”) messere Bilbo Baggins della Contea. Sauron, il “legittimo” signore degli anelli, il lettore non lo vede mai, è sempre una oscura presenza che però rimane sullo sfondo, e così anche i grandi re e sovrani della Terra di Mezzo, da Elrond a Galadriel, da Thranduil a Denethor a Theoden, non diventano mai protagonisti della vicenda se non quando incroceranno la via degli Hobbit, quelli che Manzoni avrebbe definito «gente meccanica e di piccolo affare». Questa via “dimessa”, così ricca di humour picaresco e understatement, è la via principale del racconto tolkieniano, così come il filo della storia di Manzoni si dipana seguendo le traversie di Renzo e Lucia. Questo fatto fondamentale ha una causa, la visione cristiana della storia, e e una conseguenza, la ricaduta stilistica della narrazione. Partiamo dalla seconda.

La storia e lo stile


Al termine dell’Introduzione a I Promessi Sposi Manzoni smette i panni dello storico “illustre” con il suo stile pomposo e solenne e dà vita al romanzo con la lingua che lo ha reso “il” romanzo italiano per eccellenza, l’unica opera letteraria che, anche dal punto di vista del canone adottato dalla scuola, può tenere il confronto con il poema cosmico di Dante, La Divina Commedia. Interessante è notare che anche il poeta fiorentino cinque secoli prima aveva realizzato un’analoga opzione stilistica: a Petrarca che gli suggeriva di comporre il suo poema in latino, Dante aveva preferito la scelta “popolare” dell’uso della lingua volgare.

Così Manzoni, la cui scelta stilistica è strettamente collegata con quella “filosofica”, sul senso della storia: se è necessario raccontare la piccola storia della “gente meccanica e di piccolo affare” non ha senso continuare a scrivere con lo stile, pedante e libresco, della grande Historia, perchè suonerebbe tutto stonato.

Il che non vuol dire una lingua semplice o sciatta, al contrario, Manzoni nel rinverdire i fasti del romanzo storico, sente la necessità di “risciacquare i panni in Arno”, di sottoporre la propria capacità espressiva, in particolare la propria lingua, ad un incessante lavoro e sforzo di scavo e affinamento. Mutatis mutandis Tolkien, nel recuperare l’epica, un genere antico quanto obsoleto nelle pagine della letteratura, ricorre al proprio vasto bagaglio scientifico contenente lo studio delle fonti delle antiche tradizioni e mitologie. Da questa passione per le lingue e le fonti antiche nascerà il cosiddetto Legendarium (quella History—of—Middle—Earth che il lettore italiano conosce solo attraverso Il Silmarillion, I Racconti Incompiuti, I Racconti Perduti e I Racconti Ritrovati) solo che, nel momento in cui lo scrittore darà vita al suo capolavoro si renderà conto che è necessario dismettere il tono aulico e arcaico di quelle antiche leggende perché al centro della storia non ci sono più gli “illustri” Elfi, ma i più dimessi e modesti Hobbit. Ma chi sono questi Hobbit?

La storia, gli umili e la Provvidenza


Gli Hobbit di Tolkien sono l’espediente letterario che permette allo scrittore, inglese cattolico, di esprimere la propria visione della storia. Come già detto prima, gli Hobbit sono quelli che Manzoni chiamerebbe “gente meccanica e di piccolo affare”, e questi “piccoli” sono proprio quelli che irrompono nella storia e la portano a compimento, permettendo il lieto fine di una vicenda ingarbugliata dalle trame dei grandi, potenti e “illustri” signori della Terra di Mezzo.

Il punto essenziale è che la soluzione del racconto si svolge, sia per Tolkien che per Manzoni sotto il segno della Provvidenza e dell’intervento della Grazia. In entrambi i romanzi il vero protagonista è quello nascosto: la Provvidenza divina che tutto muove e dirige, per vie misteriose e sorprendenti, verso la giusta meta.

Molto è stato scritto su questo argomento, in questa sede si dovrà necessariamente essere sintetici e far notare le analogie tra il viaggio (o l’esodo? l’esilio?) di Frodo e compagni e quello di Renzo e Lucia. Sia gli Hobbit di Tolkien sia la coppia Manzoniana vengono strappati dalla loro terra e buttati un po’ allo sbaraglio nel grande mondo. Eppure questi personaggi così semplici e apparentemente disarmati, riescono a resistere a tutte le peripezie, con un’eccezionale tenacia e un sorprendente coraggio. Non solo, essi dovunque andranno porteranno lo “scompiglio”, una piccola rivoluzione nei luoghi (e soprattutto nei cuori) che attraverseranno. Si pensi, in riferimento a Tolkien, a Lothlorien, a Fangorn, a Rohan, a Isengard e Gondor, per non parlare di Mordor: tutti luoghi che non saranno più come erano prima dell’avvento degli Hobbit. Un esempio per tutti per quanto riguarda I Promessi Sposi: la vicenda dell’Innominato. Una vera “rivoluzione” dove il ruolo della vittima e del carnefice si ribaltano per cui sarà il fosco Innominato ad aver paura della piccola e tremebonda ragazza e, parafrasando il Magnificat, il potente viene rovesciato dal suo trono e l’umile viene esaltata. Perché in fondo la “morale” dei due romanzi è la medesima ed è la stessa dell’inno cantato da Maria nel Vangelo di Luca: exaltavit humiles.

