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Hic sunt leones
Secondo l’Unctad ogni anno viene trafugato il 4 per cento del Pil africano

La sfida della lotta all’evasione fiscale

 La sfida della lotta  all’evasione fiscale  QUO-276
01 dicembre 2023

Ci sono alcune notizie che curiosamente (è un eufemismo s’intende) spesso non vengono sufficientemente mediatizzate quando si tratta di questioni che riguardano le legittime rivendicazioni dei Paesi africani. È emblematico quanto avvenuto il 22 novembre scorso a New York. Il cartello dei Paesi africani accreditati alle Nazioni Unite, guidato dalla Nigeria, ha presentato una risoluzione (A/C.2/78/L.18/Rev.1) che chiede di avviare un processo in due fasi per negoziare una convenzione quadro nell’ambito dell’Onu sulla cooperazione fiscale internazionale. I Paesi del cosiddetto Global South hanno avuto la meglio con 125 voti a favore, tra cui Cina e Russia, insieme a 51 delle 54 delegazioni africane. I voti contrari sono stati 48 e 9 le astensioni.

Ogni anno si perdono, a livello planetario, centinaia di miliardi di dollari per una perniciosa evasione fiscale da parte di aziende private e multinazionali, per non parlare dei flussi finanziari illeciti (Iff) che penalizzano fortemente il continente africano. Il voto rappresenta un passo fondamentale verso la tanto agognata riforma del sistema fiscale internazionale, aprendo la strada a un trattato internazionale. Amnesty International, esprimendo il proprio plauso per l’esito del voto, ha colto l’occasione per rilanciare il proprio appello affinché i diritti umani vengano posti al centro di ogni processo internazionale di riforma fiscale e di eventuali trattati. Stati Uniti, Giappone e Unione Europea (Ue), come era prevedibile, non hanno gradito questa iniziativa.

Ad esempio, nell’ottobre scorso, i ministri delle finanze dell’Ue avevano manifestato la loro contrarietà per il voto a favore di una convenzione fiscale dell’Onu finalizzata alla definizione delle regole di contrasto dell’evasione fiscale. Un organismo fiscale dell’Onu «rischierebbe di portare a una duplicazione del lavoro internazionale in corso o completato legato all’attuale quadro fiscale globale (…) Questo richiederebbe tempo a tutte le giurisdizioni», avevano dichiarato, senza mezzi termini, i ministri delle finanze dell’Ue.

È evidente che gli interessi in gioco sono tali per cui questi Paesi altamente industrializzati ritengono che sostenere la riforma avanzata dai Paesi in via di sviluppo determinerebbe — da loro punto di vista — un inutile doppione rispetto a quella che è oggi l’attuale operatività dell’Ocse sulla trasparenza fiscale. I ministri delle finanze dell’Ue preferirebbero un approccio più flessibile auspicando «un’agenda multilaterale non vincolante». La pensa diversamente Tijjani Muhammad-Bande, ambasciatore nigeriano al Palazzo di Vetro, il quale, a seguito della votazione del 22 novembre scorso, ha sottolineato che: «Adottare una convenzione quadro unificata, guidata dalle Nazioni Unite, per la cooperazione fiscale internazionale, apre le porte a notevoli vantaggi economici per tutti. Per le economie emergenti, ciò significa una maggiore capacità di mobilitare risorse nazionali, alimentando direttamente progetti di sviluppo e programmi di welfare sociale. Per le nazioni più sviluppate, promette condizioni di parità, riducendo i casi di evasione ed elusione fiscale che attualmente minano l’equità economica. Inoltre, dati recenti del Fondo monetario internazionale suggeriscono che il miglioramento della cooperazione fiscale internazionale potrebbe ridurre significativamente i flussi finanziari illeciti, una piaga che priva le economie, soprattutto quelle dei Paesi in via di sviluppo, di finanziamenti essenziali. Per tutti i Paesi, i flussi illeciti possono alimentare la criminalità, destabilizzando le società».

