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La baia di Hann, in Senegal, sommersa dai rifiuti prodotti dai Paesi più sviluppati

Gli scarti del mondo

A woman walks with her daughter along Hann Bay in Dakar on September 29, 2023. Hann Bay, which ...
07 dicembre 2023

Un tempo, il nome “Baia di Hann” evocava un incontaminato tratto sabbioso lungo quasi 14 km, custode attento di numerosi villaggi di pescatori tradizionali e di una bellezza naturalistica senza pari. Ma quel tempo ormai è svanito ed oggi il nome “baia di Hann” indica una delle aree più inquinate di Dakar, capitale del Senegal.

Negli ultimi due decenni, infatti, quella che era una delle insenature più belle dell’Africa occidentale è diventata il centro dello sviluppo industriale, trasformandosi nel polo produttivo di almeno l’80 per cento delle imprese senegalesi. Il risultato? Un inquinamento ai massimi livelli, con liquami grezzi e sostanze chimiche a invadere la spiaggia e il mare, e montagne, letteralmente montagne di plastica e materiale di scarto a ricoprire la sabbia. Tanto più che nella zona sono presenti anche un mattatoio e una raffineria di petrolio.

Le conseguenze sulla popolazione locale si fanno sentire sempre più frequentemente e tra gli abitanti della zona si registrano patologie della pelle, problemi respiratori e gastroenteriti. A venir meno non è solo la salute, ma anche la fonte primaria di reddito, ovvero la pesca: dato l’alto livello di contaminazione del mare, nella baia di Hann ormai i pesci non ci sono più e i pescatori devono spostarsi altrove, se vogliono trovare qualcosa da vendere al mercato per sopravvivere.

Il disastro ambientale, ma anche umano, della baia di Hann non è l’unico del Senegal: oltre a Dakar, anche altri centri urbani del Paese sono privi di siti adeguati per lo smaltimento dei rifiuti e quasi il 70 per cento degli scarti solidi viene depositato in luoghi non autorizzati. Meno del 9 per cento della plastica prodotta sull’intero territorio, inoltre, viene riciclato e nei pochi casi in cui si attua il così detto “riciclaggio chimico” (ovvero la decomposizione dei polimeri dei rifiuti attraverso il calore o gli agenti chimici), in realtà si finiscono per diffondere emissioni inquinanti altamente nocive.

I dati statistici al riguardo non sono rassicuranti: secondo uno studio condotto nel 2022 dall’università di Bologna, il Senegal è il 21° più grande inquinatore di oceani a livello globale, pur avendo una superficie di soli 196.000 km quadrati che lo pone all’87° posto della classifica mondiale dei Paesi in ordine di estensione.

Le responsabilità di tutto questo, però, non vanno cercate sul territorio, o almeno non solo qui, ma anche altrove, tra i Paesi più avanzati, quelli del “nord del mondo” che usano la terra africana come una discarica, ricoprendola anche in maniera illegale con i loro rifiuti. Ne è esempio l’industria del fast fashion, rea di provocare cumuli di scarti tessili in molte parti dell’Africa: basti dire che il mercato di Kantamanto, in Ghana, accoglie circa 15 milioni di vecchi capi di abbigliamento a settimana.

Di fronte a tutto questo, risuona ancora più forte il grido lanciato da Papa Francesco durante il suo viaggio apostolico nella Repubblica Democratica del Congo, lo scorso gennaio: «Giù le mani dall’Africa! — ha invocato il Pontefice, deplorando il «colonialismo economico» dilagante — Basta soffocare l’Africa: non è una miniera da sfruttare o un suolo da saccheggiare. L’Africa, sorriso e speranza del mondo, conti di più» e «sia protagonista del suo destino!». (isabella piro)