Renzo e Lucia, gli Hobbit, sono gli umili di cui parla la Bibbia, quegli uomini semplici di cui la Storia, quella Grande degli Uomini Illustri, non parlerà mai. L’umiltà è la vera virtù degli Hobbit che vivono nei buchi del terreno, questa Gente Bassa la cui esistenza si muove terra—terra; sono appunto “umili”, da humus, terra. Forse è la loro unica virtù visto che in verità, non sembrano possederne altre, a parte quella tenacia di chi sa stare ben piantato con i piedi per terra perché è amante della vita ma non al punto di non offrirla in sacrificio per un motivo grande. E qui emerge il tema del coraggio e della paura e quindi dell’umorismo, atteggiamento strettamente collegato, forse anche a livello etimologico, con l’umiltà. Gli Hobbit sono piccoli uomini che vivono nei buchi come i conigli (Hobbit non può non far pensare a Rabbit) e si rintanano tremebondi appena la Gente Alta si avvicina. Eppure questi stessi piccoli uomini pavidi saranno alla fine capace di grandi imprese degne dei più grandi eroi.

Il Mago Gandalf scommetterà su di loro, una follia che si rivelerà vincente. Tolkien scommette su di loro, perché li ama, e li guarda con quello sguardo di simpatia e pietà che è forse l’unico che permette la vera conoscenza. Tolkien e Manzoni conoscono il cuore dell’uomo e sanno che il coraggio non è l’assenza della paura ma è l’attraversamento e il superamento della paura.

Da questo conflitto tra paura e coraggio, e dal conseguente sguardo di pietà scaturisce l’umorismo, quel sottile umorismo di Tolkien ma anche di Manzoni, secondo l’intuizione di Pirandello che così scrive nel suo saggio L’umorismo: «il pauroso è ridicolo, è comico, quando si crea rischi e pericoli immaginarii: ma quando un pauroso ha veramente ragione d’aver paura, quando vediamo preso, impigliato in un contrasto terribile, uno che per natura e per sistema vuole scansar tutti i contrasti, anche i più lievi, e che in quel contrasto terribile per suo dovere sacrosanto dovrebbe starci, questo pauroso non è più comico soltanto. Per quella situazione non basta neanche un eroe come Fra Cristoforo, che va ad affrontare il nemico nel suo stesso palazzotto! Don Abbondio non ha il coraggio del proprio dovere; ma questo dovere, dalla nequizia altrui, è reso difficilissimo, e però quel coraggio è tutt’altro che facile; per compierlo ci vorrebbe un eroe» (Luigi Pirandello, L’umorismo, tratto da Saggi, poesie e scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio, Milano 1960).

Pirandello parla di Don Abbondio ma si potrebbe ritagliare questa descrizione sulla figura di Sam, al tempo stesso, fifone ed eroe. Partendo proprio da don Abbondio Pirandello svolge una riflessione illuminante: «Dove sta il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in Federigo Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli ascolta entro di sé anche la voce delle debolezze umane. Per la naturale disposizione dello spirito, per l’esperienza della vita, che gliel’ha determinata, il Manzoni non può non sdoppiare in germe la concezione di quell’idealità religiosa, sacerdotale: e tra le due fiamme accese di fra Cristoforo e del cardinal Federigo vede, terra terra, guardinga e mogia, allungarsi l’ombra di don Abbondio».

Anche il lettore di Tolkien, anziché vedere le fiamme accese della guerra tra le diverse torri della Terra di Mezzo, da Isengard a Barad—Dur, perché queste torri il lettore le vedrà solo nel momento del loro crollo definitivo, vedrà, “terra terra, guardinga e mogia, allungarsi” le piccole ombre degli Hobbit.

È questo l’umorismo “manzoniano” di Tolkien, ed è proprio l’umorismo che “salva” questi personaggi, da Sam a don Abbondio (non dimentichiamoci che alla fine sarà lui a celebrare le tanto attese nozze tra Renzo e Lucia), così come salva anche gli stessi due romanzi che, proprio come il poema di Dante, si rivelano delle “commedie” ed è forse questo il motivo del loro intramontabile successo.

di Andrea Monda