Da rilevare che il pensiero dei governi europei è paradossalmente in contrasto con una recente risoluzione del Parlamento europeo che sosteneva l’avvio di una convenzione fiscale delle Nazioni Unite per affrontare l’evasione fiscale e i flussi finanziari illeciti in seguito alle rivelazioni dei “Pandora Papers”. Per correttezza è bene rammentare che ogni anno, stando ai dati dell’Unctad, l’autorevole Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo sviluppo, quasi 90 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno del 4 per cento del Pil africano, viene trafugato dal continente sotto forma di Iff, vale a dire movimenti illegali di denaro e beni attraverso le frontiere che risultano, alla prova dei fatti, illegali nella fonte, nel trasferimento o nell’uso.

Di fronte a questo scenario i Paesi africani, che sostengono di essere tra i maggiori danneggiati da quella che è una vera e propria emorragia di denaro, stanno cercando, con la forza della persuasione, di spingere la riforma della politica fiscale globale nell’ambito della più ampia agenda di riforma del quadro finanziario multilaterale. Come dargli torto? Infatti, si fa presto a dire che il nuovo libero mercato africano, l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), è la più grande area di libero scambio al mondo dopo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), e che dunque, almeno sulla carta, potrebbe rappresentare l’asso nella manica per molti governi africani. Il problema è che perché questa iniziativa possa effettivamente decollare è importante consentire ai governi africani d’essere messi nelle condizioni di garantire un equo regime fiscale. In altre parole, per unificare le leggi e i regolamenti relativi allo scambio di beni e servizi nel continente, non si tratterà semplicemente di procedere alla rimozione delle barriere commerciali, ma occorrerà procedere alla scrittura di regole comuni per le imprese straniere, particolarmente le multinazionali. Pertanto le amministrazioni fiscali africane, nell’ambito dell’ AfCFTA, potranno degnamente ottemperare in rete e in modo efficiente il loro ruolo nella misura in cui i player internazionali avranno il garbo di cooperare laddove fino ad oggi è imperversata la “de-regulation”, quel liberalismo finanziario che consente il trafugamento di oltre il 4 per cento del Pil africano attraverso il fiume carsico dei flussi finanziari illeciti. Basti pensare che dal 2000 al 2015, questi capitali hanno raggiunto la stratosferica cifra di 836 miliardi di dollari. Questa fuga di capitali evidenzia, come già scritto in passato su questo giornale, un incredibile paradosso: rende infatti l’Africa un una sorta di creditore netto nei confronti del resto del mondo. Gli importi in questione sono enormi e superano di gran lunga le somme stanziate a titolo di aiuto pubblico allo sviluppo dei Paesi donatori. Ecco perché tra le clausole dei trattati fiscali, tuttora vigenti e certamente oggi da riscrivere, figurano quelle che trattano le affiliate di imprese multinazionali — ci sia consentito dire a dir poco indebitamente — come entità indipendenti separate. Motivo per cui molte multinazionali utilizzano queste affiliate per evitare di pagare le tasse nei Paesi africani in cui operano, anche attraverso quelli che la stessa UNCTAD definisce «prezzi di trasferimento illegali».

Secondo uno studio del progetto Africa Growth Initiative presso la Brookings Institution, autorevole centro di ricerca con sede a Washington, tra i primi 10 Paesi che registrano il maggior volume di flussi finanziari illeciti, ben 9 concentrano una parte significativa delle loro esportazioni totali sulle risorse naturali. Più precisamente Sud Africa, Repubblica Democratica del Congo, Botswana e Zambia nell’industria mineraria; mentre Nigeria, Repubblica del Congo, Angola, Sudan e Camerun nella produzione di gas e petrolio.

Una cosa è certa: per i Paesi africani e in termini generali quelli in via di sviluppo, la risoluzione A/C.2/78/L.18/Rev.1 di cui sopra rappresenta un faro di speranza. In termini generali pone le basi per l’ottenimento di quelle risorse finanziarie tanto necessarie, cruciali per rispondere all’attuale crisi del debito e facilitare il perseguimento del raggiungimento dello sviluppo sostenibile. La risoluzione è inoltre in linea con le aspirazioni africane delineate nell’Agenda 2063 dell’Unione Africana, consolidando l’impegno degli Stati membri a rafforzare i sistemi fiscali e promuovere l’equità fiscale.

di Giulio Albanese